Per un’etica dell’inclusione
Da Leon Battista Alberti alla pubblicità della
“dolce Euchessina”, che si dava “ai bambini buoni”, presentiamo
questo ampio contributo al dibattito sullo stato attuale della
scuola, con uno sguardo particolare rivolto all’inclusione degli
alunni con disabilità. E il pretesto è dato dalla recente Direttiva
Ministeriale – e dalla conseguente Circolare – sui Bisogni Educativi
Speciali.
di Giancarlo Onger ScuolaOggi 26.3.2013
Questo scritto non è contro nessuno e contro niente. È semplicemente
un contributo al dibattito sullo stato della scuola. Il pretesto è
l’emanazione della Direttiva Ministeriale Strumenti d’intervento per
alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale
per l’inclusione scolastica, del 27 dicembre 2012 e della recente
Circolare Ministeriale 8/13, del 6 marzo, che fornisce suggerimenti
operativi per l’implementazione della Direttiva stessa.
Semplicemente «… io voglio capire, capire, capire, nel senso
etimologico della parola, e quando una cosa non m’entra, vorrei
dilatare la mia mente fino a farci stare tutto l’universo e qualche
cosa di più…» (Dino Provenzal, da «La Rivista di Letteratura, Storia
e Filosofia», n. 5, settembre-ottobre 1924, preside rimosso dal suo
ruolo in base alle leggi razziali del 1938).
Prolegomeni: delle arti e delle scienze.
Per essere coerente, ho cominciato a documentarmi, per spiegarmi
l’importanza del concetto di persona nella sua globalità,
bio-psico-sociale, ben rappresentata dall’ICF [la Classificazione
Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute,
definita nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità,
N.d.R.]. E ho scelto di interrogare la storia, partendo dal
Rinascimento. Tra i tanti protagonisti, mi preme citare Leon
Battista Alberti, architetto, umanista, scrittore, che così si
esprime sulla bellezza: «La bellezza è armonia, concinnitas, tra
tutte le parti riunite in un insieme: se togli o aggiungi un
elemento comprometti il tutto» (Alberti, 1435).
Rousseau, alcuni secoli dopo, nel 1755, scrive: «… la differenza
naturale degli uomini non spiega affatto la loro disuguaglianza
sociale, è la storia che li rende disuguali, non la loro natura»
(Rousseau, 1755).
Aristide Gabelli, insigne esponente della pedagogia positivista di
fine Ottocento, scrive: «Quanto all’istruzione intellettuale, è da
avvertire per prima cosa che, se le scuole devono somministrare un
certo numero di cognizioni, tuttavia la mira ultima di tutto
l’insegnamento non è riposta tanto nelle cognizioni stesse, quanto
nelle abitudini che il pensiero acquista dal modo in cui vengono
somministrate» (Gabelli, 1888).
Concetti che ci riportano alla “testa ben fatta” piuttosto che alla
“testa ben piena” che Edgar Morin ci ha ricordato – in un suo
splendido saggio (Morin, 2000) – essere un pensiero risalente a
Michel de Montaigne, filosofo e scrittore del Cinquecento.
Maria Montessori, che non ha bisogno di presentazioni, ci ha
lasciato questa testimonianza molto importante: «Il fatto che la
pedagogia dovesse unirsi alla medicina nella terapia era la
conquista pratica del pensiero dei tempi e su tale indirizzo si
diffondeva la Kinesiterapia. Io però, a differenza dei miei
colleghi, ebbi l’intuizione che la questione dei deficienti fosse
prevalentemente pedagogica, anziché prevalentemente medica; e mentre
molti parlavano nei congressi medici del metodo medico-pedagogico
per la cura e l’educazione dei fanciulli frenastenici, io ne feci
argomento di educazione morale al congresso Pedagogico di Torino,
nel 1898; e credo di aver toccato una corda molto vibrante poiché
l’idea, passata dai medici ai maestri elementari, si diffuse in un
baleno come questione viva, interessante la scuola». E nel 1909
riconosce che «la preparazione dei maestri è necessario che sia
contemporanea alla trasformazione della scuola. Se abbiamo preparato
maes tri osservatori e iniziati all’esperienza, conviene che nella
scuola possano osservare e sperimentare» (Montessori, 1909).
Prima di lei, Edouard Sèguin, considerato uno dei primi pedagogisti
clinici, se non il primo, a cui la Montessori fa spesso riferimento,
così scrive, nel 1846: «… avendo come fine il trattamento dei
giovani idioti ero incessantemente ricondotto, dalla forza stessa
del mio soggetto, ad informarmi dei metodi, a comparare le teorie, a
discutere le pratiche dell’insegnamento» (Sèguin, 1846).
In questo contesto non possiamo certo rinunciare a pensatori che
hanno dato un grande contributo all’evoluzione del pensiero
contemporaneo. Negli Anni Sessanta, Jerome Seymour Bruner, nel suo
Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, sottolinea: «Questo è
stato anche il decennio nel quale s’è venuto per noi chiarendo
sempre più il ruolo dell’ambiente, nelle sue diverse attività e nei
suoi complessi condizionamenti. Abbiamo compreso quale importanza
abbia l’ambiente per tutelare la normalità delle funzioni dell’uomo,
e per consentirne il dovuto sviluppo delle capacità umane. Gli
esperimenti di isolamento hanno reso evidente come un essere umano
immobilizzato in un ambiente impoverito dal punto di vista
sensoriale perda ben presto il controllo delle proprie funzioni
mentali» (Bruner, 1968).
E ancora, non si può certo rinunciare al contributo di un filosofo e
sociologo come Ralf Dahrendorf: «Io penso in realtà che la
diseguaglianza sia un elemento della libertà. Una società libera
lascia molto spazio alle differenze tra gli uomini, e non solo a
quelle di carattere, ma anche a quelle di grado. La diseguaglianza
non è più compatibile con la libertà quando i privilegiati possono
negare i diritti di partecipazione degli svantaggiati, ovvero quando
gli svantaggiati restano nei fatti del tutto esclusi dalla
partecipazione al processo sociale, economico e politico». E ancora:
«Il fine più alto è l’estensione delle chances di vita dei vincenti
a tutti gli altri» (Dahrendorf, 2005).
Un altro sociologo e filosofo, Zygmunt Bauman, analizza, con
puntualità e incisività, la mixofobia, attraverso la descrizione
delle cosiddette gated communities [“comunità chiuse”, N.d.R.]:
«L’intento di questi spazi preclusi è chiaramente quello di
dividere, segregare, escludere, e non quello di creare ponti, comodi
transiti e luoghi d’incontro, di facilitare le comunicazioni e
riunire gli abitanti della città». E la mixofilia come fusione di
orizzonti: «La comprensione reciproca si ottiene con una “fusione
d’orizzonti”; orizzonti cognitivi, che vengono tracciati e allargati
accumulando esperienze di vita. La fusione che una comprensione
reciproca richiede non può che essere la conseguenza di
un’esperienza condivisa; e non si può certo pensare di condividere
un’esperienza senza condividere uno spazio» (Bauman, 2005).
In Cinque chiavi per il futuro, nel capitolo dedicato
all’Intelligenza sintetica, Howard Gardner ci fa notare come «gli
individui che non hanno capacità di sintesi saranno travolti dalla
mole delle informazioni e non sapranno compiere scelte sensate nella
sfera privata e professionale […]; se viene compiuto lo sforzo di
creare un lessico adeguato, e se ogni specialista impara quantomeno
a prevedere, a partire da un diverso retroterra, i problemi che
potrebbero assillare i colleghi, le probabilità che si formi un
gruppo di lavoro produttivamente orientato a uno scopo aumentano
nettamente» (Gardner, 2007).
Nel suo recentissimo La musica è un tutto. Etica ed estetica, il
famoso pianista e direttore d’orchestra Daniel Barenboim ci consegna
poi alcune interessanti riflessioni: «Un brano musicale è un tutto
organico, dove ogni aspetto si relaziona all’altro. La musica non
può essere smembrata nei suoi elementi costitutivi; non può esistere
melodia senza ritmo, melodia senza armonia, armonia senza ritmo e
così via. […] Nel fare musica, se un elemento si disconnette dagli
altri, automaticamente viene meno l’idea di un tutto. Non appena
questo tutto integrato svanisce, il pezzo non può più essere
considerato musica nel senso più pieno e profondo del termine» (Baremboim,
2013).
Dal canto suo, Urie Bronfenbrenner ci consegna l’immagine del
contesto educativo come un ecosistema in cui le persone sono legate
da complesse interazioni e scambi. Inoltre, nel processo di sviluppo
della persona, vi è uno stretto rapporto dinamico tra uomo e
ambiente. Qui giova ricordare, dal Dizionario Treccani, il
significato di sistema, ovvero, «nell’ambito scientifico, qualsiasi
oggetto di studio che, pur essendo costituito da diversi elementi
reciprocamente interconnessi ed interagenti tra loro o con
l’ambiente esterno, reagisce o evolve come un tutto, con proprie
leggi generali».
Concludo il panorama con un altro sociologo e filosofo, il
summenzionato Edgar Morin, con un inciso della medesima opera citata
in precedenza: «Gli sviluppi disciplinari delle scienze non hanno
portato solo i vantaggi della divisione del lavoro, hanno portato
anche gli inconvenienti della super specializzazione, della
compartimentazione e del frazionamento del sapere. Non hanno
prodotto solo conoscenza e delucidazione, ma anche ignoranza e
cecità. Invece di opporre correttivi a questi sviluppi, il nostro
sistema d’insegnamento obbedisce loro. Ci insegna, a partire dalle
scuole elementari, a isolare gli oggetti (dal loro ambiente), a
separare le discipline (piuttosto che a riconoscere le loro
solidarietà), a disgiungere i problemi, piuttosto che a collegare e
integrare» (Morin, 2000). E a volte anche a separare gli alunni,
aggiungo io!
Della statistica.
Da quelle che mi piace definire “intercettazioni ambientali”, ho
potuto captare questo dialogo, versione moderna dei Bisogna
Etichettare Sempre.
Dialogo tra un docente e uno specialista.
«Nella mia classe ci sono: 1 ASPERGER, 1 DSA, 1 ADHD, 1FIL, 4
STRANIERI di cui 1MAR 1EST 1CIN 1 di COLORE, 2 con disagio che
glieli raccomando. E poi ci sono gli altri 14, normodotati, tra cui
si celano un paio di demotivati».
Sull’argomento lascio parlare Bauman: «… non soltanto le unità di un
certo tipo sono in maggioranza, ma esse sono come “dovrebbero
essere”; sono “giuste e appropriate”; al contrario, quelle che
difettano dell’attributo in questione sono “come non dovrebbero
essere” – “sbagliate e inappropriate… […] Il passaggio dalla
“maggioranza statistica” (un’enunciazione di fatto) alla “normalità”
(un giudizio di valutazione), e dalla “minoranza statistica” alla
“anormalità”, attribuisce una differenza di qualità alla differenza
nei numeri: essere in minoranza significa anche essere inferiori…» (Bauman,
2012). Non ritengo di dover aggiungere altro in quanto i concetti
sono molto chiari.
Un altro punto di vista con cambio di
paradigma
Ho scelto questa lunga introduzione perché c’è bisogno, a mio
avviso, di ritrovare un ancoraggio speculativo che indaghi le
ragioni che hanno portato la scuola italiana sulla via
dell’integrazione. Senza questi e altri ripensamenti, c’è il rischio
di andare a una deriva, facendo prevalere le ragioni cliniche su
quelle pedagogiche. E c’è altrettanto bisogno che il corpo
insegnante ritorni in primo piano a svolgere il compito che ad esso
compete: quello dell’intellettuale. Inteso come figura che non si
accontenta di gestire la quotidianità, ma agisce con una visione che
sa andare oltre gli ostacoli.
La scelta di ammettere tutti gli alunni nella nostra scuola aveva
ragioni pedagogiche che man mano si sono consolidate perché per
molti anni abbiamo lavorato in situazione di work in progress
[“lavoro in corso”, N.d.R.]. E mi avvalgo di alcune
esemplificazioni. Sono un testimone privilegiato perché ho
cominciato a fare sostegno nel lontano 1974, ancora prima della
normativa. Erano i primi esperimenti di quello che verrà chiamato
“inserimento selvaggio”. Senza quel coraggio, o incoscienza (ai
Lettori l’ardua sentenza!), staremmo ancora interrogandoci, come
fanno i francesi, sull’opportunità o meno di procedere. Certo, in
quel momento ci si accontentava della socializzazione, ma in capo a
pochi anni – e proprio perché le persone con disabilità erano con
tutti – ci siamo resi conto che la socializzazione non bastava. E
abbiamo aggiunto l’autonomia e l’apprendimento. Nel frattempo, nel
1975, quando la politica pensava e proponeva (bei tempi!) una commis
sione senatoriale, presieduta dalla senatrice Franca Falcucci,
elabora un documento di alto valore umano in quanto fa prevalere lo
sguardo pedagogico.
Un documento di questo genere, soprattutto nella prima parte, lo
renderei lettura obbligatoria per tutti gli insegnanti. Lì dentro ci
sono tutti i presupposti teorici per la scuola che oggi definiamo
inclusiva. E non per un gioco di parole, ma perché l’esperienza
dell’integrazione ci ha dimostrato la necessità di mettere in primo
piano la persona nella sua interezza, bio-psico-sociale. Questo
significa che la scuola italiana ha precorso quello che l’ICF ha
codificato venticinque anni dopo. E ha precorso anche la scoperta
dell’importanza dell’imitazione per l’apprendimento, dimostrata
dalla scoperta, tutta italiana, della teoria dei “neuroni specchio”.
Ritornando al “Documento Falcucci”, non posso esimermi dal
riportarne alcuni stralci:
«La preliminare considerazione che la Commissione ha ritenuto di
fare è che le possibilità di attuazione di una struttura scolastica
idonea ad affrontare il problema dei ragazzi handicappati presuppone
il convincimento che anche i soggetti con difficoltà di sviluppo, di
apprendimento e di adattamento devono essere considerati
protagonisti della propria crescita. In essi infatti esistono
potenzialità conoscitive, operative e relazionali spesso bloccate
degli schemi e dalle richieste della cultura corrente e del
costruire sociale».
[…]
«… La scuola proprio perché deve rapportare l’azione educativa alle
potenzialità individuali di ogni allievo, appare la struttura più
appropriata per far superare la condizione di emarginazione in cui
altrimenti sarebbero condannati i bambini handicappati, anche se
deve considerarsi coessenziale una organizzazione dei servizi
sanitari e sociali finalizzati all’identico obiettivo. Questo
impegno convergente si impone preliminarmente sotto il profilo della
prevenzione anche in senso diagnostico, terapeutico ed educativo da
realizzarsi fin dalla nascita ed in tutto l’arco prescolare,
specialmente nei confronti del bambino che abbia particolari
difficoltà; sia per circoscrivere, ridurre ed eliminarne le cause,
ove possibile, nonché gli effetti di esse; sia per evitare
l’instaurazione di disturbi secondari…».
[...]
«… La scuola può contribuire a quest’opera di prevenzione e di
recupero precoce, con la generalizzazione dalla scuola materna
(anche se non obbligatoria) che, oltre ad offrire al bambino
l’occasione di un più articolato processo di socializzazione, può
favorire la tempestiva prevenzione ed il superamento delle
difficoltà che possono ostacolare lo sviluppo psicofisico…».
[…]
«… Il superamento di qualsiasi forma di emarginazione degli
handicappati passa attraverso un nuovo modo di concepire e di
attuare la scuola, così da poter veramente accogliere ogni bambino
ed ogni adolescente per favorirne lo sviluppo personale, precisando
peraltro che la frequenza di scuole comuni da parte di bambini
handicappati non implica il raggiungimento di mete culturali minime
comuni. Lo stesso criterio di valutazione dell’esito scolastico,
deve perciò fare riferimento al grado di maturazione raggiunto
dall’alunno sia globalmente sia a livello degli apprendimenti
realizzati, superando il concetto rigido del voto o della pagella…».
[…]
«… Condizione essenziale è che tutti gli operatori, docenti e
specialisti, lavorino in équipe per l’attuazione dei finì indicati,
e per tutti gli interventi ritenuti necessari onde evitare che il
loro apporto si vanifichi in generiche ed unilaterali iniziative…».
Questi presupposti, che hanno dato un grande contributo al
miglioramento della scuola italiana, sono validi tutt’oggi, come
nell’ampia introduzione è, a mio avviso, ben dimostrato. E per
questi motivi ritengo i recenti documenti – che sono la scaturigine
di molte riflessioni – un passo indietro.
Alcuni anni fa ho contribuito, con uno scritto, a un libro in cui si
definisce la scuola inclusiva in questo modo: «L’educazione
inclusiva mira a garantire la partecipazione di tutti gli alunni nel
processo di apprendimento in quanto persone e non perché
appartenenti a una “speciale” categoria”». Come si può immaginare,
non posso che condividerla fino in fondo, anche perché dentro c’è il
motivo delle mie perplessità intorno alle ultime Direttive
Ministeriali. Perché alle tante sigle – che suonano come
“antibiotici” – ne abbiamo aggiunta un’altra che sta già entrando
nel linguaggio comune perché di facile pronuncia: BES. Se notate,
tutte le sigle hanno una connotazione sottrattiva e con al centro il
disturbo (vedi quanto scritto precedentemente, nel paragrafo Della
statistica). Ma se proprio vogliamo usare una sigla perché non
possiamo farne a meno, propongo di usare Bisogni Educativi
Individuali, restando nel solco della nostra tradizione e appl
icando con coerenza i fondamentali dell’ICF e della scuola
inclusiva.
Quali sono le altre ragioni delle mie perplessità, sulle quali sarò
disposto a ricredermi se qualcuno riuscirà a convincermi?
Della formazione.
«La convinzione che l’adulto educato non abbia più bisogno di
leggere la si ritrova chiaramente nella cosiddetta “teoria del
cammello” seconda la quale, prima di incominciare il viaggio della
vita [o dell’insegnamento, N.d.A.], riceviamo tutto il nutrimento
mentale [o professionale, N.d.A.] di cui abbiamo bisogno per
attraversare l’intero percorso» (Guerrini, 2011).
Un’operazione di rinnovamento/cambiamento, condivisa o meno, non può
rinunciare al supporto della formazione di tutti gli insegnanti. Ma
sappiamo che la formazione non è obbligatoria. Che cosa aspettiamo a
reintrodurre questa pratica, senza la quale la presunta svolta cadrà
ancora una volta sulle spalle dei più volenterosi e dei GLH [Gruppi
di Lavoro Handicap, N.d.R.]? (Che è bene ci siano e che soprattutto
funzionino). Ancora una volta, infatti, l’approccio non sarà
olistico, ma settoriale. Con la probabilità che le aule di sostegno
diventino le “aule BES”! E che ancora una volta il contesto non
venga preso in considerazione. Con buona pace di Bruner,
Bronfenbrenner e dell’ICF.
Ritengo utile ripassare la definizione dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità: «Disabilità: conseguenza o risultato di una complessa
relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori
personali e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in
cui vive l’individuo». Si tratta di una definizione che ci aiuta a
comprendere la necessità di cambio del paradigma, spostando
l’intervento dal bambino in difficoltà al contesto, che si deve
interrogare se sta facendo tutto quello che può fare sul piano
umano, pedagogico e didattico. Perché le differenze non si
trasformino in diseguaglianze (Ministero della Pubblica istruzione,
Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il
primo ciclo di istruzione, settembre 2007).
Della valutazione.
Il precedente passaggio apre lo sguardo sul tema della
valutazione/autovalutazione. Per ora l’unica valutazione strutturale
è quella che riguarda l’alunno. Se non entra in campo anche la
valutazione dei processi, ancora una volta in discussione ci sono i
disturbi e non i contesti. Ho letto, con piacere, che qualcosa si
sta muovendo in questa direzione, ma su questo non sono ancora bene
informato.
C’è poi la questione dell’“incompiuta” ovvero della scuola
dell’autonomia. Mi sembra di vedere ancora lontano lo spirito di una
scuola legata al dialogo con il proprio territorio. Mi sembra di
vedere ancora troppo marcata l’attesa messianica delle Circolari. E
questo coinvolge anche le responsabilità di un tessuto
socio-politico molto attento ad altre istanze non propriamente
educative.
Lascio sullo sfondo il problema del reclutamento, che tuttavia
meriterebbe un serio ripensamento. (Della serie: “la vita non è
tutta in un quiz”!).
Del fare e non del disfare: un aiuto dal
sociale
Da un paio d’anni sono abbonato alla rivista «Animazione Sociale»
che consiglio caldamente a tutti i Lettori, perché si occupa, con
competenza, anche di temi legati alla scuola. Qui di seguito ne
riporto una serie di interventi, estrapolati da alcune interviste a
docenti universitari.
Intervista a Paola Di Nicola, sociologa,
docente dell’Università di Verona
(da «Animazione Sociale», n. 262, aprile 2012):
«Senza reti nessuno si salva in quanto: 1. Le reti forniscono
identità e aiuto materiale. 2. Mettere la lente sulle reti di cui le
persone dispongono è cogliere un aspetto cruciale del vivere
contemporaneo. 3. Si è buone madri perché si ha una rete intorno
(rete di prossimità). 4. Nelle reti troviamo la possibilità di
essere riconosciuti dagli altri. 5. Chi ha meno reti sono i gruppi
sociali più deboli».
Intervista a Vanna Iori, professore
ordinario di Pedagogia Generale e Sociale
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (da «Animazione
Sociale», n. 268, dicembre 2012):
«Siamo al tacito predominio del già noto, all’esasperazione della
sola dimensione normativa che, assunta a principio ispiratore,
finisce per perpetuare se stessa anche nell’età adulta, come se
sempre si avesse bisogno della “stampella” normativa”»
[...]
«L’evento imprevisto sovverte il progetto previsto e la possibilità
formativa dell’evento sfugge al controllo, alla verifica, alla
razionalizzazione e all’istituzionalizzazione».
[…]
«Afferma Hannah Arendt che nell’educazione si decide se noi amiamo i
nostri figli “tanto da non strappargli di mano la loro occasione
d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi;
e prepararli al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a
tutti”».
Altra cosa sarebbe pensare plurale.
(Intervista ad Andrea Canevaro, pedagogista dell’Università di
Bologna, da «Animazione Sociale», giugno/luglio 2012):
«Vi è una grave carenza di competenza per un agire cooperativo, al
di là della disponibilità soggettiva».
[…]
«Non esiste un punto di vista che comprenda in sé tutte le
prospettive. Piuttosto esistono versioni multiple che a volte
possono convivere in relativa armonia fino a produrre insieme
pensieri complessi, plurali al loro interno, che aiutano a
comprendere meglio la situazione, altre volte sono inconciliabili
l’una con l’altra, come quando ogni operatore continua a descrivere
la realtà unicamente dentro il suo linguaggio».
[…]
«Un servizio deve contaminarsi e darsene ragione in quanto la
contaminazione è propria dei sistemi complessi che cercano vie di
uscita dai problemi».
[…]
«È lo specialismo una vera e propria malattia endemica. Proponiamo
la competenza solidale».
Mi è capitato di lavorare alla stesura di Accordi di Programma,
previsti dalla Legge 104/92. Quando sono emerse le competenze
solidali, il lavoro ha dato i suoi frutti.
La classe come sfondo ovvero l’“arte del mescolare”
Non ho commentato volutamente i passi del precedente paragrafo
perché sono molto chiari e pieni di indicazioni. E soprattutto
mettono in primo piano la necessità della contaminazione come
caratteristica della rete. Io la chiamo l’“arte del mescolare”: le
competenze, le capacità, le abilità, i linguaggi, le discipline, i
saperi, le conoscenze, i facilitatori, le barriere, le performance,
i dubbi, le incertezze. Degli insegnanti e degli alunni. E, come
dice bene Paolo Perticari, in un percorso di riconoscimento: «L’
educatore, senza imporre la propria mentalità, dovrebbe riuscire a
realizzare una comunicazione autorevole, in cui a ciascun
partecipante sia data la possibilità di “mettere in comune”. Per
fare ciò bisogna riconoscere all’altro lo stesso valore e la stessa
dignità che si riconosce a se stessi. Ogni conoscenza reciproca deve
sviluppare non un adattamento unilaterale, ma vicendevole. Questa
reciprocità può consentire un’evoluzione più armo nica del vivere
insieme» (Perticari, 2008).
Per questo modus operandi bisogna condividere spazi comuni che non
sono solo fisici, in quanto la scuola non deve vivere la
progettualità di percorsi innovativi come un’azione esterna al
curricolo. Personalmente credo che il curricolo debba avere la
caratteristica dell’innovazione. Progetti eccezionali, ma esterni al
curricolo, sono destinati a vivere nella nicchia delle buone prassi
come “icone da adorare”, ma impossibili da essere di stimolo alla
quotidianità del lavoro, in classe con tutti gli alunni, perché
irraggiungibili.
In questo clima, la classe come sfondo significa:
- il programma come strumento e non come fine;
- non ci sono categorie di alunni, ma la classe come comunità
educante: didattica collaborativa;
- riconoscimento del diritto alla diversità;
- sublimazione dei concetti di personalizzazione, di
individualizzazione, di eccellenza, di potenzialità;
- riconoscimento all’alunno dello status di attore nel processo
educativo.
Degli insegnanti.
Se avessi voluto rimanere negli schemi consueti, avrei dovuto
titolare il paragrafo Dell’insegnante di sostegno, ma voglio restare
coerente con il resto dello scritto. Anche qui, infatti, intendo
cambiare paradigma e preferisco parlare del contesto.
In una scuola in cui esiste la collegialità, il problema del
coinvolgimento dell’insegnante di sostegno (ricordiamoci sempre che
la Legge 517/77 parla di «insegnanti specializzati per le attività
di sostegno» e che l’insegnante in questione è «contitolare») non si
pone perché la normativa è molto chiara. Il problema, quindi, è il
contesto inadeguato, quando non si avvale della procedura
collegiale.
Noi possiamo anche chiamarlo in modo diverso, ma io sono dell’idea
che dobbiamo cominciare, come primo passo, a dividere il numero
degli insegnanti di sostegno sul numero totale degli alunni. In
altre parole, non ci sono 100.000 insegnanti di sostegno per 215.000
alunni con disabilità, ma sono da considerare a disposizione per gli
oltre 7 milioni di alunni della scuola italiana. Se poi la scuola li
utilizza come badanti, è la scuola che deve cambiare l’operatività e
applicare la normativa. Ricollocare il sostegno con alchimie non
troppo chiare significa aggirare l’ostacolo.
In tali problematiche, mettere in pratica l’auspicato processo di
valutazione/autovalutazione aiuterebbe a capire il contesto per
poter intervenire ad hoc. Per esempio, il sostegno può essere
gestito, in alcuni casi, anche dagli insegnanti curricolari, in
possesso di competenze particolari.
La deriva legislativa.
Ecco dove si è spostata la nostra attenzione: sulla questione del
certificato. Non Basta Essere Studenti, Bisogna Essere Speciali
perché la scuola intervenga? Mi è stato detto che per i Piani
Personalizzati non era sufficiente la Legge 53/03, in quanto priva
dei decreti applicativi. Mi chiedo: non era più semplice farli,
piuttosto che aprire una fase legislativa con la 170/10 [Legge per
gli alunni con DSA – Disturbi Specifici dell’Apprendimento, N.d.R.]?
E ora, logica conseguenza, si vocifera che sia in preparazione una
legge per gli alunni ADHD [Disturbi da Deficit di Attenzione e
Iperattività, N.d.R.]. E ne verranno inevitabilmente altre, se non
si cambia paradigma.
Personalmente questa deriva legislativa l’ho prevista nel lontano
2007, quando si ipotizzava appunto la legge per gli alunni con DSA.
(Nota: mi preme precisare che per quanto di mia competenza, prevista
dal mio ruolo istituzionale, ho sempre puntualmente fatto applicare
la legge sunnominata).
Le fatiche della scuola.
Prevedo che qualcuno mi farà osservare che la scuola reale è
un’altra. La mia risposta è molto semplice: se la realtà non fosse
diversa, non faremmo queste discussioni. Io credo, al contrario, che
si debbano recuperare due dimensioni molto importanti: l’assunzione
di responsabilità personale e la consapevolezza delle fatiche della
scuola.
La prima è una dimensione molto importante in quanto i
professionisti della scuola, dirigenti e insegnanti, i collaboratori
scolastici, gli amministrativi, lavorano in un campo in cui si
preparano i Cittadini del futuro. E tutti insieme abbiamo il dovere
di preparare un contesto in cui il giovane Cittadino possa
intravedere un futuro come promessa e non come minaccia.
Per la seconda dimensione, mi avvalgo di un documento della scuola
del Regno Lombardo-Veneto, datato 3 settembre 1859. È il Concorso
Pel rimpiazzo del sotto indicato impiego vacante nella Scuola
elementare del Comune di Corzano [in provincia di Brescia, N.d.R.].
Per partecipare bisognava presentare «la relativa istanza corredata
dei seguenti documenti: I° Patente di abilitazione all’insegnamento
proprio del posto cui aspira. 2° Fede di nascita. 3° Attestato
medico comprovante la fisica attitudine del concorrente a sostenere
le fatiche della scuola». (Stipendio annuo: lire 250).
Il terzo punto è straordinariamente attuale in quanto la professione
insegnante, oggi, tra le professioni d’aiuto, è quella più esposta
alla sindrome da burnout [processo di stress che colpisce le persone
che esercitano professioni d’aiuto, N.d.R.].
Un manifesto per la scuola inclusiva.
Dahrendorf ci insegna che «la libertà non è mai un soffice cuscino
sul quale ci si possa adagiare o dare a un godimento passivo; è
sempre una sfida all’attività». Io credo che lo si possa dire anche
per la scuola inclusiva. Ma c’è l’esigenza di elaborare i
fondamentali e in merito ho fatto alcune proposte, su cui lavorare.
Senza la consapevolezza di dove si vuole andare, c’è il rischio di
prendere pericolose scorciatoie. L’esperienza italiana – la cui
valenza è riconosciuta internazionalmente – rischia di essere messa
in liquidazione, se si emanano provvedimenti che rispondono più al
mercato e/o alle lobby professionali. In ballo c’è un valore non
negoziabile: la solidarietà. Una scuola che non sa essere solidale è
una scuola senz’anima, che rinuncia alla sua mission. Per questo c’è
bisogno di un manifesto frutto del contributo di tutti. A partire
dagli studenti con le loro famiglie. Un manifesto che preveda anche
la revisione dell’impianto normativo in tema di disabilità. Ma che,
soprattutto, sappia andare oltre gli specialismi e gli specialisti
che lavorano con il teleobiettivo, con alte probabilità di creare
gated communities [“comunità chiuse”, N.d.R.]. Se, al contrario,
vogliamo fondere gli orizzonti, c’è bisogno del grandangolo.
Finale con brio.
«Ai bambini buoni la dolce Euchessina»: la pubblicità della dolce
Euchessina, stimolante lassativo, nacque, negli Anni Sessanta, con
uno slogan che escludeva i bambini cattivi dalla possibilità di
avvalersi della medicina. In seguito, l’azienda, resasi conto del
messaggio morale nei confronti dei bambini cattivi, corresse il
tiro, precisando: «Non esistono bambini cattivi, esistono solo
bambini indisposti». Come si vede, lo stile dell’etichettatura
proviene da lontano!
Post Scriptum: Il prodotto, dopo un buon periodo di vendite, venne
ritirato dal mercato perché si scoprì che conteneva una sostanza
dannosa. La tentazione di lasciarlo in commercio solo per i bambini
cattivi è stata forte!
Post Scriptum conclusivo: Ho scoperto recentemente il Progetto BES,
nato da un’iniziativa del CNEL e dell’ISTAT. Una coincidenza
intrigante, perché l’acronimo ha una traduzione veramente
interessante: Benessere Equo Sostenibile. Per misurarlo, sono state
individuate dodici dimensioni del benessere, tra cui quella riferita
all’istruzione e alla formazione.
Tradotta in pratica, la scuola è una dimensione inclusa in quella
più ampia della qualità della vita e quindi è oltremodo giustificata
la contaminazione o arte del mescolare, interna ed esterna, di cui
si parla nel presente articolo. In altre parole, il processo
educativo può dare il proprio contributo alla costruzione del
Benessere Equo Solidale nella scuola di tutti, attraverso un
intervento coerente con i Bisogni Educativi Individuali di ciascuno.
Giancarlo Onger,
Presidente del CNIS di Brescia (Coordinamento Nazionale degli
Insegnanti Specializzati e la Ricerca sulle Situazioni di Handicap).
***
Bibliografia.
- Alberti, Leon Battista, De pictura, 1435 (testo liberamente
adattato).
- Barenboim, Daniel, La musica è un tutto, Milano, Feltrinelli,
2013.
- Bauman, Zygmunt, Fiducia e paura nella città, Milano, Bruno
Mondadori, 2005.
- Bauman, Zygmunt, Conversazione sull’educazione, Spini di Gardolo
(Trento), Erickson, 2012.
- Bruner, Jerome Seymour, Il conoscere. Saggi per la mano sinistra,
Roma, Armando, 1968.
- Dahrendorf, Ralf, Libertà attiva. Sei lezioni su un mondo
instabile, Roma-Bari, Laterza, 2005.
- Gabelli, Aristide, Istruzioni per l’applicazione dei programmi
della scuola elementare, 1888.
- Gardner, Howard, Cinque chiavi per il futuro, Milano, Feltrinelli,
2007.
- Guerrini, Mauro (a cura di), Leggere Ranganathan, Roma, AIB, 2011.
- Montessori, Maria, Il metodo della pedagogia scientifica, Città di
Castello, Lapi, 1909.
- Morin, Edgar, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e
riforma del pensiero, Milano, Raffaello Cortina, 2000.
- Perticari, Paolo, La scuola che non c’è, Roma, Armando, 2008.
- Rousseau, Jean-Jacques, Discorso sull’origine e i fondamenti della
disuguaglianza fra gli uomini, 1755.
- Sèguin, Edouard, Traitement moral, hygiène et éducation des idiots
et des autres enfants arriérés, 1846.
Sitografia.
- «Disabilità Intellettive» è un sito molto interessante in quanto
vi si può leggere una preziosa rassegna sullo stato della ricerca
internazionale che riguarda la presenza degli alunni con disabilità
nelle classi comuni. I risultati sono sorprendenti e sfatano molti
luoghi comuni. Un’ulteriore conferma che in Italia avevamo visto
giusto.
- Nella recente Circolare Ministeriale 8/13 del 6 marzo, è citato il
sito «Quadis». Il progetto, dell’Ufficio Scolastico Regionale della
Lombardia, è stato elaborato e implementato attraverso una decina di
anni di lavoro. Ha visto all’opera diversi insegnanti e dirigenti di
ogni ordine e grado. Ne è uscita un’articolata proposta, che prevede
un processo di autovalutazione sul funzionamento complessivo della
scuola, con attenzione sia al curricolo esplicito che a quello
implicito.
Filmografia
- A Beautiful Mind, di Ron Howard, Gran Bretagna, 2001 (140’).
- Freaks, di Tod Browning, Stati Uniti, 1932 (64’)
- La zona, di Rodrigo Plà, Spagna-Messico, 2007 (97’).
- Le chiavi di casa, di Gianni Amelio, Italia-Francia-Germania, 2004
(105’).
- Miracolo a Le Havre, di Aki Kaurismäki, Finlandia-Francia-Germania,
2011 (93’).