scuola

La "riforma" dell'anno in meno
rischia di fallire, ecco perché

Felice Crema il Sussidiario 27.3.2013

L'atto di indirizzo emanato recentemente dal ministro Profumo ripropone l'idea di anticipare dai 19 ai 18 anni di età  l'uscita "regolare" dello studente dal percorso scolastico (punto c della quinta priorità ). Idea questa non nuova, la cui attuazione era stata tentata con poca fortuna quindici anni fa dall'allora ministro Luigi Berlinguer e che, successivamente, anche altri ministri avevano, anche se meno clamorosamente, accarezzato.

L'argomento portato tanto da Berlinguer quanto dai suoi successori per sostenere la proposta - permettere ai giovani italiani di affacciarsi al mondo del lavoro in condizioni di parità  con i loro coetanei europei - appare però piuttosto debole, sia perché in Europa anche su questo punto ci sono ancora in realtà  molte differenze tra i diversi sistemi formativi, sia perché sembra scontrarsi con alcune impossibilità  "pratiche" (come eliminare un anno "interno" all'attuale percorso del primo ciclo come proponeva Berlinguer), ma anche con la constatazione che la soluzione più semplice - far cadere l'ultimo anno di scuola secondaria - accanto ad alcune questioni pratiche pone l'impegno ad una sua completa ristrutturazione.

Un ulteriore tentativo, per la verità  non sempre chiaramente collegato all'obiettivo di ridurre di un anno il percorso scolastico, è stato più recentemente compiuto aprendo alla possibilità  di anticipare di un anno la frequenza alla scuola primaria. 

Se realmente si vuol riprendere la proposta di anticipo occorre però sostenerla con ragioni più solide di quelle fino ad ora portate, e in particolare legare questa scelta ad un effettivo riassetto del sistema formativo. Solo a questo punto sarà  possibile fare una valutazione del rapporto costi-benefici. Due ragioni inerenti la condizione del nostro sistema formativo possono correttamente essere richiamate. 

La prima riguarda in particolare la scuola secondaria che, nel triennio conclusivo e con una distribuzione molto differenziata tra percorsi liceali e percorsi tecnico-professionali, è segnata da una presenza quasi maggioritaria di studenti maggiorenni: tutti i frequentanti l'ultimo anno più una parte vicina al 50 per cento degli studenti che frequentano il penultimo anno e che in momenti diversi e per ragioni diverse si trovano in ritardo rispetto ai tempi formalmente previsti.

Questa, che potrebbe sembrare una questione di non molto peso è invece rilevante se guardiamo il problema che può essere chiamato "della condotta" e che oggi, forse più che nel comportamento, ha il suo volto più rilevante nell'abbandono nascosto: quello cioè degli studenti che frequentano un corso scolastico ma che di fatto non ne traggono nulla in termini di apprendimento effettivo.

L'insieme delle regole previste nella scuola sono pensate in funzione di uno studente "minorenne" ancora sotto tutela: ma per il maggiorenne occorrerebbe un approccio diverso. In un unico contesto organizzativo e per lo stesso gruppo è però molto difficile immaginare due regimi disciplinari significativamente diversi.

Il tema ci porta al cuore della questione che interroga la scuola oggi: l’abbandono che non solo è nascosto ma anche palese e che in questa forma tocca un giovane su cinque. Ed è questa la seconda, più complessa, ragione che può motivare l’abolizione di un anno nell’attuale percorso scolastico. 

Il fenomeno della dispersione palese si presenta in modo particolarmente critico nei primi anni della scuola secondaria superiore, con un’incidenza crescente passando dai percorsi liceali a quelli tecnici e a quelli professionali, dove raggiunge il suo massimo. Sarebbe errato pensare che le ragioni dell’abbandono dipendano primariamente dal percorso scolastico che si sta iniziando; se così fosse la proporzione degli abbandoni dovrebbe essere simile nei diversi percorsi o, più probabilmente, con proporzioni invertite rispetto ai dati verificati, a meno che non si ritenga che un percorso di studi professionali sia molto più impegnativo di un percorso liceale (o tecnico) a cui peraltro la scuola media orienta sistematicamente solo gli studenti ritenuti migliori.

Le ragioni dell’abbandono vanno piuttosto ricercate negli anni precedenti. Come mostrano alcune ricerche empiriche − per la verità non numerose e in genere relative a zone territoriali molto delimitate – è negli anni conclusivi del primo ciclo che si manifesta il progressivo distacco tra allievi e scuola, distacco legato prevalentemente alla difficoltà a riconoscere l’utilità (il senso) di una condizione cui si è “obbligati”, oltre che dalla legge, anche da un condizionamento socio-culturale che fa coincidere la “presenza sociale” di un ragazzo con la sua condizione di studente. Esisto in quanto studente: ma a questo dato non corrisponde un significato, o almeno il ragazzo non lo percepisce e per questo gli appare sempre più un dato solo convenzionale.

In questo punto del percorso e per queste ragioni può essere opportuno intervenire sugli anni di scolarizzazione previsti dall’ordinamento. Le altre soluzioni proposte sono solo apparentemente migliori. Un anticipo della scolarizzazione obbligatoria metterebbe infatti in crisi la scuola dell’infanzia, che dalla scuola materna ha ereditato un’impostazione pedagogica e un patrimonio didattico in grado di valorizzare al massimo la condizione dell’infanzia. All’altro capo del percorso, far cadere l’ultimo anno della scuola secondaria superiore diminuirebbe drasticamente la capacità di rispondere alla crisi che genera l’abbandono, esplicito e implicito. Infatti, il primo biennio sarebbe definitivamente assimilato alla scuola precedente, quella che non riesce a motivare e a interessare, e quindi a richiamare e sostenere una responsabilità personale, e il biennio successivo acquisterebbe le caratteristiche di un altro momento in sostanziale stand by, con funzione prevalente di “preselezione” rispetto ai successivi percorsi di istruzione superiore. La sua capacità di sostenere lo sviluppo dell’identità dello studente in una prospettiva che si misura sempre più strettamente con la realtà sfumerebbe ancora una volta in un contesto genericamente “formativo” e “orientativo”.

La scelta di passare da una scuola di base di 8 anni ad una scuola di base di 7 anni permetterebbe di riprendere in mano il passaggio critico del nostro sistema scolastico anche in aspetti meno facilmente gestibili, come il rapporto tra i due tronconi che lo costituiscono (scuola primaria e scuola media inferiore) che continuano a rimanere due mondi separati e come la registrazione di alcuni suoi aspetti particolarmente rilevanti, e particolarmente critici, tra cui la sua funzione orientativa. 

Giuseppe Bertagna in una sua recente intervista diceva che “…su queste idee bisognerebbe non essere generici ma essere più precisi …”, istanza giusta a condizione che la precisione richiesta non coincida con la definizione di un quadro organizzativo coerente ai modelli che ancora attualmente caratterizzano la nostra amministrazione. E qui sta certamente una delle ragioni per cui il ministro Berlinguer non riuscì a trasferire la proposta dalla carta alla scuola reale. 

Il problema creato dal raddoppio del numero di studenti che, in certo momento, dovranno lasciare la scuola di base potrà essere risolto solo aprendo differenti possibilità che chiamino in causa la scelta dei protagonisti: studenti (e genitori) e operatori (dirigenti e insegnanti). Una strada ad esempio può essere l’ampliamento della possibilità già offerta all’ingresso della scuola dell’infanzia e della scuola elementare; analogamente si potrebbero rendere meno rigidi i vincoli di età per l’iscrizione alle diverse classi. Oppure, attraverso l’uso delle possibilità già oggi offerte anche nella scuola di base dalle norme sull’autonomia, facilitare il passaggio anticipato di quote di studenti prefissate, con caratteristiche definite, attraverso by pass collocati lungo tutto il percorso.

Anche un moderato aumento di insegnanti nella scuola secondaria, in particolare nei percorsi tecnico-professionali, sarebbe accettabile se, come deve essere, la diminuzione di un anno del percorso scolastico non si ridurrà ad una pedissequa imitazione di modelli europei (che poi in realtà sono spesso modelli italiani che cercano dall’Europa il via libera a proposte altrimenti difficilmente sostenibili), ma si collochi come un importante tassello di un progetto rivolto a contrastare la dispersione nella nostra scuola. 

E se poi, per completare il passaggio nell’istruzione secondaria dell’onda “anomala” generata dal cambiamento, sarà necessario inserire qualche insegnante in più nella scuola secondaria e nell’istruzione e formazione professionale, non sarà un prezzo troppo gravoso se permetterà di ottenere concreti risultati nel contrasto alla dispersione, palese e nascosta.

 

 

 

I test d'ingresso entrano nelle scuole medie. Alcuni licei, istituti tecnici e convitti hanno svolto nei mesi di gennaio e febbraio scorsi diverse prove per limitare gli accessi. Sono scritti di matematica e italiano, inglese e tedesco, di logica e di musica destinati a chi sta frequentando la terza media e con largo anticipo ha già  scelto la scuola dove approdare. I risultati di questi test serviranno a presidi e rettori delle superiori per fare selezione basandosi sui meriti, le conoscenze e le attitudini. Nel frattempo si sono scatenate le polemiche: c'è chi parla di tradimento della Costituzione, chi dice che non si può fare selezione quando ancora si deve assolvere l'obbligo scolastico, chi fa notare che una scrematura ci vuole, semplicemente perché le scuole non possono incrementare a dismisura i frequentanti senza compromettere la stessa attività  didattica. Ilsussidiario.net ha chiesto l'opinione di Giuseppe Bertagna, pedagogista, artefice dell'allora riforma Moratti.

Che ne pensa, professore?

Se per selezione si intende orientamento formativo sono d'accordo. Dall'infanzia all'università . Anche nei corsi di laurea del mio Dipartimento, ad esempio, facciamo prove di ingresso. Certo non quiz alla Profumo. Ma le prove iniziali, anche osservative e quindi prolungate nel tempo, servono per capire come impostare l'offerta formativa, così da dare a ciascuno l'occasione di percorsi personalizzati. Chi deve fare gli Ofa, chi può iscriversi ai corsi avanzati, chi accede a quelli normali, chi ha bisogno di tutorato personale o di gruppo, chi può allinearsi soltanto con alcune attività  di studio sussidiario, ecc. Insomma, un modo per aumentare la qualità  dei corsi, ma senza perdere nessuno.

Non pare però che questa sia l'ottica delle iniziative intraprese. Anche per questione di posti disponibili, i test di ingresso intendono scegliere i più adatti ad un determinato corso di studio, interpretano il merito come eccellenza nell'adattamento alle richieste formulate a priori dal tipo di scuola.

Se è così meglio tornare a Gentile. Era un sistema più serio - dico quello di Gentile, non del fascismo, poi purtroppo continuato con la Repubblica -. Allora il sistema di istruzione serviva a un solo scopo: trovare nei cento che partivano in prima elementare i due che potevano andare fino all'università  e che quindi avrebbero potuto diventare classe dirigente.

Gentile voleva selezionare i migliori culturalmente.

E' così. Di fatto, per il modo con cui poi il fascismo applicò la sua riforma e per il modo con cui purtroppo si è conservata fino a noi, si selezionavano (si continuano a selezionare come ci conferma il recente Rapporto Bes: Benessere Equo e Solidale 2013 dell'Istat), soltanto i favoriti sociali.

Se era così serio perché non possiamo tornare a Gentile?

Molto semplice. Anche a lasciar stare il fatto che non sia un impianto pedagogico e che sia in più anche ingiusto, il darwinismo culturale o sociale soggiacente al gentilianesimo è tremendamente dissipatorio. Spreca e svilisce le intelligenze e le eccellenze non «scolastiche» (forse meglio dire «scolasticistiche»). Oggi non è più riproponbile. Da un lato, infatti, le coorti generazionali, con la catastrofe demografica degli ultimi decenni, hanno reso i giovani la merce più preziosa che possediamo. Non possiamo tollerare, per economia se non, come dovrebbe essere, per pedagogia, di sacrificare ad un’unica forma di intelligenza e di eccellenza, appunto quella «scolastica», l’intelligenza e l’eccellenza di cui invece ogni essere umano è portatore. Dall’altro lato, inoltre, con la globalizzazione e la società della conoscenza, per mantenere i livelli di benessere raggiunti abbiamo assoluto bisogno del contributo non dell’intelligenza e dell’eccellenza di pochi ma di tutti, nessuno escluso, e per di più distribuite con impegno lungo tutto l’arco della vita.

Come mai allora questi ritorni al passato presentati come avanguardie della futura meritocrazia?

Dopo il fascismo, era ragionevole aspettarsi che la Repubblica democratica modificasse alla radice il paradigma selettivo del sistema scolastico, peraltro esasperato nel suo statalismo centralista durante il ventennio. Non accadde. Ci fu invece a partire dalla fine degli anni 60 una scelta giustissima: allargare la scuola a tutti, e possibilmente fino agli studi superiori. Purtroppo, però, soltanto cercando di «democratizzare» sempre più un sistema e un’organizzazione che non era nato a questo scopo e che non aveva affatto questo scopo.

Allora che facciamo, adesso?

E allora non si può più pensare ad un sistema che chiede ai ragazzi di adattarsi alla propria offerta, ma occorre pensare ad un sistema che si adatti alle caratteristiche specifiche dei giovani. Raccogliere, ancorché con colpevole ritardo, la sfida culturale lanciata con coraggio dieci anni fa dalla riforma Moratti e osteggiata, questo il paradosso, dagli stessi che oggi si oppongono a questa malintesa meritocrazia selettiva.  Ovvero si tratta di offrire percorsi secondari e superiori molto differenziati, sebbene di pari dignità. Smettendola con la mentalità del liceo che sarebbe di serie A, dei tecnici che starebbero nella serie B, i professionali in serie C, i Cfp in D e l’apprendistato nemmeno ritenuto formazione, perduto, in play out.

Abbandonare una impostazione «licealista», dunque. Come invertire la rotta?

Lo si fa: con un forte rilancio del programma sturziano di decentramento delle responsabilità e delle strutture formative ai territori; con una reale e piena autonomia delle istituzioni scolastiche nel reclutamento e nella gestione del personale, nella flessibilità organizzativa, nella personalizzazione dei percorsi formativi; affiancando all’università una forte formazione professionale superiore (come accade in Germania); avviando (come accade ancora in Germania) un vero e proprio sistema formativo di massa dai 15 ai 29 anni fondato sull’apprendistato; col riconoscimento che le competenze  acquisite anche in situazioni non formali (luoghi di lavoro) e informali (la vita ordinaria) valgono tanto quanto quelle certificate con i titoli di studio formali della scuola e dell’università.