La piramide “bloccata”.
Definanziamento universitario
e impasse della ricerca

di da ROARS, 14.5.2013

Il proposito iniziale dell’ex premier Mario Monti era stato chiaro: limitare l’autogoverno accademico per contrastare derive corporative e dare maggiore “voce a studenti e famiglie” (*). Le campagne sul “merito” di Francesco Profumo, risoltesi in proclami e confuse campagne d’informazione, rinviavano alla stessa urgenza. Introdurre “concorrenza” nel mondo universitario, aprire, “liberalizzare”. A fronte di programmi branditi come bandiere e impegnative dichiarazioni d’intenti, l’università italiana sperimenta oggi un’immobilità sociale senza precedenti. Restrizioni nel finanziamento, irrigidimento nel vincolo del turn over e concorsi definanziati, banditi dal MIUR con finalità che appaiono in larga parte autopromozionali, sottraggono opportunità di inserimento e carriera ai più giovani e rischiano di disincentivare chi intende fare seria ricerca.

Invecchiamento del corpo docente; frammentazione, casualità e lacunosità degli ordinamenti didattici; processi di valutazione che pongono enfasi su quantità e scoraggiano scrupolo e accuratezza; diminuzione degli iscritti. Questi alcuni problemi tra i tanti: non i soli.

La tradizionale morfologia “a piramide” dell’università italiana, con vertice e ristretto e “base” ampia, esce rafforzata dal processo di riforme: è un paradosso. La modificata disciplina dei concorsi esclude tutti coloro che non siano già ordinari mentre gli incarichi di vertice dell’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca (ANVUR) sono stati conferiti per via discrezionale dal “decisore” politico, in virtù di prossimità e ruoli istituzionali consolidati.

A differenza di quanto è accaduto in America con l’amministrazione Obama, che ha creato un fondo ad hoc per i ricercatori più giovani, nessuno, tra i “decisori” italiani sembra essersi interessato a un problema di giustizia sociale che potrà solo acuirsi nell’immediato futuro. Nei prossimi anni, scrive Antonio Banfi su ROARS, “saranno in buona sostanza impossibili assunzioni [di giovani ricercatori non ancora strutturati] o progressioni di carriera… Le abilitazioni [dei nuovi professori ordinari] paiono fin d’ora, in mancanza di nuovi interventi legislativi, destinate in gran parte a cadere nel nulla”.

Le politiche di austerità sono state applicate alle università senza che si sia pensato di introdurre misure perequative a sostegno di chi, in primo luogo giovani precari o scienziati early career, è (o sarà) colpito più duramente dalla riduzione dei finanziamenti alla ricerca di base. Si è fatto il contrario di quello che si doveva. Si sono rese meno fluide le carriere, che risultano vincolate a imponderabili fatalità di bilancio pubblico; e impenetrabili i processi deliberativi. La circostanza è frustrante proprio per i ricercatori più indipendenti e innovativi. Come ritenere, in tali condizioni, che l’università italiana possa emendarsi da logore consuetudini o dischiudersi a nuove prospettive di ricerca, anche generazionali; e trattenere nel paese i migliori talenti? I normali processi evolutivi che assicurano un ordinato e graduale avvicendamento risultano ostacolati. Riconosciamolo: si è sbagliato nel voler imporre all’università un modello decisionale verticistico e commissariale, adottato autolesionisticamente (e in modo subalterno) sul presupposto di una presunta superiorità dell’organizzazione aziendale. Si è così rinunciato alla sperimentazione di modi o innovazioni specifiche.

Maria Chiara Carrozza, già rettore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e responsabile appena designato del MIUR, riconosce l’impasse e chiede discontinuità politico-istituzionale. “Occorre favorire la mobilità dei ricercatori fra le varie università d’Italia”, ha affermato in un’intervista recente, portando argomenti concreti che autorizzano a ben sperare. “Investire in nuovi posti di ricercatore e professore e abbattere le barriere che volgarmente chiamo ‘gabbie’”.  La domanda è: com’è possibile coniugare “qualità” (o “innovazione”) e definanziamento? Eppure così si è preteso di fare in passato, indulgendo acriticamente a pregiudizi e avversioni ideologiche. “Sbagliano le università quando [vedono] solo nella carenza di fondi la ragione di comparazioni sfavorevoli con il resto del mondo”, argomentava pedagogico Monti. “Ci sono altre tare che hanno bloccato la qualità delle università italiane”. Non ne dubitiamo. Ma sappiamo anche che esiste il diritto dei “capaci e meritevoli anche se privi di mezzi”, ed è tutelato dalla Costituzione.

Con il governo nascente la generazione dei quarantenni giunge al governo del Paese in ruoli e con compiti di rilievo. Questa è una prima constatazione, avalutativa. La seconda constatazione, questa volta politica, è che proprio l’ambito che dovrebbe risultare più pronto alla trasformazione, cioè quello dell’università e della ricerca, si rivela tra i più conservativi sotto profili sia istituzionali che sociali. Dispiace dirlo: perché vorremmo invece che tutti potessero trarre durevole beneficio da processi equi e partecipati di rinnovamento.

 

(pubblicato su Huffington Post del 30.4.2013)