Le insidie della valutazione Questo articolo è uscito sul numero 18 de “Gli asini”, ottobre/novembre 2013. Abbonati ora per avere la versione cartacea. di Mauro Boarelli, gli asini 1.11.2013 “[…] Tu dovresti essere nella progettazione.” “Non ho attitudine alla progettazione” disse Bud. “I test lo hanno dimostrato.” Ci doveva essere anche questo, sulla sua scheda sfortunata. C’erano tutti i risultati del suo test attitudinale: immutabili, irrevocabili, e la scheda aveva sempre ragione. “Ma tu sai progettare” disse Paul. “E lo fai con più estro e fantasia delle primedonne del laboratorio.” […]
“Ma il test dice di no” disse Bud.
Una macchina onnivora La mutazione è sotto gli occhi di tutti. Nel giro di pochi anni, nuove e invasive tecniche di valutazione hanno assunto un ruolo cruciale nel sistema dell’istruzione, dalla scuola primaria fino all’Università. Si tratta di tecniche differenziate a seconda dei destinatari e delle funzioni specifiche assegnate di volta in volta, ma accomunate da una medesima filosofia fondata sulla misurazione standardizzata e sull’approccio quantitativo. I test Invalsi ne sono l’esempio più noto e discusso. Ogni anno circa due milioni e duecentomila studenti vengono sottoposti a questionari – in gran parte a risposta chiusa – che dovrebbero offrire una misura “oggettiva” delle competenze offerte dal sistema di istruzione nazionale. Lo stesso strumento è stato adottato anche per valutare gli studenti: i test – infatti – sono una delle prove dell’esame di terza media e presto verranno introdotti come parte integrante dell’esame conclusivo alle scuole superiori. Si tratta di un’enorme operazione di rilevazione e valutazione standardizzata completamente estranea al contesto quotidiano dell’insegnamento e dell’apprendimento, imposta ai docenti – che si trovano ad agire come semplici esecutori, spogliati dalla funzione valutativa che è strettamente connessa al loro mestiere – e agli studenti, costretti a rispondere (spesso con un criterio necessariamente opportunistico) a domande concepite in modo tale da vanificare l’approccio critico che dovrebbe rappresentare l’obiettivo principale della loro formazione. (Tra le analisi più acute sui test segnalo I signori Invalsi di Adriana Presentini – sul sito www.carmillaonline.com – e l’intervento di Girolamo De Michele nelle pagine di questa rivista). Anche il sistema universitario è stato investito da un processo di ristrutturazione che passa principalmente attraverso il mutamento radicale dei meccanismi di valutazione. Reclutamento dei docenti, didattica e ricerca sono ora governate da un complicato sistema di rilevazioni che privilegia criteri quantitativi e da un proliferare di norme, regolamenti, comitati, schede, indicatori: una burocrazia tentacolare che pretende di controllare, giudicare e modellare a propria immagine e somiglianza ciò che non conosce. Questo sistema dalle dimensioni sempre più imponenti è strutturato intorno a due agenzie di valutazione, l’Invalsi (per la scuola) e l’Anvur (per l’università), freddi acronimi cui corrispondono grandi e costosi apparati burocratico-tecnocratici dotati di ampi poteri discrezionali e ingenti risorse economiche. Possono contare sull’appoggio di un esteso e aggressivo sistema di persuasione al quale partecipano i principali organi di informazione e numerosi intellettuali di orientamento diverso, tutti ugualmente affascinati dalla promessa della definitiva affermazione del “merito” nella società italiana. Il loro ruolo è quello di rappresentare il sistema di valutazione come oggettivo e neutrale, e dipingere (e possibilmente ridicolizzare) le posizioni critiche come ultimo frutto bacato di un’ideologia egualitaria nostalgica e conservatrice, fondata sul rifiuto tout court della valutazione. Questa trasformazione non nasce all’improvviso. In un articolo comparso alla fine degli anni novanta – ripreso e aggiornato in questo numero – Guido Armellini aveva analizzato i test che in quel periodo si affacciavano nel mondo della scuola, individuando tra gli scopi principali quello di rimuovere la soggettività di insegnanti e studenti – percepita come intralcio alla pretesa “oggettività” della valutazione – e di segmentare la didattica in modo da renderla funzionale alla misurazione degli apprendimenti. In quei primi esperimenti condotti vent’anni fa c’erano già tutti gli ingredienti di un’operazione che oggi viene portata a compimento e realizzata su larga scala, nel quadro di un clima politico e culturale radicalmente mutato. E’ un’operazione che investe anche altri settori oltre a quello educativo, in particolare la pubblica amministrazione e il sistema sanitario, e tende quindi a coinvolgere indistintamente tutti i cittadini in molti e cruciali aspetti della loro vita quotidiana.
Una marcia senza ostacoli Le nuove tecniche di valutazione stanno trasformando silenziosamente e in modo radicale l’intero sistema di istruzione: i presupposti culturali, le metodologie didattiche, la relazione tra i docenti e gli studenti, i temi e gli obiettivi della ricerca, gli esiti sul piano sociale. Ancora una volta i test Invalsi sono una cartina di tornasole del mutamento in atto. L’addestramento ai test, infatti, è già una realtà diffusa e sta diventando un fenomeno rilevante, come dimostra anche l’esistenza di un fiorente mercato editoriale specializzato in questo ramo. Non solo i test pretendono di misurare ciò che non è misurabile, ma inducono anche a insegnare solo ciò che è misurabile o si pretende tale. D’altra parte, se la valutazione è progressivamente ridotta a misurazione, allora la qualità deve coincidere in misura sempre maggiore con la quantità: la quantificazione sta rapidamente diventando l’unico meccanismo di valutazione accettato e riconosciuto, mentre la qualità non misurabile rischia di perdere definitivamente ogni riconoscimento sociale. Nonostante stiano provocando una trasformazione estesa e profonda, le nuove tecniche di valutazione stanno dilagando senza troppi intralci. Certo, producono dibattito e conflitto, e sulla loro strada incontrano un dissenso crescente. Ma è un dissenso che – finora – non ha prodotto una “massa critica” in grado di rallentarne l’avanzata o mettere in seria difficoltà le agenzie di valutazione e i loro sponsor culturali e politici, equamente suddivisi tra tutti gli schieramenti. Questa debolezza nell’opposizione alla valutazione standardizzata deve essere interrogata. Alcune riflessioni proposte da Enrichetta Susi quasi vent’anni fa possono fornire una prima risposta. La scuola e l’università – sosteneva – sono accomunate dall’assenza di luoghi e forme pubbliche e riconosciute di valutazione della qualità dell’insegnamento e del valore degli insegnanti. E’ vero che il giudizio deve essere relativo alla singolarità della persona, ma quel giudizio deve circolare, deve essere spendibile anche all’esterno della relazione tra docente e studente, tra il ricercatore e il proprio lavoro. “La misura del vivente è scientifica quando riesce a tenere insieme queste due cose: da un lato non trascura la singolarità della persona che è oggetto della misura (il vivente non è mai uguale a se stesso, perché si evolve, e non è mai perfettamente uguale ad un altro) e dall’altro è capace di trovare nella stessa relazione gli elementi che permettono di dirla, di renderla circolante e spendibile all’esterno” (La misura del vivente, Ipazia, 1994). La mancanza di circolazione ha contribuito a indebolire le difese contro un modello di valutazione che oggi si presenta come un corpo estraneo rispetto al lavoro educativo, ma al tempo stesso gode di maggiore popolarità in quanto fondato sull’idea – falsa ma attraente – dell’oggettività, contrapposta a quella – reale ma scomoda – dell’arbitrarietà, componente ineludibile di ogni valutazione fondata sulla relazione. Questa debolezza storica della valutazione e della sua legittimazione sociale è diventata più acuta man mano che l’ideologia meritocratica penetrava nel senso comune.
La predica della meritocrazia Dobbiamo a due romanzi utopici – o per meglio dire distopici, perché costruiti intorno a un’utopia negativa – la rappresentazione più incisiva e demistificante della meritocrazia. Il primo in ordine di tempo è Player Piano (Piano meccanico), che nel 1952 segnò l’esordio letterario di Kurt Vonnegut. Il racconto ruota intorno a Paul Proteus, giovane brillante e promettente tecnocrate che – nel punto cruciale della sua carriera – si ribella al sistema sociale che lo ha prodotto, un sistema basato sulla meccanizzazione estrema affidata al controllo di una ristretta élite di tecnici qualificati e sull’espulsione della forza lavoro specializzata, degradata allo svolgimento di banali lavori manuali e segregata in quartieri standardizzati e alienanti. La nuova stratificazione che divide la società in due blocchi contrapposti e fra loro impermeabili è regolata da un rigido sistema di valutazione basato sui test attitudinali a cui tutta la popolazione deve sottoporsi al termine degli studi. La misura del quoziente di intelligenza e delle predisposizioni “naturali” viene cristallizzata in un giudizio – immodificabile nel tempo – che assegna automaticamente e senza appello i singoli individui all’uno o all’altro polo della scala gerarchica. Sei anni più tardi viene pubblicato The Rise of Meritocracy 1870-2033, scritto dal sociologo laburista inglese Michael Young (tradotto in italiano nel 1962 dalle edizioni di Comunità di Adriano Olivetti con il titolo L’avvento della meritocrazia). Young narra l’involuzione di una società che pretende di abolire i privilegi garantiti dalla nascita e dalla ricchezza sostituendoli con i “meriti” derivanti dall’intelligenza, la cui valorizzazione sarebbe garantita dall’uguaglianza delle opportunità. Fulcro di questa trasformazione è il sistema scolastico, non più organizzato in maniera egualitaria ma differenziato in base alle capacità individuali e canalizzato in modo precoce e rigido. La misurazione delle capacità è affidata a strumenti mutuati direttamente dall’organizzazione scientifica del lavoro introdotta da Taylor, strumenti che trasformano gradualmente i metodi e gli obiettivi dell’istruzione portandola a coltivare esclusivamente un’intelligenza utilitaristica e pratica. In definitiva, nel nuovo sistema educativo l’intelligenza viene identificata con la produttività e la sua misurazione riproduce l’organizzazione e le gerarchie del modello industriale, dando luogo a una stratificazione sociale ancora più netta rispetto a quella che si pretendeva di abolire (per un’analisi più ampia rinvio al mio articolo L’inganno della meritocrazia, in “Lo straniero”, n. 118, 2010). Concepiti entrambi negli anni della ricostruzione postbellica, i due romanzi sono accomunati da una lucida visione delle diseguaglianze sociali implicite nelle ideologie tecnocratiche e del ruolo cruciale che in tali ideologie rivestono i sistemi di valutazione standardizzati e focalizzati sulle capacità attitudinali richieste dal sistema produttivo. E’ proprio Young – con questo romanzo – a inventare il termine meritocrazia, il cui significato è però destinato a mutare nel tempo fino ad assumere una connotazione – oggi dominante nell’uso corrente – opposta a quella immaginata dal suo creatore. Il sociologo – infatti – aveva coniato questo neologismo con un’accezione decisamente negativa, e suo malgrado si è visto cucire addosso la paternità di un concetto spacciato come chiave per una trasformazione sociale nel segno del’equità e della giustizia. Questo slittamento dal significato originario della parola dice molto a proposito della potenza del suo contenuto. E’ un contenuto seduttivo, perché promette a ciascuno ciò che è garantito a pochi, e fa sperare a tutti che le rendite di posizione vengano scardinate da un sistema finalmente in grado di premiare le competenze, lo studio, l’impegno. Ed è seduttivo anche perché occulta abilmente i presupposti ideologici che lo nutrono e che rendono falsa la promessa. Meritocrazia, infatti, è un concetto che esalta l’individualismo e la competizione, e quindi porta i meccanismi del mercato fin dentro il sistema educativo alterandone in modo irreversibile la fisionomia. La promessa di una società più ugualitaria perché liberata dal privilegio è tradita dall’abbandono degli ideali egualitari e universalistici dell’istruzione. Young aveva messo a nudo la sostanza nascosta dietro l’apparenza, ma oggi il clima culturale dominante è tale da rendere le sue parole vane, perché filtrate da un meccanismo di autocensura preventiva che la società opera su se stessa per regolamentare ciò che va accolto e ciò che va espulso dal discorso pubblico. Tra le maglie di questo filtro rimangono il più delle volte impigliati proprio i punti di vista critici sul mercato.
Il mercato a scuola Sarebbe interessante poter datare con esattezza l’ingresso del mercato nel mondo della scuola. Di sicuro la legge sull’autonomia scolastica voluta dal ministro Luigi Berlinguer nel 1999 rappresenta un passaggio importante di questo processo. Da quel momento ogni istituto deve dotarsi di un proprio Piano dell’offerta formativa. L’introduzione del criterio dell’offerta ha attivato meccanismi di competizione tra istituti (anche nella scuola dell’obbligo) e ha messo i genitori nella condizione di coloro che attivano la domanda, contribuendo a trasformarli da cittadini a clienti. Nello stesso tempo, gli studenti vengono educati a riconoscere se stessi come debitori e creditori. Debiti e crediti scolastici sono – infatti – altri due concetti chiave della scuola “autonoma”, e tra i secondi sono compresi anche i cosiddetti crediti formativi, utilizzati per estendere la valutazione scolastica alle attività svolte nel tempo libero. Ciò che i ragazzi fanno per propria scelta e per il proprio piacere – lo sport, il volontariato o l’attività scoutistica, ad esempio – viene fagocitato dall’istituzione scolastica e restituito in termini di utilità, monetizzando le passioni personali, l’altruismo, il dono, ovvero tutto ciò che per definizione non ha prezzo o contropartite. Non si tratta – è evidente – solo di parole. Il linguaggio non è neutrale e veicola messaggi precisi. Questo linguaggio mutuato dall’economia ha dissodato il terreno e lo ha preparato a una coltura ancora più invasiva: la valutazione quantitativa e standardizzata basata sulla misurazione. Tuttavia la misurazione è possibile solo in quanto estrae dalla conoscenza determinati contenuti e ne tralascia altri. E’ un’estrazione arbitraria, ma non casuale. Il suo fondamento sta in una filosofia dell’utilitarismo che orienta l’attenzione solo verso ciò che è immediatamente spendibile. Attraverso il sistema di valutazione basato sulla misurazione, la scuola viene indirizzata a produrre solo la conoscenza che è richiesta dal sistema produttivo e dal mercato. Questo è il punto cruciale, come ha mostrato Valeria Pinto in uno studio assai denso e stimolante (Valutare e punire, Cronopio, 2012). Partendo dalla constatazione che nella società contemporanea il mercato viene imposto come sistema regolativo universale e la forma dell’impresa viene estesa all’intero tessuto sociale, Pinto argomenta che questa colonizzazione può avvenire solo introducendo i principi del mercato laddove il mercato non c’è, creando artificialmente forme di concorrenza. Le nuove tecniche di valutazione hanno questo scopo: introdurre meccanismi di competizione nella scuola, creare mercato dove prima non sarebbe stato possibile immaginarlo. In definitiva, la meritocrazia rappresenta la cornice ideologica entro la quale il mercato e le diseguaglianze da esso prodotte diventano accettabili e addirittura desiderabili, mentre i sistemi di valutazione quantitativi e standardizzati introducono il mercato nella scuola, senza però nominarlo.
Valutazione e autoritarismo Il sistema di valutazione è in gran parte incorporato in pratiche quotidiane e informali, sottratte a luoghi decisionali democratici, rappresentativi e trasparenti. In questa opacità si annidano e si diffondono i germi dell’autoritarismo. Le dinamiche sono simili a quelle individuate all’inizio degli anni settanta nell’opera collettiva L’erba voglio (Einaudi, 1971). In quel volume, lo psichiatra Elvio Fachinelli, insieme agli insegnanti e agli operatori sociali con cui condivideva alcune esperienze antiautoritarie nella scuola, aveva messo a fuoco come l’autorità non fosse più in grado di istituirsi in modo positivo. La risposta delle istituzioni a questa crisi stava nel corrompere l’autorità in autoritarismo, ovvero in un insieme di rapporti di potere gestiti in modo burocratico. All’interno di questa logica, prendeva forma un processo che tendeva ad “alleggerire i meccanismi di selezione e discriminazione interni alla scuola, spostandoli all’esterno”, riconducendo “ad esigenze generalissime, anonime e superiori, le istanze regolanti la scuola”. Questa strategia di depersonalizzazione dei rapporti, che per Fachinelli e i suoi collaboratori mirava a porre “gli individui sotto la coercizione anonima del potere”, si ripresenta oggi sotto forme simili attraverso i nuovi strumenti di valutazione, rappresentati come oggettivi e amministrati da entità esterne alla scuola, depositarie di competenze tecnocratiche che sostituiscono quelle didattiche e pedagogiche. Ma l’autoritarismo viene declinato anche in un’altra forma, anch’essa individuata con lucidità dagli autori di L’erba voglio: la definizione rigida di competenze, oggi incarnata in una tecnocrazia sempre più separata dalla società, serve anche a creare un confine rigido che esclude i “non competenti” (i cittadini che mandano a scuola i propri figli, ad esempio), li espelle da qualsiasi processo decisionale o partecipativo, mette a tacere ogni punto di vista potenzialmente dissenziente. Nel discorso sulla valutazione, infatti, le forme di dissenso non sono tollerate: i solerti guardiani del sistema – politici, opinionisti, funzionari ministeriali, dirigenti scolastici, “esperti” di valutazione – adottano di volta in volta la lusinga, l’invettiva, la censura preventiva, la minaccia velata o esplicita, la sanzione disciplinare, per cercare di neutralizzare i timori e le critiche di insegnanti, studenti, genitori e pedagogisti non rassegnati alla mutazione radicale che avviene sotto i loro occhi ma che al tempo stesso pretende di sottrarsi alla loro vista. Le forme attuali di valutazione stanno penetrando nel senso comune non in virtù della loro forza esplicativa, del loro rigore metodologico e della loro coerenza con l’impianto pedagogico del sistema scolastico, ma per l’efficacia delle tecniche di illusionismo con cui vengono esibite. Bisognerebbe – a questo proposito – rileggere le splendide pagine di Thomas Mann, che nel suo racconto Mario e il mago – pubblicato nel 1930 – ci ha mostrato come l’illusionismo possa minare la democrazia e aprire la strada all’autoritarismo. |