Lo Stato non sa gestire la scuola

La lasci governare in piena autonomia dagli insegnanti

di Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 23.11.2013

È la bestia nera di certi sindacati della scuola e di qualche madrassa di pasdaran accademici, un po' come il fratello, Pietro, lo è per la Cgil e la Fiom. Andrea Ichino, classe 1959, ordinario di Economia politica a Bologna e all'Istituto Universitario Europeo di Fiesole (Firenze), formatosi alla Bocconi (tesi con Mario Monti), al Mit di Boston e quindi al lavoro di ricerca nell'Igier di Francesco Giavazzi, Andrea Ichino, dicevamo, non la smette infatti di dire la sua su ciò che, nella nostra scuola e nella nostra università, non va.

Lo ha fatto con alcuni libri, Facoltà di scelta, scritto con Daniele Terlizzese, uscito per Rizzoli, e Liberiamo la scuola, firmato anche da Guido Tabellini e edito dal Corriere della Sera, nella collana I Corsivi, libri che, a mesi dall'uscita, suscitano ancora discussioni e reazioni stizzite.

Domanda. La scuola e l'università italiane paiono aver raggiunto il punto più basso di una lunga crisi. Che sta succedendo?

Risposta. Lo Stato non perde occasione per dimostrare la sua incapacità di gestire scuole e università, scontentando tutti, a destra e sinistra, per motivi opposti. Ma anche scontentando tutti, semplicemente, perché è inefficiente nel raggiungere obiettivi che non sono né di destra né di sinistra, come quello di selezionare in tempi rapidi insegnanti e professori universitari in modo da consentire una efficace pianificazione dei processi formativi.

D. E dunque che cosa si potrebbe fare?

R. Consentire l'“opting out” dalla amministrazione statale. Ossia consentire a chi vuole gestire in modo diverso scuole e università di poterlo fare in modo completamente autonomo riguardo alla gestione delle risorse, soprattutto umane, e della offerta formativa. Una sperimentazione su base volontaria, anche di pochi istituti per cominciare.

D. Che soggetto giuridico potrebbero diventare?

R. Le configurazioni le individueranno i giuristi, certo la fondazione potrebbe essere la più semplice.

D. Un'autonomia spinta...

R. Sì, ma poiché l'autonomia senza valutazione è pericolosa, lo Stato deve fornire agli utenti tutte le informazioni elementari necessarie perché possano scegliere le scuole e le università che preferiscono, convogliando verso di esse le risorse pubbliche.

D. Il che significa che a valutare sarebbero i cittadini...

R. Si: sarebbero gli utenti con le loro scelte.

D. Sulla scuola, tra l'altro, nessuno pare seriamente interessato a rivedere il reclutamento. I concorsoni paiono insuperabili e, di pari passo, si immettono in ruolo schiere di precari, per il solo fatto che hanno collezionato incarichi a termine per molto tempo...

R. Appunto: il reclutamento è uno degli esempi più macroscopici dell'incapacità dello Stato di gestire la scuola. Soprattutto perchè le ricerche scientifiche più attendibili suggeriscono che per fare delle buone scuole ci vogliono soprattutto buoni insegnanti: le architetture istituzionali e perfino le altre risorse sono secondarie.

D. E per fare i buoni insegnanti?

R. I buoni insegnanti vanno selezionati con attenzione tra i migliori laureati, che quindi devono essere attratti alla professione docente con carriere e retribuzioni adeguate, ma non garantite a tutti indipendentemente dalle capacità e dal merito. Tra l'altro, la formazione serve a poco..

D. In che senso, professore?

R. Nel senso che insegnanti bravi si è, non si diventa! Anche perchè quelli bravi davvero non hanno bisogno che qualcuno gli dica se e come fare formazione e aggiornamento.

D. Lei parla di incapacità dello Stato a gestire. L'ha detto anche lo storico Alfonso Scotto di Luzio da queste colonne: il ministero della Pubblica istruzione è fallito.

R. Infatti. E dato il fallimento della macchina statale, è giunto il momento di consentire alle scuole che lo desiderano, di uscire dal sistema per potersi scegliere liberamente gli insegnanti, offrendo loro le retribuzioni e le prospettive di carriera che ritengono più adatte.

D. C'è un
tema ulteriore: il principio stesso di valutazione genera crisi di nervi. Ogni anno, i test Invalsi vengono visti come il cavallo di troia che porterà al giudizio dei docenti. È una battaglia persa, secondo lei?

R. Assolutamente no! Anzi pian piano una frazione sempre più ampia di popolazione si rende conto che i test Invalsi svolgono la stessa funzione del termometro per il corpo umano. Offrono indicazioni fondamentali, anche se ovviamente non esaustive, sulla esistenza di possibili patologie nel funzionamento di una scuola e nell'operato dei suoi insegnanti.

D. Ma il termometro da solo non basta per fare una diagnosi

R. Verissimo! Infatti i test Invalsi sono solo un parametro, per'altro utilizzato in tutto il mondo, ma non possono né debbono essere l'unico. D'altro canto, il contrasto acceso sulle modalità della valutazione in Italia mostra che il problema è trovare un accordo su quali parametri utilizzare.

D. Per cui, lei suggerisce, lasciamo valutare gli Italiani...

R. Certo. Con i parametri che preferiscono. Ma devono essere sufficientemente informati dallo Stato su tutti i dati elementari necessari per farsi un opinione riguardo ai parametri preferiti. Non ho paura di dirlo: auspico una valutazione “fai da te”.

D. Secondo alcuni la rottura del monopolio statale e l'introduzione di una autentica parità scolastica col privato, potrebbe essere un modo per rivitalizzare il sistema. Ma già la parità esistente, è sottoposta ad attacchi massimalisti, vedi il caso delle materne di Bologna, o scelte amministrative ideologiche, come a Milano.

R. Il problema è mal posto. Lo Stato ha tre funzioni possibili nell'erogazione di servizi pubblici: finanziamento, regolazione e gestione diretta. Tuttavia esistono numerosi esempi di servizi che sono e rimangono pubblici anche se la terza funzione non è nelle mani dello Stato centrale ma di soggetti diversi. Pensiamo ad esempio ai trasporti pubblici, che in molti casi sono finanziati e regolati dallo Stato ma gestiti da altri. Le mie proposte però non riguardano le scuole private.

D. Quindi, quando vi accusano di voler privatizzare, dicono scempiaggini...

R. A me interessa solo consentire alle scuole e università pubbliche di essere gestite in autonomia da soggetti diversi dallo Stato Centrale, che ha dimostrato fino ad ora la sua incapacità di gestore.

D. E l'università? Fine a qualche anno fa tutto era basato sull'idea di un'autonomia irresponsabile: noi, atenei, spendiamo, tu Stato, paghi a piè di lista. Senza neppure valutarmi. La crisi ha riportato tutti sulla terra. Ora la linea Maginot è evitare qualsiasi forma di governo dell'università che in qualche modo punti su obiettivi in maniera differenziata. L'accenno di Matteo Renzi sulla realizzare cinque «hub della ricerca», ossia creare altrettante researching universities, è stato accolto con scherno da alcuni accademici.

R. Non posso che ripetermi: finiamola di affidare allo Stato le decisioni che non è in grado di prendere. Sulla proposta di Renzi sono contrario anche io ma per motivi diversi da quelli di vuole che nulla cambi.

D. E perché, professore?

R. Perché il problema non è se fare “per decreto” 5 o 10 hub della ricerca. Perché per farli bisognerebbe prima essere d'accordo sui criteri per stabilire chi fa buona ricerca e quali debbano essere i campi di indagine da privilegiare. Questo accordo purtroppo non sembra esserci in Italia, come dimostrato dalle infinite critiche all'operato dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario - Anvur. Il punto quindi è affidarsi al mercato, come negli USA, dove non esiste qualcosa di analogo all'Anvur perché la valutazione è fatta dagli utenti della didattica e della ricerca. Tra questi ovviamente ci sarebbe anche (ma non solo) lo Stato, con una sua agenzia per il finanziamento della ricerca, che dovrebbe copiare il modello di successo degli Europan Research Grants o dei National Science Foundation grants in USA. E ciascuno poi competerebbe come vuole per i fondi che preferisce.

D. Altro elemento di discussione, in questi giorni, è il meccanismo approntato dal Miur per gestire il turn-over, cioè sostituire i docenti pensionati. Seppure un po' cervellotico, procede verso una logica premiale, consentendo agli atenei con i conti in ordine di assumere di più di altri dissestati.

R. Un regolamento unico del turnover per tutti, indipentemente dall'area di ricerca e dal tipo di istituzione, è troppo rigido. Lasciamo gli atenei liberi di fare come vogliono e chi farà le scelte sbagliate verrà punito dagli utenti. Mi permette un paragone calcistico?

D. Sì figuri, siamo un paese di allenatori...

R. Avrebbe senso imporre a tutte le squadre le stesse regole sul turnover? Ci sono giocatori ottimi che continuano fino ad oltre 30 anni e altri per cui il turnover deve avvenire prima. Le squadre hanno gli incentivi giusti per fare le scelte migliori su chi deve essere pensionato, e infatti le fanno. Lo stesso dovrebbe accadere per le università. E a tutti i livelli: giovani, adulti e anziani.

D. Valore legale del titolo di studio. Se ne parla meno. Potrebbe servire ancora?

R. Non ha molto senso, per lo meno nella formulazione che oggi ha nel nostro Paese. Quello che serve è che lo Stato raccolga informazioni precise, standardizzate e confrontabili, sulla validità dei titoli offerti da ciascuna istituzione educativa. E poi gli utenti sceglieranno a ragion veduta. Ma non ha senso l'attuale situazione per cui, una volta soddisfatti una serie di requisiti burocratici ex ante (spesso irrilevanti per la qualità), il titolo erogato da una istituzione ha valore legale indipendemente dal suo valore reale.

D. L'Ocse dice che spendiamo meno in istruzione. Per anni, secondo Roberto Perotti, economista della Bocconi, ci abbiamo marciato, spalmando quella spesa anche sugli studenti inattivi: se avessimo considerato gli studenti equivalenti a tempo pieno, avremmo scoperto di spendere molto di più. A che punto siamo?

R. Un momento. L'Ocse non dice che spendiamo meno in istruzione: l'Italia spende meno in proporzione del Pil, ma spende quanto gli altri, se non di più, per studente. E il motivo è che, per via del calo demografico, gli studenti sono relativamente pochi. Quello che conta per valutare l'entità della spesa in istruzione è la quota per studente. E non solo spendiamo tanto per ogni studente ma abbiamo anche molti insegnanti e molte ore di insegnamento per studente.

D. Eppure i risultati delle indagini Ocse sulle competenze degli adulti (comprensione di un testo ecc) sono disastrosi...

R. Esatto. Lo Stato non spende poco, ma spende male. E non assume pochi insegnanti, ne assume troppi, dei quali alcuni, purtroppo, non sanno fare il loro mestiere.