Noi, i nuovi analfabeti La metà degli italiani non capisce un bugiardino o un foglio di istruzioni. È un Paese di illetterati di ritorno. Complice la tecnologia la Repubblica, 29.3.2013
Questi sono i test di «prose literacy» predisposti dall’inchiesta
All (Adult Literacy and Life Skills), un progetto di ricerca
internazionale che ha sondato le competenze degli adulti tra i 16 a
i 65 anni in sette paesi: Bermuda, Canada, Italia, Norvegia,
Svizzera, Usa e Messico (2003-2005). Gli esiti dei questionari nel
nostro paese? Solo il 20 per cento di italiani è in grado di
superare il terzo livello, ossia mostra competenze sufficientemente
sicure. Per il resto, il 5 per cento della popolazione non sa
rispondere alla domanda sul farmaco, ossia non supera le prove
minime di competenza. Quasi la metà degli italiani si smarrisce
davanti alla pianta ornamentale, mostrando una competenza alfabetica
molto modesta, «al limite dell’analfabetismo», recita il rapporto
All. E il 33 per cento non è capace di sistemare il sellino della
bicicletta, ossia denuncia «un possesso della lingua molto
limitato». E le cose non vanno meglio nell’esecuzione dei calcoli
matematici e nella lettura di grafici o tabelle: anche in
quest’ambito l’80 per cento degli italiani fa molta fatica. Siamo un
popolo di illetterati, che però non sa di esserlo. E forse non vuole
neppure saperlo. Le anticipazioni certo non rallegrano. L’indagine pilota promossa da Piaac-Ocse conferma l’alto tasso di illetteralismo italiano — più o meno i recenti dati All riportati sopra — ma con un nuovo rischio rispetto al passato, ossia la minaccia che il fenomeno possa drammaticamente contagiare le nuove generazioni. Il rapporto reso ora pubblico dall’Isfol — realizzato tra aprile e giugno 2010 e con un valore ancora parziale — ci dice in sostanza che, oltre al tradizionale serbatoio di pensionati e casalinghe (attenzione: non vecchietti e vecchiette, visto che il target va dai 16 ai 65 anni), la fascia più vulnerabile è quella che include i disoccupati dai 26 ai 35 anni. Finita la scuola, le competenze tendono a diminuire, specie quando non vengono avviati nuovi processi di apprendimento legati al lavoro. E l’analfabetismo di ritorno minaccia di inghiottire le leve più giovani, proprio quelle a cui è affidato il futuro del paese. Ma chi sono gli illetterati italiani? E dove si concentrano? Lo zoccolo duro coinvolge le fasce anagraficamente più elevate, distribuito soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, nei piccoli centri più che nelle grandi città. Ma le inchieste condotte da Vittoria Gallina — la studiosa che con pazienza certosina da oltre dieci anni monitorizza il popolo italiano — ci dicono che gli analfabeti di ritorno si annidano anche tra i piccoli imprenditori del Nord Italia, in Lombardia più che in Piemonte. E se la Campania è certo più in basso rispetto alla media nazionale, l’operosa Padania non si innalza più di tanto dalle cifre della vergogna italiana, che nelle zone industrializzate si concentra tra disoccupati e operai con le mansioni più basse ma non esclude i padroncini di aziende con qualche dipendente. Anche un’inchiesta del Cede di qualche anno fa disegnava il profilo dell’analfabeta benestante, con un reddito personale superiore a 40 mila euro e proprietà di famiglia oltre i 140 mila. Persone che vivono come una minaccia l’invito allo studio perché non ne avvertono la necessità. Una tendenza che viene favorita dalla tecnologia, soccorrevole nel colmare — e dunque nel nascondere — le enormi lacune degli italiani somari. Non siamo più in grado di leggere una mappa stradale o di fare un calcolo? Navigatore e calcolatrice sono lì per aiutarci. «Il benessere economico ti risolve ogni problema», sintetizza Arturo Marcello Allega, autore del documentato saggio Analfabetismo. Il punto di non ritorno (Herald Editore). «Se devo far dei conti, vado dal commercialista. Se devo evadere il fisco, mi consulto con il mio notaio. E per i documenti mi rivolgo a un’agenzia di servizi. Questo è il nuovo modello di adulto e di felicità». Che si realizza però quando il reddito lo consente. E l’illetteralismo — ci aggiornano i sondaggi ai tempi della crisi — è un impedimento gravissimo, non più tollerato da una società complessa. Il nuovo analfabetismo «funzionale » ci riporta a quel 70 per cento di analfabetismo assoluto che segnò il principio della nostra storia nazionale, miracolosamente battuto nell’arco di un secolo e mezzo. Un trionfale grafico dell’Istat disegna il crollo dai livelli altissimi del 1861 — 80 per cento per le donne, 70 per cento per gli uomini — all’attuale uno per cento. Sembra definitivamente archiviata l’immagine del contadino che firma tracciando una croce. «Ma è molto difficile che un vero analfabeta ammetta di esserlo», obietta la professoressa Gallina, propensa a contenere gli entusiasmi. «Più verosimile che tenda a nasconderlo, affidando ad altri la compilazione del questionario». La letteratura gialla è ricchissima di omicidi perpetrati da analfabeti disposti a tutto pur di celare la propria condizione. Qualche anno fa il linguista Massimo Vedovelli si prese la briga di catalogarli e nella gran parte della storie — da Ruth Rendell a Bernard Schlink — l’analfabetismo assurge a generatore di morte, non solo e non tanto individuale ma del sistema sociale. Quello di nuovo conio è invece socialmente accettato, anche perché protetto dall’inconsapevolezza. Chi è analfabeta di ritorno, in altre parole, ne è serenamente ignaro, condividendo la sua condizione con l’80 per cento della popolazione. Un’emergenza alfabetica causata anche dalla limitatezza della scolarizzazione in Italia: nel 2002, il 63 per cento con più di 15 anni aveva ancora al massimo la licenza media. È questo il dato che trasforma in patologia un fenomeno regressivo comune alla quasi totalità dei paesi avanzati. A ricordarcelo è Tullio De Mauro, lo studioso che più di tutti ha fatto della battaglia all’analfabetismo una missione civile e culturale. «Nel nostro paese», denuncia sulla rivista Il Mulino,«airesiduimassiccidi mancata scolarità si sommano fenomeni di de-alfabetizzazione propri delle società ricche». La sua sintesi induce allo sconforto. «Solo una percentuale bassissima di italiani è in grado di orientarsi nella società contemporanea, nella vita della società contemporanea, non nei suoi problemi». Un grave deficit che è anche un limite nell’esercizio di cittadinanza, e dunque un temibile avversario per la democrazia, inspiegabilmente ignorato dalle nostre classi dirigenti. Quando non viene cavalcato con lucido discernimento. Naturalmente c’è anche chi sta peggio di noi, ma per trovarlo bisogna volare in Centro America. È lo Stato di Nuevo León, in Messico. Noi e loro, gli ultimi della classe. |