Fine di un ciclo/2.
Un magro bilancio per l’istruzione

da TuttoscuolaNews, n. 609 18.11.2013

In che cosa è consistita la politica scolastica negli anni del berlusconismo trionfante? A questa domanda non è possibile dare una risposta in termini di idee guida e di progetti realizzati perché in realtà le idee sono rimaste poco più che slogan elettorali e i progetti, quando hanno preso la forma di provvedimenti legislativi o amministrativi, hanno avuto nella maggior parte dei casi uno scarso o nullo impatto innovativo, essendosi la loro implementazione appiattita in una serie di compromessi con la realtà giuridica, organizzativa e amministrativa esistente.

Esempi del primo tipo (idee guida risoltesi in slogan) sono le ‘tre i’ del programma elettorale di Forza Italia nel 2001 e l’appello alla ‘meritocrazia’ lanciato da Mariastella Gelmini nel 2008. Della radicale modernizzazione del sistema scolastico promessa e potenzialmente contenuta nella triplice parola d’ordine ‘Internet-Inglese-Impresa’ non si è avuta alcuna traccia concreta, avendo anzi la scuola italiana accumulato ulteriori gravi ritardi nel campo dell’innovazione tecnologica, dell’apprendimento (serio) dell’inglese e del rapporto tra scuola e mondo del lavoro. E di premi per studenti, insegnanti e dirigenti scolastici ‘meritevoli’ si è visto ben poco durante la gestione gelminiana del Miur, anche per la resistenza opposta da molte parti.

Esempi del secondo tipo (progetti, leggi) sono la riforma Moratti e il ritorno al ‘maestro unico’ tentato dalla Gelmini. La riforma Moratti, partita con l’affermazione di principio della ‘pari dignità’ di due grandi canali formativi, quello liceale e quello tecnico-professionale, si è tradotta nella pseudolicealizzazione degli istituti tecnici (rimasti in realtà tali e quali, tanto è vero che il ministro Fioroni non ha avuto alcuna difficoltà a ripristinarli), nella marginalizzazione dell’istruzione professionale e nella riconferma della gerarchizzazione tra i percorsi formativi. Quanto al ‘maestro unico’ si è trasformata in un’operazione tesa soprattutto a ridurre il numero e il costo complessivo dei maestri più che a ripristinare la figura professionale di un tipo di maestro che l’evoluzione dei fabbisogni formativi degli studenti (e delle competenze dei docenti) ha reso inattuale.

Da ultimo (but not least) va ricordato che nella lunga stagione berlusconiana la spesa per l’istruzione sul PIL è calata (fonte: MEF-RGS, aprile 2013) dal 5,1 del 1994 (media UE 5,4) al 4,7 del 2001 (UE 5,4) al 4,6 del 2008 (UE 5,4) fino al 4,2 del 2011 (UE-27 5,3). Insomma in 17 anni (dieci dei quali con il centrodestra al governo, cioè tanti, ma per altri sette ha governato il centrosinistra, che non si può tirare indietro) l’incidenza percentuale della spesa per l’istruzione sul PIL si è ridotta del 18%, divaricando sempre più dal trend europeo. E nel 2013, per fare un solo esempio (ma significativo) sono solo 14 su 8.639 le scuole italiane completamente digitalizzate.

Ripensando a quei grandi cartelloni sei per tre della campagna elettorale del 2001 (“le 3 ‘i’: Inglese, Internet, Impresa: per una scuola che davvero prepari al futuro”, con il mezzobusto del Cavaliere in primo piano), viene da chiedersi: ha perso Berlusconi o le responsabilità sono di chi lo ha combattuto? Non lo sappiamo. Quel che è certo, purtroppo, è che ha perso la scuola…