L'un contro l'altro armati:
i Presidi nell'era post autonoma.
Intervista al sociologo Roberto Serpieri

da Orizzonte scuola, 14.11.2013

di Eleonora Fortunato - Possibile che dopo quindici anni dalla riforma dell’autonomia i dirigenti scolastici italiani siano senza leadership e senza autonomia? Sotto accusa per il sociologo Roberto Serpieri il welfarismo come le politiche neo-liberali che, in ‘guerre di discorsi’ tra loro, hanno impedito la leadership educativa e professionale del dirigente scolastico e inibito lo sfruttamento delle potenzialità democratiche della scuola.

Arrivano a conclusioni in parte contrastanti due indagini recentissime su come sono e come si sentono i dirigenti scolastici italiani oggi, a quindici anni dalla riforma dell’autonomia. Il sondaggio su Identità, ruolo e sviluppo professionale dei Capi d’Istituto promosso dall’Associazione Nazionale Presidi presentato in questi giorni a Roma mette a fuoco un quadro positivo, in cui “i dirigenti della scuola presentano un’identità solida ed un’identificazione professionale elevata, entrambe fortemente condivise”. Un altro studio licenziato di recente e dal titolo più che mai eloquente, Senza leadership: la costruzione del dirigente scolastico (Franco Angeli), fotografa invece una realtà molto più frammentata e incerta, in cui vengono poste in discussione le politiche che hanno guidato e, loro malgrado, inchiodato i presidi a un ruolo di dirigenti a metà, senza autonomia e senza leadership. Ne abbiamo parlato con l’autore Roberto Serpieri, sociologo dell’istruzione all’Università “Federico II” di Napoli.

Leggendo il suo libro mi è parso di capire che secondo lei oggi i dirigenti non appartengono o, comunque, non si sentono parte di un corpo professionale omogeneo. Il sondaggio presentato in questi giorni a Roma dall’ANP, “Essere dirigente della scuola oggi”, arriva a conclusioni diverse. Se la sente di commentare questa discrasia?

“Si tratta di prospettive complementari, ma bisogna tenere conto del fatto che i sondaggi di ‘autopercezione’ vanno sempre presi con cautela, c’è il rischio di indurre negli intervistati come un’acquiescenza che ha l’effetto di convalidare una tesi preconfezionata. In genere sono sospettoso verso questo tipo di ricerche”.

L’autonomia doveva creare dei leader, invece ha sfornato nuovi burocrati perché non sorretta da vere politiche di governance, selezione, formazione e valutazione. Può essere questa la sintesi della sua analisi? Come mai queste politiche sono state difettose?

“Una sintesi adeguata. Dobbiamo pensare che la riforma dell’autonomia è nata dalle mani di un uomo di centro-sinistra, Luigi Berlinguer, che aveva l’idea di rilanciare il ruolo del dirigente scolastico facendone un volano del cambiamento. Dopo un periodo di indecisione su quale dovesse essere la componente da valorizzare, si è finiti poi col privilegiare quella manageriale. Sistemi scolastici diversi da quello italiano hanno optato per altre strade, come il rafforzamento dei ruoli professionali, mi riferisco per esempio alla Francia o ai Paesi scandinavi. L’avvento della Moratti e della Gelmini e le forti pressioni sindacali da parte dell’Anp hanno fortemente contribuito al rimodellamento del preside come manager, ponendo sempre più l’accento, quindi, sulla sua abilità nel campo della pianificazione economica e ridimensionando, invece, la funzione di leader educativo. Insomma, si è preferito rinunciare alla valorizzazione delle dinamiche di democrazia e di partecipazione così importanti nella nostra tradizione, le stesse che negli anni Settanta hanno portato all’istituzione dei Decreti Delegati”.

Per valorizzare la componente democratica nella scuola un sindacato come la Gilda degli Insegnanti e ultimamente anche settori liberali dell’opinione pubblica hanno lanciato l’idea del preside elettivo. Lei che ne pensa?

“E’ la semplificazione di una soluzione possibile, a mio avviso. A livello internazionale, ci sono esperienze di questo tipo in Portogallo, per esempio, e in Catalogna. Si tratta di un’idea interessante, senz’altro, che potrei sposare a condizione che rivitalizzasse in maniera profonda la funzione ispettiva che, come sappiamo, negli ultimi anni è stata fortemente indebolita, e gli istituti democratici della scuola. Ricordo a questo proposito che sono passati ormai quindici anni dall’entrata in vigore della riforma dell’autonomia, ma non siamo ancora arrivati alla riforma degli organi collegiali. Il sistema italiano necessita a mio avviso di un allargamento degli spazi di partecipazione democratica, che invece negli ultimi anni sono stati asfissiati”.

Dice che il ‘privato’ e l’‘economico’ hanno invaso in maniera molto pesante il campo delle politiche scolastiche…

“Proprio così. L’etica della competizione e del procacciamento di fondi hanno messo le scuole le une contro le altre, e i dirigenti si sono posti l’uno contro l’altro alla ricerca del numero più alto di iscritti. Ma questo ‘quasi mercato’ della scuola non favorisce la crescita del territorio, ma lo depotenzia, impedisce l’instaurarsi di vere dinamiche di cooperazione, col rischio di indebolire sempre più le scuole già vulnerabili e di rafforzare quelle già salde. L’ingerenza dell’economia è sempre più forte nel campo delle politiche che riguardano l’istruzione, ma questo non è un bene. Nell’ambito degli studi universitari ci sono colleghi molto preoccupati della svolta neo-liberista. La cultura ‘economicista’, vorrei aggiungere, è una cultura molto provinciale, che non tiene conto di quello che succede a livello internazionale, ma si fa invece cassa di risonanza di istanze che vengono da organismi come l’OCSE. In questi ambienti vi è pochissima attenzione al dibattito democratico che è vivo per esempio negli Stati Uniti, nei Paesi scandinavi, in Nuova Zelanda”.

Quali dinamiche di cooperazione andrebbero valorizzate all’interno delle scuole?

“Per esempio i network di scuole. Posso citarle aree della Toscana e dell’Emilia in cui le reti di scuole riescono a costruire tessuti di relazioni fiduciarie col territorio significative, ma ce ne sono anche nel Nord Italia, penso alla rete Stresa di Bergamo, o nel Sud, la mente corre ai progetti che per esempio in Campania o in Calabria o in Puglia combattono i fenomeni della dispersione e della criminalità. Ma la cooperazione va incoraggiata anche tra i docenti di una stessa scuola, e questo compito spetta al dirigente, che deve essere prima di tutto un bravo leader educativo. Purtroppo è tutto molto lasciato al caso. Ho guardato per anni a come i presidi conducono i collegi: per alcuni sono solo momenti rituali, ma per altri diventano seminari di sperimentazione, di formazione dei docenti”.

Un punto cruciale è la selezione dei dirigenti, a proposito della quale lei parla di ‘rivincita burocratica’. Qual è il suo giudizio sulla nuova forma di reclutamento appena approvata?

“L’idea del corso-concorso potrebbe funzionare, ma ho qualche incertezza relativa al fatto che noi italiani non abbiamo un buon rapporto con la formazione, che viene sempre fortemente penalizzata, soprattutto se si pensa a quella sul campo (non a caso si finisce spesso, infatti, con l’erogarla su piattaforme online). Un’altra cosa che mi lascia perplesso è il non avere previsto un contatto col mondo universitario. Si lega al reclutamento anche un’altra grave pecca del sistema italiano, cioè la mancanza di un’organizzazione nella successione della leadership. Chi sostituirà, per esempio, il dirigente che è riuscito a portare una scuola in difficoltà a livelli di eccellenza? Spesso l’avvento di persone meno preparate e meno adatte a quel ruolo vanifica il lavoro e lo sforzo di anni”.

Che percezione ha di sé oggi il dirigente scolastico rispetto agli altri manager pubblici o privati?

“Il dirigente scolastico non può che sentirsi una figura ibrida, cui non sono stati affidati realmente gli strumenti di un vero manager. La sua autonomia è andata erodendosi a causa di un recupero di centralizzazione sempre più invasivo da parte del Ministero. Dobbiamo ricordare che in Italia la dirigenza pubblica ha impiegato anni per assurgere al livello della burocrazia francese o britannica. La scuola e l’università sono, poi, settori delicatissimi della Pubblica Amministrazione, erogano un servizio sofisticato, capace di creare e diffondere ‘ideologie egemoniche’, ed è per questa ragione che sono state sempre sotto lo stretto controllo dei partiti. Lo testimonia la difficoltà di una riforma organica degli organi collegiali, cui accennavo anche prima”.