Quant’è confusa la scuola italiana
nel tornado del web

Esce un nuovo numero della rivista “aut aut”
di cui si discuterà anche a Vicino/lontano

 Il Piccolo 1.5.2013

Anticipiamo una sintesi di un intervento di Marco Pacini che uscirà sul prossimo numero della rivista "aut aut" intitolato "La scuola impossibile" , in libreria da metà maggio. Il numero speciale di "aut aut" è curato da Beatrice Bonato. Vi intervengono, tra gli altri, Alessandro Dal Lago, Graziella Berto, Pier Aldo Rovatti, Massimo Recalcati, Raoul Kirchmayr, e Luisa Accati, con contributi direttamente legati alle loro pratiche. Il fascicolo verrà presentato sabato 11 maggio nell’ambito della manifestazione internazionale “Vicino/lontano” di Udine (sabato 11 maggio alle 19, alla chiesa di San Francesco).
Mercoledì 8, alle 20.30 in Sala Aiace, sarà la volta del progetto «Cultura. Punto e accapo», che metterà a confronto il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, il curatore del saggio Francesco Paolo Campione e il responsabile del supplemento «Domenica» del «Sole-24 Ore» Armando Massarenti.

 

Il passaggio dalla scuola “cartacea” a quella digitale sta avvenendo sulla scia del pensiero unico ben sintetizzato dalla risposta che Hal Varian, capo economista di Google, ha dato a editori e giornalisti preoccupati per il loro futuro post-Gutenberg, con un articolo pubblicato su “The Atlantic” nell’ottobre del 2010: “Innovare, innovare, innovare”. La scuola 2.0 più che problema è agenda, rincorsa. È sufficiente sfogliare la Rete fermandosi nei nodi istituzionali dedicati alla formazione per misurare la distanza tra la complessità di una svolta e la “necessità” che la aggira.

In linea con le caratteristiche del pensiero digitale, la regia della transizione si basa sostanzialmente su un’opzione-click, ma con una sola icona attiva: quella che dice “avanti”.

Il passaggio verso l’istituzionalizzazione scolastica di una rivoluzione cognitiva avviene con uno sforzo (anche critico) di capire il come e il quando, ma ritagliando al che cosa quasi una nota a margine per gli appassionati del genere, dove genere sta per l’abbondante letteratura critica sul web 2.0. E la scuola 2.0 è chiamata a collaborare attivamente per favorire un passaggio che buona parte della letteratura dedicata (anche scientifica) descrive come paragonabile a quello tra oralità e scrittura, secondo alcuni in direzione di un ritorno.

Web-apocalittici e web-entusiasti sono d’accordo almeno su un punto: sta iniziando una nuova era, l’“era digitale”, che porta con sé una mutazione antropologica epocale. I più entusiasti, come Johnny Ryan, parlano di un “ritorno alla normalità”, laddove l’eccezione che ci ha incatenati per secoli è stata l’era Gutenberg .

Lungo la via del “ritorno alla normalità” il pensiero critico, a cui la scuola per prima dovrebbe allenare le menti, sembra destinato a restare fuori campo. Il problema semmai è il ritardo che sta accumulando il sistema scolastico italiano nel suo viaggio verso un dove deciso più dai lock-in dei processi di sviluppo tecnologico che da un progetto formativo.

Se il quadro teorico del passaggio alla scuola digitale è sostanzialmente vuoto proprio dove questo passaggio prende forma, le ricerche, le esperienze “sul campo”, i sondaggi d’opinione, offrono una varietà di conclusioni contraddittorie. Nel corso del 2011, l’Ipsos ha effettuato una ricerca su “I nativi digitali e la scuola” da cui risulta che genitori e insegnanti sono convinti in larga misura dell’utilità delle nuove tecnologie per migliorare la didattica. Eppure il fronte è tutt’altro che compatto. Un gruppo di docenti del network Athena della Fondazione Pubblicità progresso, per esempio, il 18 gennaio 2013 alla Cattolica di Milano, ha promosso un convegno che ha raccolto molte voci allarmate sul rapido mutamento delle capacità di analisi e apprendimento degli studenti. Tanto da proporre un vademecum “per interrompere questo presunto processo innovativo vietando smartphone e iPad in aula e rivalorizzando il ruolo della scrittura a mano”.

In definitiva, per dirla con il più noto dei web-apocalittici: Internet ci rende stupidi? È chiaro che la domanda posta da Nicholas Carr con il provocatorio libro del 2010 travalica il recinto scolastico, assumendo tuttavia una valenza peculiare nel luogo che più di altri dovrebbe contribuire a coltivare le capacità intellettive. Ma anche qui le “evidenze” non sembrano affatto tali. Quelle raccolte da Henry Jenkins, per esempio, indicherebbero come molti di noi stiano utilizzando la tecnologia in modi che ci rendono più intelligenti. E Derrick de Kerckhove, uno degli allievi di Marshall McLuhan, parla di “mente accresciuta” per indicare l’ambiente cognitivo, attivo a livello sia personale sia collettivo, che le tecnologie intessono attorno a noi e dentro di noi, in particolare attraverso Internet. Ma la mente di chi? David Weinberger, altro autorevole esponente della scuola web-entusiasta, osserva che “quando la conoscenza entra a far parte di una rete, la persona più intelligente della stanza è la stanza stessa . Il nostro compito è imparare a costruire stanze intelligenti, cioè imparare a costruire reti che rendano noi più intelligenti; soprattutto perché, se fatte male, le reti possono renderci penosamente più stupidi”.

Ma chi è che costruisce le reti? Come facciamo a essere sicuri che non siano “fatte male”?

L’apologia del digitale si nutre di un vago determinismo. Si trascura poi il fatto che le forme di pensiero tecno-indotte nascono spesso da banali criteri di efficienza ed economicità, se non da casualità, adottati via via in qualche asettica stanza delle Silicon Valley ormai sparse nel mondo, come spiega un tecnologo, Lanier, che deplora la quasi irrilevanza o il ritardo di una filosofia del web: «Possiamo paragonare il lock-in al metodo scientifico. - spiega Lanier - Karl Popper aveva ragione quando dichiarò che la scienza è un processo che falsifica le idee man mano che progredisce: per esempio, non si può più ragionevolmente credere a una terra piatta, sbucata dal nulla qualche migliaio di anni fa. La scienza scarta le idee empiricamente, per buone ragioni. Il lock-in, invece, rimuove opzioni alternative di design con il solo criterio della facilità di programmazione, di quanto è politicamente fattibile, di quello che è di moda o di quello che si è creato per caso».

È interessante notare che, dove si apre una falla nelle certezze dei profeti del digitale, si chiamano in causa «le difficoltà degli insegnanti immigranti a maneggiare le tecnologie in modo significativo».

L’agenda prescrive allora di formarli per farli diventare “direttori di ricerca”. Ma che cosa significa maneggiare le tecnologie in modo significativo? Cosa vuol dire conferire significato in un contesto digitale in cui, per esempio, il rapporto con la testualità subisce una mutazione radicale? E come cambia il ruolo di mediazione del docente? Allontanarsi dal testo “chiuso” per fare da mediatore con un tablet significa accompagnare lo studente sull’orlo di una buca di Alice. Appena si esce dal sentiero sequenziale, si entra in un paese delle meraviglie pieno di quei link che «stanno sovvertendo non solo la conoscenza come sistema di punti fermi, ma anche il meccanismo di accreditamento che sosteneva quel sistema», come spiega Weinberger.

Si può sottrarre la scuola al “sistema nervoso globale”? L’ipotesi di renderla un luogo in cui gli insegnanti, immigranti digitali, conservino e trasmettano ai nativi forme di sapere analogico-sequenziali in un futuro prossimo non sarà (più) una strada percorribile.

La scuola sarà digitale per automatismo. Fuori dall’agenda resistono solo piccole isole elitarie, un po’ naïf. Una di queste, curiosamente, è la Waldorf School di Los Altos, nel cuore della Silicon Valley. Gli studenti non toccano un computer, un iPad né uno smartphone fino alla fine delle medie. E sono in gran parte figli di ingegneri o manager impiegati nelle più famose aziende tecnologiche del mondo, da Apple a Google. Tante piccole Los Altos non modificheranno l’agenda. Ma forse la scuola potrebbe esitare un po’ sulla soglia della “stanza intelligente”. O almeno entrarci con uno sguardo alle teorie critiche del web 2.0, anziché “di default”.

Marco Pacini