FIGLI DI IMMIGRATI E INTEGRAZIONE Classi uniche, uguaglianze illusorie di Michele Zappella*, Il Corriere della Sera 15.11.2013
Caro Direttore, Monique è una ragazza di quindici anni che viene dal
Centro-Africa. Alta, il viso ovale, con quel tratto di melanconia
che a volte hanno i ragazzi che vanno male a scuola, al suo arrivo
in Italia venne subito messa in una quinta elementare, quando ancora
non conosceva la nostra lingua e quindi non capiva nulla di quello
che si diceva della sua classe. Figuriamoci poi come socializzava!
Nel suo paese d’origine, in una scuola di lingua francese, aveva un
buon profitto scolastico, ma dopo l’ingresso nella scuola italiana
tutto è stato difficile: le medie le ha fatte stentatamente e alla
prima superiore è stata bocciata. Ora ha cambiato indirizzo, è di
nuovo in un’altra prima superiore. Le do qualcosa da leggere e la
lettura formale è piena di intoppi e di errori: in queste condizioni
leggere è una fatica improba e tuttavia riesce ugualmente a capire
il significato del breve brano che le ho proposto, probabilmente
perché ha una buona intelligenza. Anche nel parlare non è
completamente padrona dell’italiano che nessuno le ha insegnato
seriamente. Mi è stata portata in visita perché disattenta, ma di un
problema specifico non c’è traccia: è comprensibile che non
conoscendo bene la nostra lingua la sua attenzione a scuola sia poco
costante. È un paradosso: ma la curiosa “integrazione” che la nostra scuola propone ai figli degli immigrati in realtà li emargina in classe a causa delle gravi difficoltà a comunicare con i propri compagni e prepara con loro un destino di emarginazione sociale e lavorativa. Precisamente come quarant’anni fa facevano le scuole differenziali e speciali, che prendevano i figli dei nostri emigrati del sud. Erano bambini normali, il cui limite era soltanto il dialetto e nella deprivazione culturale familiare, ma venivano messi in classi in cui poteva succedere che la prima si dovesse fare due volte, nello stesso modo la seconda, e così via: catalogati insieme ai disabili, ricevevano un tipo di educazione impoverita, che li condannava nel futuro ad un percorso lavorativo di quart’ordine. Un risultato analogo viene prospettato nell’oggi per i figli degli immigrati stranieri, anch’essi bambini normali il cui limite è solo nel non conoscere la lingua del Paese che li accoglie.
A ben guardare, l’atteggiamento della scuola verso i disabili e quello
verso gli immigrati hanno un tratto in comune, quello di prevedere
una soluzione valida per tutti, sempre per la paura “che si sentano
esclusi”. E la soluzione è “tutti in classe”, senza tener conto
delle diverse esigenze, per esempio dell’insofferenza al rumore di
molti bambini autistici, o, appunto, della necessità di imparare la
lingua italiana per seguire le lezioni.
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