Le ‘Nuove’ Indicazioni per il Primo Ciclo
di Giancarlo Cerini* Educazione & Scuola
1.3.2013
Convitati di pietra
C’è una motivazione
giuridica che ha spinto a riscrivere le Indicazioni per il primo
ciclo: quelle approvate nel 2007 dal Ministro Fioroni avevano una
validità di due anni, poi prorogata di ulteriori tre anni scolastici
per consentirne un’attuazione graduale, transitoria e sperimentale.
Questo periodo è scaduto il 31 agosto 2012, dunque era necessario
dotare la scuola dal 1° settembre 2012 di Indicazioni ‘stabili’. Di
qui è scaturita la revisione delle Indicazioni, il cui testo
definitivo è stato firmato dal Ministro il 16 novembre 2012[1].
È però evidente che non basta disporre di programmi ‘ufficiali’
aggiornati per migliorare ciò che si fa in classe. Le Indicazioni
sono certamente una fonte che ispira il lavoro a scuola, ma intorno
al curricolo ‘reale’ si affacciano molti Convitati di pietra che
condizionano le scelte quotidiane dei docenti, nel bene e nel male.
Pensiamo ai libri di
testo: i manuali scolastici hanno un ruolo ‘pesante’ nella
definizione del curricolo di una scuola. Pensiamo alle richieste e
alle pressioni dei genitori, a volte pertinenti, altre volte
improprie. Poi c’è la nostra storia, ci sono le cose che sappiamo
fare meglio, i tratti personali ed emotivi (le nostre virtù, ma
anche le nostre pigrizie). Infine, negli ultimi anni sono apparsi
sulla scena sistemi di valutazione molto intrusivi, con novità non
sempre condivise o ben comprese (i test generalizzati dell’Invalsi,
il ritorno del voto in decimi, le modalità d’esame, la
certificazione delle competenze). Queste azioni hanno lasciato un
segno nei comportamenti degli insegnanti e influiscono sul curricolo
reale, quasi a prescindere dall’esistenza di un progetto culturale
nazionale per la scuola del nostro Paese. Questo progetto si è via
via annebbiato, ha perso in visibilità e consistenza, travolto dalle
conflittualità di questi ultimi vent’anni (quante volte sono stati
cambiati programmi e ordinamenti?) e da un malinteso senso
dell’autonomia, quasi una scuola ‘fai da te’.
Senza rincorrere
stagioni d’oro che non ci saranno più, va però riconosciuta
l’esigenza di dotare la scuola pubblica del nostro paese di alcuni
punti di riferimento, in grado di riconfermare la vocazione
inclusiva, democratica, costituzionale del nostro sistema educativo,
orientando le scelte professionali degli insegnanti: indicazioni da
interpretare, pur con alcuni elementi prescrittivi, e non programmi
da eseguire. Ma come arrivare a un progetto condiviso?
Prove di dialogo
L’elaborazione di
Indicazioni nazionali impegna certamente la responsabilità delle
istituzioni (in primo luogo del Governo e del Ministro
dell’istruzione pro-tempore), ma deve scaturire da un dialogo
sociale intenso, dal confronto continuo sull’idea di scuola, dalla
costruzione di proposte culturali e didattiche credibili e
autorevoli, validate dalla comunità scientifica e in sintonia con le
domande della scuola. Non è un metodo facile. Spesso i Ministri
scelgono il loro ‘guru’ di riferimento e poi a cascata si
costruiscono commissioni, documenti, testi. È apprezzabile che in
questo caso non sia stato nominato un ‘super-presidente’ di
commissioni ‘blindate’ di esperti, ma si sia proceduto quasi
sotto-traccia, con un lavoro redazionale intenso, con la
collaborazione di esperti di didattica disciplinare, con
consultazioni frequenti (focus, incontri, sondaggi telematici,
rapporti con associazioni, ecc.).
Questo lavoro è stato
contrappuntato da due momenti di interazione diffusa con le scuole:
|
il primo si è
svolto nel novembre-dicembre 2011, in forma di monitoraggio
telematico, con domande allo stato di salute del curricolo di
base. Questa fase di ascolto ha messo in evidenza i disagi veri
del fare scuola oggi: la scomparsa della compresenza, le classi
numerose, la ferita aperta dell’anticipo, una pluralità docente
ormai fuori controllo. È emersa una scuola reale che attraversa
difficoltà, criticità, delusioni, di cui tenere conto e che si è
riconosciuta maggiormente nel progetto del 2007 (Ceruti-Fioroni)
piuttosto che in quello del 2004 (Bertagna-Moratti). E questo
dato ha avuto il suo peso nel processo di revisione;
|
|
c’è stato poi un
secondo momento importante: il 30 maggio 2012 la prima bozza
delle Indicazioni revisionate è stata inviata a tutte le scuole,
dalle quali sono ritornati oltre 5.000 questionari interamente
compilati (erano previste 26 domande strutturate) e alcune
migliaia di osservazioni libere, seppur stringate, quasi dei
tweet rivolti dalla base al ‘quartier generale’. È stato un
utile contributo per ‘limare’ ulteriormente la versione finale
del testo. |
Tenere aperto il cantiere
Pur in tempi ristretti
si è così realizzata un’utile forma di dialogo e sarà importante non
lasciar cadere questo metodo aperto, sia per la ‘gestione’ della
fase di accompagnamento, sia per il completamento di altri aspetti
dell’innovazione (ad esempio, i modelli nazionali di
certificazione). Nel decreto che accompagna il nuovo testo è
prevista la costituzione di un ‘board’ permanente per la
supervisione scientifica delle Indicazioni e per favorire il dialogo
tra scuole, esperti, sistema di valutazione.
Le Indicazioni 2012, in
realtà, si pongono in forte continuità rispetto al testo precedente
(2007). È probabile che in seguito occorra fare delle scelte più
innovative e radicali (pensiamo alla soluzione adottata per
l’insegnamento della storia), e il decreto che approva le
Indicazioni offre la possibilità di far evolvere il testo,
attraverso un confronto continuo. Non avremo più, come un tempo,
programmi che coincidevano con lunghe stagioni temporali e ideali (i
programmi dell’attivismo, del personalismo, del pragmatismo, del
positivismo…). Quei programmi didattici avevano la durata di una
generazione e riflettevano vere e proprie epoche culturali. Oggi
abbiamo bisogno di strumenti di orientamento che siano in grado di
accompagnare e di interagire, forse di contribuire all’evoluzione
della società, del dibattito culturale, con un pluralismo di idee in
sintonia con la complessità della nostra epoca.
Un pre-testo per ri-dirci i compiti educativi della scuola
La scadenza delle nuove
Indicazioni può diventare un’occasione per ri-chiarirci e
condividere i compiti educativi e formativi della nostra scuola, e
provare a essere più coerenti nelle pratiche didattiche rispetto a
ciò che si trova scritto nei documenti ufficiali. Nei programmi, in
genere, non mancano le belle parole, i concetti levigati; ma cosa
succede poi in classe?
Un solo esempio: nel
monitoraggio-sondaggio del novembre 2011, alla domanda “qual è la
pratica didattica più diffusa nella tua scuola?” il 76% degli
insegnanti della scuola media, ma anche il 72% della scuola
elementare ha risposto “Lezione frontale”. C’è di che riflettere[2]!
Forse ci sono
motivazioni rinvenibili nella scarsità di insegnanti, nella mancanza
della compresenza, nel tempo scuola più ridotto, ma è decisivo
l’atteggiamento culturale: che cosa significa insegnare? fare
lezione? promuovere apprendimento? Resiste l’antica separazione tra
insegnamento e apprendimento, stentano a passare le idee di ambiente
di apprendimento, di relazione educativa, di valore formativo delle
discipline, di motivazione e coinvolgimento degli allievi. Tutti
temi di cui c’è traccia nelle Indicazioni (vecchie e nuove), ma che
non riescono a diventare scuola quotidiana. La speranza è che il
nuovo testo possa essere occasione per far crescere nelle comunità
professionali la riflessione sulle pratiche didattiche e sulla loro
coerenza pedagogica. Il metodo evolutivo adottato può aiutare la
scuola a ritrovare un suo baricentro.
Nel testo del 2004 si
era evidenziata una forzatura ‘barocca’. Terminologie e sigle (Osa,
UdA, Pecup, Psp…) tentavano di forgiare un nuovo linguaggio, quasi
imponendo con la forza della legge una didattica di stato. Invece,
nel testo delle Indicazioni 2007 si è percepita una migliore
sintonia con la vita della scuola e con fonti ispiratrici condivise
(Dewey, Bruner, Vigotsky, Morin, Gardner, ecc.).
È stato giusto
reinnestarsi in quell’alveo, ripartire da quel testo-base, che già
poneva alcune domande forti circa il senso dell’educazione…
questioni contenute nella premessa di Mauro Ceruti, recuperata e
ampliata nel nuovo testo, in cui la domanda è proprio: Qual è il
significato dell’educazione e della cultura oggi? E i saperi come
dialogano con la vita dei ragazzi? Quali sono le sfide che li
attendono?
Confrontarsi con le nuove domande
Non bastava però
‘fotocopiare’ il testo del 2007. Ci sono nuove questioni che
emergono nella nostra società e nella scuola. È stato giusto
ri-partire da alcuni interrogativi.
|
Innanzitutto tutto
c’è un’inedita questione interculturale in Italia. Le nostre
classi sono sempre più ‘colorate’, e di questo si è cercato di
tener conto: nel testo l’italiano è lingua di scolarizzazione,
ma è una seconda lingua per molti alunni (già il 15% in alcune
regioni). Nelle Indicazioni 2012 si respira un clima plurale,
che si innesta nel bel documento del MIUR (La via italiana
all’educazione interculturale, 2007) e nei più recenti
orientamenti europei (Insegnare e apprendere in un ambiente
plurilingue, 2010). L’intercultura non riguarda la presenza di
stranieri in classe, ma un più generale atteggiamento verso il
mondo e la realtà in cui vivranno i nostri giovani.
|
|
Un secondo
‘fenomeno’ è la presenza pervasiva delle nuove tecnologie
digitali, di nuove forme di comunicazione (i social network),
dei linguaggi multimediali. Sono abitudini e comportamenti che
toccano non solo gli adolescenti, ma anche i bambini, e la cui
evoluzione è molto rapida: dopo i digitali nativi arriva la
screen generation. La scuola appare incerta, tra la tentazione
di inseguire queste nuove forme del sapere o arroccarsi nella
cittadella degli alfabeti. Il testo sceglie una linea di cauta
apertura, ma sta dalla parte dei vecchi alfabeti: solo una
sicura padronanza di strumenti personali di lettura,
comprensione, analisi consentirà di non essere travolti
dall’estasi della comunicazione, dal caleidoscopio della
multimedialità. Non è solo un problema di utilizzo ragionevole
delle nuove tecnologie (di cui pure è cosparso il testo,
disciplina per disciplina), ma di consapevolezza delle nuove
regole di produzione, trasmissione e conservazione di conoscenza
e degli inevitabili risvolti sui processi cognitivi ed
emozionali[3].
|
|
Un ulteriore
elemento di novità emerso dal 2007 a oggi è la generalizzazione
degli istituti comprensivi, che già quest’anno sono circa 5.000;
restano solo 1.500 tra circoli didattici e scuole medie. Il
panorama della scuola italiana sta cambiando. Gli istituti
comprensivi possono essere vissuti come un escamotage
finanziario, uno scatolone vuoto, ma nel testo delle Indicazioni
2012 emerge l’idea di un progetto educativo forte e coerente:
segnala che dai tre ai quattordici anni c’è una responsabilità
da condividere nella formazione dei ragazzi. Lo si legge nel
Profilo delle competenze del quattordicenne, che non è posto
solo a carico degli insegnanti di terza media, ma è il frutto di
un percorso di accompagnamento, di condivisione, di
responsabilità che riguarda tutti gli insegnanti, che si
occupano degli allievi dai 3 ai 14 anni. Lo si legge
nell’articolazione dei curricoli disciplinari, tutti ispirati
alla logica della verticalità (che pure è interpretata
diversamente dalle varie discipline, in termini di linearità o
ricorsività o ciclicità), come filo conduttore visibile per la
costruzione del curricolo verticale dell’istituto comprensivo.
|
Le conferme, le puntualizzazioni
Ma proseguiamo nel
nostro check-up alle Indicazioni 2012.
|
Si conferma il tema
delle competenze, come leit-motiv del percorso formativo di
base, che si intreccia con quanto previsto nei documenti europei
(Competenze chiave di cittadinanza, 2006) e con la piattaforma
culturale per l’estensione dell’obbligo di istruzione a 16 anni
(una riforma recente quasi dimenticata): le competenze culturali
si innestano nei saperi delle discipline, ne costituiscono il
lievito formativo e implicano nuove scelte metodologiche e
didattiche, ispirate all’idea del laboratorio, dell’elaborazione
dell’esperienza, dell’apprendistato cognitivo, in un ambiente
ricco di relazioni sociali ed emotive[4].
|
|
I traguardi del
percorso dai 3 ai 14 anni vengono rubricati sotto la voce
“Traguardi per lo sviluppo delle competenze”, una dicitura
lontana dal concetto di standard o di ‘risultati finali’ o di
‘competenze di uscita’. Il senso è diverso. Il traguardo
richiama certamente l’esigenza di descrivere in maniera precisa
gli apprendimenti attesi, ma la parola ‘sviluppo’, di chiara
matrice vygostkjana, apre alla pluralità di percorsi, al
dinamismo del potenziale di apprendimento, alla diversità di
ritmi e intelligenze dei ragazzi. |
|
La scuola di base
conferma la sua vocazione all’accoglienza e all’accompagnamento
e anche le modalità valutative non possono smentire questa
prospettiva. La valutazione è formativa perché non ha
l’obiettivo prioritario di giudicare, classificare, sanzionare,
ma piuttosto di descrivere, conoscere, stimolare il
miglioramento continuo. Sarà una valutazione ‘sincera’ (“a che
punto ti collochi nel percorso verso le competenze attese?”), ma
nell’ambito di una relazione di aiuto e di incoraggiamento che
non deve venir meno. |
|
Vengono legittimate
le prove Invalsi, che dovranno ispirarsi ai traguardi di
competenza (che sono prescrittivi per gli insegnanti). Ma il
testo rimette le cose nell’ordine giusto: prima vengono il
progetto culturale della scuola, il curricolo e l’organizzazione
didattica e poi, solo successivamente, le valutazioni ‘esterne’
con le loro strumentazioni. L’Invalsi non può condizionare e
anticipare la didattica, ma deve raccogliere ed elaborare i dati
relativi ad alcune prestazioni e abilità, per fornire alla
scuola informazioni utili alla progettazione didattica.
|
|
C’è un importante
messaggio nelle Indicazioni, una frase aggiunta dopo la
consultazione dell’estate 2012. Si afferma che bisogna
promuovere una cultura della valutazione “che scoraggi qualunque
forma di addestramento finalizzata all’esclusivo superamento
delle prove”. I dati statistici ci servono, ma ancora più
importante è usare la valutazione per fare ricerca
sull’apprendimento e non per rimpicciolirlo.
|
|
Il termine
competenze, come afferma Boscolo, rimanda a un’idea di
apprendimento non inerte, di qualcosa che vale per i ragazzi
anche dopo il suono della campanella, perché li accompagna oltre
i portoni della scuola. La competenza è un abito mentale, un
metodo di studio, una disponibilità permanente alla ricerca,
necessari per affrontare nuovi compiti, nuove sfide, nuove
situazioni nel corso della vita. C’è un termine nelle
Indicazioni per la scuola d’infanzia che parla di avventura
della conoscenza: ecco, si vorrebbe che la scuola fosse
un’esperienza che fa crescere, che organizza e struttura il modo
di pensare, che rende progressivamente autonomi.
|
Per essere coerenti con
queste prospettive occorre affinare metodi e pratiche didattiche. Il
fare lezione si trasforma nell’organizzazione di efficaci ambienti
di apprendimento, che dovranno essere alimentati dalle pratiche di
ricerca e di laboratorio ‘adulto’ promosse dalle scuole e dagli
insegnanti (oltre che adeguate misure di accompagnamento attivate
dal MIUR e dall’Amministrazione scolastica).
Un messaggio forte
Emerge nel nuovo testo
delle Indicazioni una domanda pressante per una sicura padronanza
delle competenze di base per i nostri ragazzi, da rilevare al
termine del percorso ma da curare, giorno dopo giorno, lungo tutto
l’itinerario, con meno approssimazione di quanto a volte oggi
accade. Si sottolinea il valore delle strumentalità, della
padronanza del gesto grafico della scrittura, della correttezza
ortografica, come elementi di controllo dell’organizzazione del
pensiero. Tra gli obiettivi della scuola primaria fa la sua
ricomparsa il dettato, si raccomanda di “scrivere sotto dettatura
rispettando la correttezza ortografica”. Estrapolando questa sola
frase vien da chiedersi se non si stia ritornando agli anni
Cinquanta, col dettato come pratica formale, indice di un formalismo
di facciata e inutile.
Invece, la sfida è
quella di coniugare la padronanza di strumentalità elementari con il
senso dell’esperienza conoscitiva, che nel campo dell’educazione
linguistica significa mantenere ben saldo il valore della lingua
come strumento per comunicare, pensare, immaginare, capire. Con la
consapevolezza che arricchire e rendere sicura la padronanza della
lingua (le sue forme, il suo lessico, la sua sintassi) è un
prioritario investimento contro lo svantaggio sociale e la
disuguaglianza, come ricordava Don Milani.
Non è un compito
facile. Ma la lettura del testo può aiutare, ad esempio partendo
proprio dalle pagine di Lingua Italiana, disciplina trasversale per
eccellenza (e di pertinenza di tutti i docenti), nelle quali si
coglie bene un sofferente sforzo di tenere insieme una visione meno
approssimativa della scuola di base (quella che a volte si limita a
socializzare e a far star bene i bambini), con l’esigenza di
assicurare la padronanza del leggere e dello scrivere (in senso
lato), ma in un orizzonte capace di dar valore all’intera esperienza
formativa[5].
Dunque vorrei proporre
di leggere le Indicazioni come un testo amichevole, che ci stuzzica
e incuriosisce, che forse ci può anche appassionare, con cui
confrontarsi comunque, per ricostruire il senso vero di una comunità
professionale intelligente.