Inclusione: servono dei distinguo
sulle diverse disabilità
Vertono per lo più sulla necessità di operare
dei distinguo sui diversi tipi di disabilità, le voci dissenzienti
ricevute dopo la pubblicazione, nel nostro giornale, di
un’“Opinione” di Salvatore Nocera, a proposito dell’attuale realtà
dell’inclusione scolastica. Ne abbiamo dunque scelte tre, con
l’auspicio che il dibattito da noi avviato diventi sempre più ampio
e costruttivo
Superando
3.5.2013
È stata questa volta
l’Opinione di
Salvatore Nocera – da noi pubblicata con il titolo A proposito
di quelle proposte sull’inclusione, e che a sua volta prendeva
spunto da due precedenti articoli di Giuseppe Felaco – a fare
discutere i Lettori, con alcune voci dissenzienti, accomunate per lo
più dalla necessità di porre dei distinguo – quando si parla di
inclusione scolastica – sulle diverse situazioni di disabilità.
Ne abbiamo scelte tre, cui diamo spazio qui di seguito, lieti di
poter ampliare un dibattito che ci auguriamo diventi sempre più
allargato e costruttivo.
«Sono profondamente
grata al professor Nocera per avermi insegnato molte cose riguardo
al diritto, a come funziona il rapporto tra il cittadino e le
pubbliche amministrazioni, a come leggere tra le righe di una
circolare, a come instaurare un rapporto paritetico all’interno di
un tavolo di conferenza di servizi, eccetera. Credo che ancora il
professore e amico abbia molto da insegnarmi. Specialmente la sua
instancabilità mi insegna che ancora a 70 anni si può spendere la
propria vita per aiutare le persone con semplicità e dedizione, una
cosa, quest’ultima, che mi è servita tanto anche nel mio lavoro e
nel mio impegno, come un modello positivo.
Detto ciò, però, si deve fare un distinguo molto serio tra le
opinioni di un cittadino autorevole, che racconta la propria
esperienza personale, e le indicazioni di un esperto.
Anch’io, come il professor Nocera, ho fatto le scuole normali,
essendo nata e cresciuta nell’epoca in cui gli istituti per
disabili visivi erano in declino e l’integrazione non era più che
una norma vaga e una speranza. Nemmeno io, veramente, avrei avuto
troppo bisogno di tutti gli assistenti e gli insegnanti che in
verità non ho mai avuto, avendo fatto tutte le scuole – dalla
materna alla specializzazione post lauream – senza mai disporre di
materiali differenziati o trascritti, senza l’ombra di un AEC
[Assistente Educativo Culturale, N.d.R.], di un insegnante di
sostegno, di un assistente alla comunicazione e senza un GLH [Gruppo
di Lavoro Handicap, N.d.R.] o di qualsiasi cosa che gli somigliasse
lontanamente. Mi sono arrangiata e ho imparato a fare fatica, avendo
il rispetto e l’aiuto dei miei compagni e degli insegnanti.
Pare che sia andato tutto piuttosto bene, ad eccezione che per la
geografia alle medie (non la capivo perché non avevo cartine a
rilievo) e del latino alle superiori (senza poter leggere il
vocabolario, è un po’ arduo provare a tradurre!). Il fatto di non
avere avuto aiuti mi ha insegnato ad arrangiarmi e ad affinare le
mie capacità e questo mi è utile ancora oggi, quando – da cittadina
disabile adulta e lavoratrice – mi devo confrontare con numerose
occasioni di aggiornamento o di studio, essendo abituata a far da
me, in mezzo alle altre persone, con le quali a volte mi capita di
“mimetizzarmi” anche senza volerlo.
Al di là di tutto ciò, tuttavia, non mi sognerei mai e poi mai di
immaginare i ragazzi e i bambini che seguo, soltanto con
l’insegnante curricolare e questo non perché manchino nella scuola
bambini che potrebbero star bene anche senza le altre figure, ma
perché, ad esempio, i pochi non vedenti che davvero sono solo tali (epidemiologicamente
la pluriminorazione oggi è la regola e non l’eccezione), non vengono
quasi mai da me a cercare consulenza. Sono fortunatamente già
sovrabbondanti di tutta quella pletora di personale che spesso porta
solo a una grande confusione e crea dipendenza, per poi sparire nel
nulla alla fine delle scuole superiori, gettando il povero ragazzo
disabile nella disperazione, quando constata che il mondo non è come
la scuola, in cui aveva la “pappa pronta”.
Occupandomi però di genitori e dei loro figli con disabilità
psicocognitive o in situazioni complesse, devo invece confermare che
spesso (specie se vi sono problemi nella sfera dell’interazione
sociale e disturbi del comportamento), un rapporto 1 a 1 è
necessario.
Questo non significa
che dobbiamo buttare alle ortiche tutto quello che la classe, i
compagni possono fare e così gli insegnanti curricolari. Ma come si
potrebbe realizzare, ad esempio, un intervento di estinzione di
comportamenti problema oppure insegnare anche solo a stare in classe
e a prolungare i tempi di attenzione, senza qualcuno che prendesse i
dati, operasse aiuti, aumentasse i tempi? Come si potrebbe insegnare
a un alunno non verbale a seguire la scuola, senza aiutarlo con un
calendario oggettuale, oppure modellandogli i gesti, o in qualsiasi
altro modo sia necessario? E ancora, come si potrebbero alternare i
momenti di apprendimento in ambiente naturale con quelli in ambiente
strutturato, se non ci fosse qualcuno a dedicarsi a quel ragazzo nel
modo in cui serve e nel tempo in cui serve?
Molto del mio lavoro consiste nel seguire gli assistenti e i
genitori con gli insegnanti, nel programmare, verificare e
realizzare gli interventi individualizzati. Come si potrebbe fare
questo senza persone?
Forse il signor Felaco [il riferimento è all’articolo di Giuseppe
Felaco, da noi pubblicato con il titolo
Tutti avrebbero dei vantaggi, N.d.R.] ha dei congiunti che
magari non hanno bisogno di tutto questo, come non ne ho avuto
bisogno io e nemmeno il nostro insostituibile Salvatore Nocera… E
questo è già moltissimo.
In realtà, piuttosto di spendere soldi per aggiungere figure e
invece di valutare la qualità dei servizi attraverso le quantità di
ore che vi sono per uno studente, si dovrebbe investire nella
qualità della formazione e nella specificità e appropiatezza di ciò
che si fa. Questo, però, significa stabilire per ciascuno quanto,
chi, come, e tutto ciò dipende dalle varie disabilità e specialmente
dal funzionamento delle singole persone».
Maria Luisa Gargiulo (psicologa, psicoterapeuta)
«A Salvatore Nocera
vanno riconosciuti grandissimi meriti per quello che in questi
decenni ha fatto in favore della disabilità. E tuttavia, anche chi
ha fatto molto bene può talvolta incorrere in errori, dovuti alla
scarsa preparazione su di un argomento specifico. È capitato ora
anche a Nocera, e l’argomento specifico è l’autismo.
Intervenendo infatti su due articoli di Giuseppe Felaco comparsi in
“Superando.it”, Nocera ha prospettato per la scuola italiana
l’eliminazione degli insegnanti di sostegno, scrivendo tra l’altro:
“Si tratta di una proposta che parte da un’esigenza indiscutibile,
sempre sostenuta dal sottoscritto, per averla io stesso
sperimentata, quando studiavo da minorato visivo negli Anni
Cinquanta nel ‘profondo Sud’, e cioè il fatto che gli attori primi
dell’inclusione scolastica debbano essere i docenti curricolari e i
compagni di classe. È tuttavia una proposta che non precisa la
necessità di due condizioni e cioè, da una parte, una preventiva e
seria formazione dei docenti curricolari, dall’altra il ridotto
numero di alunni per classe”.
Occorre rilevare che qui Nocera incorre nel gravissimo errore di
estendere all’universale la propria personale esperienza, che è una
procedura sempre rischiosissima. Ben differenti, infatti, sono le
problematiche cognitive e relazionali dei disabili fisici da quelle
che affliggono i disabili psichici, in particolare quando la
disabilità psichica è pervasiva come l’autismo, e comporta delle
difficoltà di gestione spesso quasi insormontabili, anche per
personale molto preparato.
Un minorato visivo non può in alcun modo essere paragonato a un
individuo affetto da radicale “cecità sociale”, magari accompagnata
da ritardo mentale profondo, come spesso avviene nei soggetti
autistici.
Pensare che un bambino o un ragazzo autistico – magari anche
iperattivo e con basse capacità cognitive (ho presente mio figlio e
molti come lui, che conosco) e serissimi problemi comportamentali -,
possa essere proficuamente gestito all’interno di una classe, per
quanto ridotta nel numero, dai suoi insegnanti curricolari e dai
compagni, è, diciamolo francamente, una mera insensatezza.
Molti bambini e ragazzi
con autismo possono (spesso a fatica) avere un loro percorso
scolastico soltanto grazie a una continua assistenza e a insegnanti
di sostegno che li curano con un rapporto di 1 a 1.
Non bisogna farsi prendere né dall’ideologia della “perfetta
inclusione-normalizzazione”, né da “buonismi comunitaristici”;
occorre ragionare sulla base di serie competenze specifiche e sempre
guardando ai dati scientifici. E questi ci dicono che i nostri figli
autistici hanno bisogno di un’educazione speciale, che ha una forte
componente tecnico-professionale, della quale non è assolutamente
possibile che i comuni insegnanti di classe possano disporre, né
oggi né domani né mai.
Per questo, se vogliamo il bene dei nostri figli, occorre che essi a
scuola siano seguiti in un modo particolare, ovvero individuale, con
un sostegno molto più preparato sulle caratteristiche della mente
autistica e sulle metodologie per trattarle, affinché per quanto
possibile, e a seconda delle loro individuali peculiarità, gli
studenti con autismo possano conseguire un livello adeguato di
abilitazione, socializzazione e integrazione».
Fabio Brotto (presidente dell’Associazione
Autismo Treviso)
«Il problema è che
bisognerebbe fare dei distinguo sulle varie disabilità. Come si può
mettere sullo stesso piano una disabilità fisica con una
intellettiva-comportamentale? È impensabile pensare a un’inclusione
per un ragazzo autistico come per un ipovedente.
Mi spiace, ma per una volta sono in profondo disaccordo con il
dottor Nocera. Non riesco neppure ad immaginare mia figlia Nicole
tutto il giorno in classe senza la sua insegnante di sostegno, che
gestisca le sue stereotipie, i suoi momenti di ipercinesia, i suoi
tempi morti; per non parlare degli insegnamenti che inevitabilmente
si devono adeguare al suo livello di comprensione. Né potrei mai
immaginare mio figlio Daniel in classe senza un sostegno adeguato, a
contenere i suoi comportamenti problema, che cerchi di farlo stare
fermo per più di cinque minuti consecutivi.
Ma come, ci battiamo tanto perché i nostri figli non siano un peso
nel gruppo classe e poi si propone di delegare a un solo insegnante
ciò che spesso difficilmente riescono a fare sostegno e AEC
[Assistenti Educativo Culturali, N.d.R.]? Immaginate lo stress delle
insegnanti che a malapena gestiscono la classe…
I momenti di inclusione devono essere assolutamente gestiti al
meglio, per non diventare un ostacolo. E si possono e si devono
creare proprio in sinergia con l’insegnante curricolare: da noi, per
esempio, vi sono storie sociali, circle time [metodo di lavoro
ideato negli Anni Settanta dalla Psicologia Umanistica, per
aumentare la vicinanza emotiva e risolvere i conflitti, N.d.R.],
lavori manuali finalizzati alla costruzione di scenografie e abiti
per rappresentare piccoli copioni inventati dal gruppo classe…
Insomma, tutto ciò che più si addice a questo o quel
bambino-ragazzo… tutti insieme… tutti col sorriso, condividendo e
non “sopportando”».
Stefania Stellino (presidente dell’ANGSA
Lazio-Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici)