Superiori in 4 anni:
conta il come, il dove, il chi.

 dal blog di Max Bruschi, 25.11.2013

La riduzione a quattro anni del percorso delle superiori è un tormentone che mi perseguita dal primo giorno in cui misi piede, oramai sei anni or sono, in viale Trastevere. All’epoca, fui assalito da un Direttore generale, tra i migliori del Miur ma con il vizio dell’assertività, che mi disse che “assolutamente” bisognava accorciare di un anno i percorsi per “allinearci all’Europa”. Posto che, a me, dell’eurosbobbico non è mai importanto nulla (come del resto ad altri Paesi europei, meno provinciali del nostro), all’epoca la soluzione, pure molto sostenuta e con alcune valide ragioni, fu scartata, per preservare un impianto generale degli ordinamenti considerato meglio rispondente alla tradizione italiana.
La cosa tornò a galla sotto il ministro Profumo, ed ebbi modo di occuparmene con una posizione non di chiusura, che non trovo motivi per rivedere.  Senza immaginarsi riforme epocali e (a mio avviso) catastrofiche, occorreva e occorre verificare se, con determinati paletti e con un paio di precondizioni, la strada di una abbreviazione fosse o meno possibile. Ricordavo come, in realtà, percorsi quadriennali fossero già attivi da anni, presso le nostre scuole italiane all’estero: e come in quegli istituti fosse rispettato proprio il paletto principale: gli esami di Stato erano, e sono, identici a quelli previsti per il resto dei percorsi, una “maturità” classica tale resta, che per arrivarci ci si sia impiegato quattro o cinque anni. Il secondo paletto era l’intangibilità dell’organico, identico nell’ammontare a quanto previsto per il quinquennio. Il terzo paletto la libertà organizzativa da parte delle scuole, da esercitare secondo quanto previsto dall’inattuatissimo dPR 275/1999 sull’autonomia. Il quarto paletto, un controllo serrato in itinere e sugli esiti. Le precondizioni, che gli studenti fossero dei “buoni studenti”, cioè con un reale raggiungimento degli obiettivi previsti alla fine del primo ciclo; che le scuole “ci credessero” e che gli insegnanti fossero all’altezza.
Confesso che avrei voluto provarci, quando ero dirigente agli ordinamenti in Lombardia, ma mi arrivò uno stop da parte dell’allora DG, paradossalmente lo stesso che tanto si battè per ottenere la sperimentazione al neonato Guido Carli di Brescia e al San Carlo di Milano, eccellente paritaria di cui oggi è soprintendente.

Bene: oggi l’argomento ritorna di attualità. Dopo alcune paritarie, un gruppetto di scuole statali ha ottenuto il decreto di sperimentazione, e un’altra manciata si appresta a seguirlo. Ne ha parlato Intravaia su Repubblica, ne ha parlato il Fatto quotidiano. Reazioni dure (e c’era da aspettarselo) da parte sindacale; una bocciatura senza appello da parte di Benedetto Vertecchi.

Mi fa piacere che a fare da apripista sia proprio una delle scuole cui allora avevo pensato, il leggendario Tosi di Busto Arsizio, e una scuola dinamicissima come il Majorana di Brindisi, retto dal mio amico Salvatore Giuliano, cui si aggiunge il Carlo Anti di Verona, che non ho il piacere di conoscere direttamente. Tre istituzioni scolastiche “in rete”, già abituate a un lavoro comune, dal book in progress alle nuove tecnologie. Tre di quelle scuole “si può fare” che hanno dimostrato, negli anni, di saper coniugare eccellenti risultati e innovazione, anzi, di fare della seconda la leva per un costante miglioramento.

Dunque: ci sono i presupposti. Quelli normativi, perché il 275/1999 rende possibilissime innovazioni di tipo organizzativo. Quelli della carne, delle ossa e dei cervelli degli attori della sperimentazione, perché senza avere alle spalle una istituzione scolastica che ci crede e docenti all’altezza, non si va da nessuna parte: la qualità della didattica non è dipendente dalla durata di un percorso, ma da chi va in classe. E ci sono anche, presenti all’appello, tutti i paletti cui accennavo prima. Dall’organico, alla libertà di progettazione, alla precisa individuazione dell’esame di stato, identico a quello previsto per gli altri percorsi: e non si capiscono dunque le obiezioni sindacali, visto che, per di più, non è stato il ministero o il dirigente a imporre, ma l’istituzione scolastica, a quanto mi risulta, a proporre. E se Vertecchi conoscesse quelle scuole, si guarderebbe (voglio sperare!) bene dall’asserire che “manca un’idea di base”. Quelle scuole non solo l’hanno, ma per quello che ho potuto vedere di persona in questi anni, hanno anche la forza per realizzarla. Vertecchi ha in mente un’altra idea, o meglio due: la prima, condivisibilissima, riguarda l’apertura in orario pomeridiano e serale delle scuole (purché il tempo “a scuola” non sia una dilatazione insensata del “tempo scuola”); la seconda, sulla quale mi permetto di dissentire, una abbreviazione del primo ciclo con conseguente riesumazione del biennio unico di berlingueriana memoria, e quindi in realtà un allungamento del primo ciclo e la riduzione delle nostre superiori a un moncherino. Fuori di dubbio che “si possa” fare. Che ciò significhi migliorare gli apprendimenti, mi si consenta di nutrire forti perplessità.

Resta da fare un’ultima considerazione. Che alcune scuole sperimentino, ci sta. Che in altre scuole possa essere estesa la possibilità di attivare percorsi quadriennali rispettando gli ordinamenti vigenti, pure.
Ma non direi che ciò possa tradursi, fermi i paletti, in una nuova revisione generalizzata degli ordinamenti. Fuori da ogni ipocrisia, dubito che tutte le istituzioni scolastiche e i quattordicenni italiani siano in grado, oggi, di seguire una strada che si presenta impegnativissima per le comunità scolastiche che l’hanno scelta.