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Università o lavoro? Loredana Garlati, il Sussidiario 3.5.2013 In un articolo, apparso qualche mese fa su un quotidiano nazionale, leggevo: "Lavoro o università ? A volte sceglie la vita, altre l'ereditarietà , poche volte la passione. Ragazzi disorientati, intelligenti e persi, non per colpa loro. Immersi in un mare di consigli per la scelta, con luccicanti gadget di atenei griffati e pochi punti di riferimento importanti. Gli studenti che terminano l'esame di maturità sono poco abituati a costruire, se non certezze per il proprio futuro, almeno a guardarsi allo specchio. Spesso prevale la decisione di seguire gli amici, non i propri reali interessi e la propria personalità . Eccessivo, poi, il peso delle famiglie, che nella maggioranza dei casi si affidano a convincimenti vecchi e superati dalla realtà attuale, diversa rispetto a quella delle passate generazioni". Sono riflessioni che inducono una volta di più ad affrontare il tema dell'orientamento che forse ora riveste, rispetto al passato, una maggiore rilevanza. Agli interrogativi che da sempre accompagnano le ragazze e i ragazzi al termine della scuola superiore (proseguire gli studi o intraprendere un'attività lavorativa? E se si decide di studiare, quale corso scegliere, a quali criteri ispirarsi?) si aggiungono ora nuovi dubbi e incertezze. Uno su tutti: vale ancora la pena iscriversi all'università? Non c'è quotidiano che non dedichi spazio al tracollo degli iscritti nei nostri atenei o al crescente numero di disoccupati tra i laureati, quasi insinuando, in modo strisciante, il messaggio, quanto mai pericoloso, dell'inutilità della laurea. Pericoloso perché il nostro paese, secondo i dati Eurostat, presenta un dato preoccupante: se la media dei laureati europei, nella fascia d'età tra i 30 e i 34 anni, è del 34,6% rispetto al totale di quelli che conseguono il titolo, con Regno Unito, Francia, Spagna e Germania ai primi posti, l'Italia occupa l'ultimo posto con il suo 20% e di fronte all'obiettivo europeo di raggiungere nel 2020 la percentuale del 40% dei laureati, l'Italia ha saputo garantire solo un imbarazzante 26-27%. Questa analisi rende ancora più necessaria l'attuazione di buone politiche orientamento in grado di aiutare i ragazzi a riflettere sul proprio futuro, accrescendo la fiducia nello studio come strumento di crescita individuale e di progresso sociale. Le ricerche degli ultimi anni hanno evidenziato che a fronte di un aumento quantitativo delle informazioni fa da contraltare una riduzione di attenzione verso la qualità delle stesse. Pressioni culturali, sociali e familiari interferiscono con la capacità dei giovani di prendere in esame la propria situazione, aumentando di fatto la loro insicurezza e rivelando la carenza dei processi orientativi che pongano al centro il vero e l'unico soggetto meritevole di attenzione: lo studente. La scelta se proseguire gli studi, una volta terminate le scuole superiori, e quali studi intraprendere è una scelta che impone innanzitutto alle ragazze e ai ragazzi una presa di coscienza di sé, delle proprie aspirazioni, desideri e obiettivi, un processo di consapevolezza nella quale sono spesso implicati altri “attori”. È infatti sempre più frequente il coinvolgimento dei genitori, preoccupati soprattutto che i loro figli facciano la scelta “giusta”. Li si incontra orami quotidianamente nelle Università: accompagnano i figli agli open day, li affiancano nelle iniziative riservate agli studenti, contattano i servizi di orientamento. È recente la notizia di moltissimi genitori al seguito dei figli in occasione del test di ammissione alla facoltà di Medicina dell’Università Cattolica, una partecipazione ansiosa e apprensiva che la dice lunga sulla difficoltà di traghettare in modo corretto i propri figli verso una vita adulta. Non è raro poi che gli studenti cerchino consiglio nei loro professori, talvolta depositari di un’idea di università ormai tramontata, ignari delle trasformazioni succedutisi a ritmo frenetico in questi anni ed essi stessi disorientati di fronte alle richieste di aiuto. E infine vi sono le università, a volte preoccupate più di svolgere vere e proprie campagne di marketing che di “fare” orientamento (ma marketing e orientamento sono due discipline diverse!) Una sorta di “caccia allo studente”? In alcuni casi sembra così, o questo almeno è il messaggio che filtra. Si veda per esempio la recente notizia che Ca’ Foscari intende anticipare l’acquisizione di crediti universitari già nell’ultimo anno delle scuole superiori, una notizia in cui con una certa confusione si miscela il concetto di orientamento con strategie tese ad “accaparrarsi” il maggior numero di studenti (uso un’espressione più volte letta in questi giorni, e che racchiude, a mio parere, la sconfitta stessa del significato dell’orientamento). L’obiettivo delle università è la qualità della formazione (e, quindi, per quanto riguarda l’ingresso, della scelta): fare orientamento è soprattutto aiutare le persone a capire quale sia la propria strada (e quale non sia), fornire gli strumenti per poterlo fare in modo consapevole, esplorando motivazioni e dubbi, confrontando le aspettative con i dati della realtà inerenti il contesto universitario e/o professionale, esplicitando i criteri di scelta e chiarendo i diversi percorsi formativi. Fare orientamento da parte degli operatori richiede competenza ed esperienza, continuo aggiornamento, studio e confronto e un occhio, sempre attento, rivolto ai nuovi bisogni, alle diverse richieste per porre in essere una promozione prima di tutto dell’individuo che non si risolva in una semplice e vuota vetrina di ciò che un ateneo può offrire. Occorre tuttavia augurarsi anche un cambiamento da parte delle nostre istituzioni, cieche e sorde ad ogni grido di allarme. L’Italia è infatti di nuovo ultima fra i 27 paesi dell’Ue per la percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura. In questo modo, non solo si condanna l’istruzione ad una lenta agonia, ma, fatto ancor più grave, si condannano intere generazioni e un intero paese a non avere futuro, a rinunciare alla competitività economica, alle scoperte scientifiche, al progresso tecnologico. Che siano i nostri governanti i primi ad avere necessità di essere “orientati”? |