scuola

Il nozionismo buono, quello cattivo e i suoi "complici"

Sergio Bianchini il Sussidiario 17.5.2013

Il nozionismo è attaccato da tutti ma in realtà  si espande di nascosto perché non può morire e non ha, per ora, alternative. Può essere normato, precisato, integrato, ma deve essere legittimato culturalmente e solo così ridefinito assieme alle altre necessità  del lavoro scolastico.

Sono decenni che assistiamo a tentativi (verbali) di riorganizzare tutta la scuola secondo un nuovo e salvifico concetto. Negli anni 60 iniziò la lotta al bieco nozionismo, con la prospettiva salvifica della formazione dell'uomo critico e socialmente sensibile. Si creò una contrapposizione tra sapere disciplinare e comprensione della realtà . Così uscirono dalle scuole legioni di "spaccapelisti" (quelli che su ogni questione sollevavano dibattiti) sempre più ignoranti e magari saccenti. Intendiamoci, il grosso degli alunni, dei genitori e degli insegnanti ha sempre pensato che essere ben preparato nelle varie discipline fosse un buon segno ed una buona meta, ma stavano bene attenti a non assumere lo spaventoso titolo di "secchione", o di "insegnante tradizionale".

Negli anni 70 ci fu un parziale arretramento e la vulgata si attestò nuovamente contro il bieco sapere nozionistico, ma con l'obiettivo del saper fare, e sulla personalizzazione dell'apprendimento.

All'inizio degli anni 90 per un attimo sembrò profilarsi la formazione dell'identità  di genere come fondamento del lavoro scolastico a cui, da noi, la valenza educativa e formativa viene da tutti assegnata come prioritaria, assolutamente prioritaria, a volte esclusiva. Oggi va di moda (ma non può essere di massa) lo studente giramondo che è in linea con l'identità  mondialista, gradita sia al nostro mondialismo cattolico sia a quello liberale, sia soprattutto alla voglia degli alunni e dei docenti di vincere la noia mortale della routine scolastica nostrana.

"Purtroppo", nel mondo, tutti gli analisti controllano e confrontano dati sull'apprendimento e sullo sbocco professionale dei percorsi scolastici. E così siamo sotto la media Ocse in quasi tutto. Certo se il clima delle nostre scuole fosse sereno, luminoso, partecipato, sano, attivo, serio ed anche allegro potremmo ignorare i confronti internazionali. Invece nelle nostre scuole, fin dalla prima elementare, sono in continuo aumento i problemi di governo delle classi, di gestione degli alunni problematici, i crescenti conflitti orizzontali e verticali, l'ansia da prestazione, gli stati ansioso-depressivi sia negli alunni che nei docenti. E su tutti pesa il giogo del curricolo gigantesco di 1000 ore annue unico in Europa. Ma permane la mancanza di idee riorganizzatrici vere e realistiche e rispunta sempre la tentazione di far uscire dal cappello il nuovo concetto salvifico, il nuovo obiettivo generale.

La demonizzazione fatta per ragioni politiche dell’apprendimento tradizionale, basato sulla classica lezione a classe intera seguita dalle interrogazioni e dal compito in classe, è stata tale da oscurare una verità elementare: nella scuola di oggi non possiamo eliminare il lavoro d’aula a classe intera.  Il lavoro tradizionale per mille motivi resta ancora necessario ed utile seppure con i suoi limiti, il maggiore dei quali è la rigidità e la scarsa personalizzazione dell’apprendimento a fronte di alunni molto diversi nella classe. Ma Il lavoro didattico su piccoli gruppi, quello mirato anche su singoli e tutte le altre forme di didattica innovativa ormai consolidate ed esaltate (a parole), relative alla personalizzazione dell’apprendimento, in realtà ristagnano come tutto il resto. 

L’antinozionismo inoltre ha imposto un’enfasi eccessiva e collegamenti meccanici, a volte astrusi, sulla relazione tra sapere e saper fare, tra conoscenze e competenze, tra bagaglio culturale necessario per il futuro ed attualizzazione dell’apprendimento.

Ancora una volta l’estremizzazione, in presenza dell’inettitudine organizzativa dei vertici della scuola e del crollo della qualità dei docenti, ha prodotto in basso, negli istituti scolastici, antitesi paralizzanti e fatto sì che si sviluppi − ma nell’ombra, e con un senso vago di inquietudine e in certi casi di vergogna dei docenti − ciò che sembrerebbe fuori moda, il “nozionismo più bieco”, magari mascherato dal… computer.

La destinazione di una quota consistente del curricolo a stages diluiti in tutto il corso dell’anno, ad esempio, non decolla. E nemmeno un contrasto vero e forte, con metodologie ben note in tutta Europa, alla progressiva e da noi disperata licealizzazione. 

Certo, questo ritorno al nozionismo nella scuola avviene oggi (ma fino a quando?) nascostamente, ma quasi a furor (furorino, silenzio assenso) di popolo, dopo l’ubriacatura pluridecennale di ricerche infinite e di viaggi cosmici senza ritorno. Come al solito tutto avviene fuori da una reale capacità di governo della scuola,  come moda, o come alternativa allo sfinimento, come tendenza dal basso o suggestione gratuita dall’alto o entrambe le cose insieme. 

Non esiste ancora  una definizione, se non del tutto generica, delle conoscenze e competenze minime da acquisire da parte degli alunni (e da erogare, accertare e quindi certificare da parte dei docenti) a livello nazionale per le varie annualità scolastiche e per i vari ordini di scuola. Da qualche anno con Invalsi e continue precisazioni e variazioni dei programmi il ministero cerca di farlo, ma si avanza poco e le polemiche sono infinite. 

Le materie su cui si tenta di aprire una precisazione ed un accertamento più stringenti, con risultati ancora nulli, sono italiano, matematica ed inglese. La mia tesi è che il curricolo nazionale obbligatorio dovrebbe concentrarsi su queste materie lasciando alle aree territoriali ed alle singole scuole l’offerta formativa aggiuntiva che per alunni e famiglie dovrebbe essere opzionale.

Quantificando su base settimanale: 15 ore riservate al curricolo nazionale minimo obbligatorio con annessa certificazione dovrebbero bastare. Vuol dire 3 ore al giorno per 5 giorni. La sostenibilità da parte degli alunni può arrivare massimo a 4 ore al giorno obbligatorie ma non di più.

Nelle secondarie superiori la relazione tra tempo totale obbligatorio, minimi nazionali, le tre competenze base e l’indirizzo andrebbe definita caso per caso. Nei primo otto anni di scuola le 20 ore settimanali obbligatorie potrebbero articolarsi opportunamente con grande flessibilità, regione per regione e scuola per scuola intorno al curricolo minimo nazionale di 15 ore settimanali.

A questo punto alcuni tra gli ansiosi ed i faziosi potrebbero dare in escandescenze. Infatti 700 ore annue di curricolo sembrerebbero loro mostruose, invece sono mostruose le mattine di 6 ore consecutive in vigore da noi di puro tempo aula. Da noi si viaggia quasi al doppio della mia proposta.

Per fortuna esistono in Europa sistemi scolastici con i volumi che piacciono a me. E funzionano molto bene, sia per la qualità dell’apprendimento che per il clima generale di scuola, dove l’ansia da prestazione ormai endemica che c’è da noi è inimmaginabile. Ad esempio, nel sistema danese il monte ore annuo obbligatorio per i curricoli degli alunni, nei 12 anni di scuola che precedono l’università, varia dalle 600 alle 660 ore, che significa dalle 18 alle 20 ore settimanali. Inoltre ogni ora di scuola è formata da 45 minuti di lavoro didattico e da 15 minuti di intervallo ritualizzato con campanella che suona.

Ebbene, nonostante lo sdegno, sempre più flebile avendo ceduto da anni a tutte le mostruosità sindacali, dei “difensori del sapere”, vista la condizione giovanile attuale, viste le specificità del lavoro scolastico che prevede la rielaborazione personale ed i compiti a casa, visto l’affollarsi nella mente dei nostri bambini e ragazzi di miliardi di stimoli provenienti da mille fonti, viene spontaneo alla mente un canto: ”se 4 ore vi sembran poche provate voi ad imparar…”. Lo dico anche alla luce dei centinaia di convegni degli adulti a cui ho partecipato e della mia attenzione alla tempistica reale degli stessi.

 

 

Metti a confronto una sera, davanti ad una pizza, giovani docenti del TFA e insegnanti over 60, che succede?

In redazione giaceva da tempo un appunto sulla SILSIS (Scuola interuniversitaria lombarda di specializzazione per l'insegnamento secondario).

«Ultimamente - ci aveva scritto Nicola Marai, docente di lettere di scuola superiore - mi è capitato di ascoltare il racconto di come si stanno svolgendo (dove sono riusciti ad organizzarne l'inizio) i corsi TFA. La mente, pur trovando aggravata la situazione, è immediatamente corsa alle situazioni paradossali della SILSIS e mi è stato chiaro che il disastro inequivocabile di adesso è anche conseguenza di un mancato giudizio di allora.

Io per primo, dopo qualche riottosità, mi sono sottomesso ad un sistema di formazione del docente nella speranza che finisse il più presto possibile, pensando unicamente alla mia situazione e a "far bene" (cioè simulare con successo le competenze che richiedevano) ..., vista la manifesta vacuità  di molti corsi [...].

 

Stato formatore?

Accettando la forma si è così accettato anche il merito della vicenda; si è saliti sul piano inclinato dello statalismo per cui alla fin fine si è iniziato a pensare come ovvio un concetto a ben vedere assurdo ovvero che solo lo stato possa formare i docenti.

In effetti (prendiamoci un attimo per ragionare!) un conto è partecipare ad un concorso per cui ciascuno si prepara secondo i criteri che reputa, trovandosi i maestri che crede, un altro conto è che si debba sottostare alla formazione statale per poi passare un esame di abilitazione: questo è un campo di concentramento!

Ora tanti elementi concorrono a dimostrare che tra i fallimenti evidenti dello stato italiano il più imbarazzante, più imbarazzante del debito pubblico, più imbarazzante dello stato in cui vessa il regime penitenziario, è che lo stato non sappia nemmeno organizzare la formazione dei docenti, nemmeno secondo i suoi asfittici criteri pseudo-nozionistici: ciò, si badi bene, accade non solo per le lentezze burocratiche di un ministero o per l'ingovernabilità , ciò accade perché in ultimo è un progetto totalitario teso a negare una libertà  fondamentale: quella di educare.

E' solo l'ideale della libertà  di educazione che può dar forza reale a qualsiasi tentativo di migliorare il sistema scolastico, a qualsiasi iniziativa didattica: chi, magari per saggezza e opportunità, parta da altro è già  bello che spacciato ...».

Sta succedendo questo anche nei corsi del TFA? Che ne è della libertà , dell'educazione, del senso ..., della formazione?

 

TFA: cosa vorrebbe essere e com'è  

Tra un boccone e l'altro, ma con lealtà  e sincera tensione a misurarsi con una proposta di formazione, che i governanti hanno imbastito alla bell'e meglio, "in piedi, in fretta e furia", osserva subito Francesca, la conversazione tocca le fattezze del Tfa, i suoi approcci, i suoi nei, i punti di forza e di debolezza, le prospettive della formazione e la rifondazione della scuola.

Il tirocinio formativo attivo (TFA), regolamentato dal DM n.249 10/09/2010, ha sostituito le SISS per la formazione iniziale degli insegnanti. Esso ha come finalità  l'acquisizione di competenze disciplinari, psico-pedagogiche, metodologico - didattiche, organizzative e relazionali necessarie a far raggiungere agli allievi i risultati di apprendimento previsti dall'ordinamento vigente e di quelle competenze necessarie allo sviluppo e al sostegno dell'autonomia delle istituzioni scolastiche i cui principi sono fissati dal DPR n.275/1999.

« Purtroppo l'approccio - osserva Viola - raccontando la sua esperienza in uno dei TFA di Milano - è debole, esclusivamente teorico, pedagogistico e teorizzante su tutto. E' lontano dalla realtà  della classe, costruisce castelli in aria».

«Si ha l'impressione generale di lontananza dalla realtà», conferma Maria, corsista in un altro TFA.

«I nostri docenti di didattica - riprende Francesca - sono ricercatori universitari che non hanno mai messo piede in una classe, hanno letto dei libri su che cos'è una classe. Di didattica ci possono dire ben poco. Il TFA è spesso teorico, libresco. Poi certo ce la mettono tutta, alcune cose sono anche interessanti. Però quello che mi interessa non me lo possono dare».

 

Insegnamento ed unità  della conoscenza

Mariella, docente di storia e filosofia, in pensione, spiega che non è l'università  che dovrebbe fare questo lavoro; non è l'accademia che dovrebbe insegnare a insegnare. «Per imparare a insegnare bisogna andare nell'acqua alta, bisogna che un maestro ti accompagni laddove l'acqua c'è, ossia bisogna andare a scuola e non stare in università. Può formare un'insegnante solo uno che sta insegnando, non un accademico».

«Se per imparare una cosa bisogna buttarsi nell'acqua alta - si chiede Tommaso, organizzatore della pizzata e compagno di studi di Francesca - perché io sono qua al TFA e la scuola è a quaranta chilometri da qui? Non è l'università  che deve formare gli insegnanti: sto imparando molto di più sul posto di lavoro che a lezione del TFA».

«Il problema n.1 è la mancanza di unità tra i docenti del TFA. L’uno, per esempio, spiega i punti di forza degli studenti dislessici mentre l’altro afferma che non ha senso cercare di insegnare loro le lingue straniere» riprende Viola.

La questione è più profonda – noto - quello che manca è che l’università non è uni-versità, cioè non offre un’ipotesi unitaria del sapere e dell’insegnamento, un’ipotesi tale da permettere di inoltrarsi nel mare senza le bende sulla ragione, senza inchini ai signori del pensiero dominante, quello del relativismo, senza finire come il Costa Concordia in frantumi. La scuola è offerta e verifica di ipotesi che la tradizione culturale consegna alle nuove generazioni. Non è mai neutra, neppure quando le si fa indossare le maschere “oggettive” della scienza e le armature della tecnologia. Per questo, se non si vuole finire in un assurdo naufragio, occorre smettere di zigzagare tra opposti profili ideali di docenti: custode del sapere antico o animatore di un villaggio turistico protettivo, tecnocrate burocratizzato o sprovveduto cultore dei valori di cittadinanza, specialista onnisciente o assistente baby sitter … È necessario scegliere non tanto tra teoria e prassi, tra pensiero e tecnica. Occorre andare oltre il paradigma del pensiero analitico, razionalista, oggettivante, incapace di fare sintesi, incatenato all’aut aut.

Il problema allora, per esempio, non è “tecnica sì o tecnica no”. Il problema è che ci sia un soggetto che si applichi mente e cuore, anima e corpo, pensiero ed azione, in unità con altri soggetti, a cercare il vero, il bello, il buono che nutra l’essere umano. La tecnologia è uno strumento, non è il fine. Senza una consapevole soggettività, fatta di unità in sé e con gli altri, imbottito di teorie o di tecniche, inchiodato nell’individualismo nichilista e impagliato dal corporativismo omologante, l’insegnante si autodistrugge lasciandosi diventare “bomba″ per chi gli sta vicino.

«Ogni docente del tfa – racconta Tommaso - dà la sua prospettiva parziale, senza alcuna ipotesi o accenno di sintesi unitaria (il pedagogista e il costruttivista ti dicono che la didattica è tutto, il docente di didattica della storia ti dice che la didattica non esiste, se la sono inventata i pedagogisti perché altrimenti non arrivano alla fine del mese…). Senti dire tutto e il contrario di tutto. Il problema non è che i diversi docenti abbiano idee diverse, è normale che sia così. Il problema è che chi ha pensato il TFA non ha pensato alcuna impronta unitaria e l’esito è la confusione o, nella migliore delle ipotesi, il metodo della scelta arbitraria: ascolto tutti e poi vedo un po’ che cosa mi sembra più simpatico».

«L’unità del reale - precisa Mariella - si svela nell’esperienza. Davanti alla provocazione, in classe, qualunque sia la tua posizione parziale di particolare assolutizzato (l’insegnante tecnologico, il pedagogista…), non reggi il confronto con gli alunni. Ti uccidono, sei costretto a cercare l’ubi consistam nella situazione, che è ondivaga. Se resti nell’accademia disfi e rifai la realtà a tuo piacimento e non hai alcuna pietra di paragone per giudicare la questione. Solo l’esperienza in classe può scoprire una pietra di paragone. Se resti sempre in università non hai, per esempio, il punto di vista (la classe vera) da cui giudicare se ciò che viene proposto è utile o non utile al lavoro da svolgere con gli alunni».

 

Frammenti e mare di sigle

È proprio così. Il vero docente è un adulto in ricerca, è chi è disposto ad imparare sempre, proteso a cogliere il significato e il senso. L’insegnante è infatti ricercatore compartecipe della grande ricerca degli uomini di oggi e di ieri, di chi ti accompagna, di chi si aspetta qualcosa da te. Non è chi studia i libri, ma chi verifica un’ipotesi dentro la realtà giorno per giorno sempre più convinto della necessità di imparare a nuotare dove c’è l’acqua e non dove ti descrivono come sarebbe entrare in acqua, che effetto farebbe, come si dovrebbe nuotare…

«Gentilissimo professore, – mi scrive un corsista TFA in una città del sud Italia – ho il cervello come un atomo in cui alla nuvola elettronica (probabilità di trovare l'elettrone) si è sostituita una nebulosa (probabilità di trovare un significato) di sigle (LEP, PECUP, OSA, PEI, DSA, PDP, DF, PDF, POF, CTS, INVALSI, ANSAS, INDIRE etc), termini (valutazione, programmazione, progettazione, indicazioni, autonomia, responsabilizzazione, curricolo, individualismo, personalismo, comportamentismo, costruttivismo, cognitivismo, imparare ad imparare, elaborazione didattica, rapporto pedagogico, operazioni di studio, condivisione, collaborazione, comorbilità, discalculia, disortografia, disgrafia, dislessia, competenze, handicap, disabilità, integrazione, sussidiarietà etc.), leggi, decreti leggi, decreti presidenziali, decreti ministeriali, circolari ministeriali con relativi numeri e date (che non cito perché non le ricordo, tranne la n. 53/2003). E' faticoso imparare i termini di questo microcosmo senza comprenderne il significato all'interno di una dinamica evolutiva». 

Chi mi scrive è Michele, un giovane insegnante precario, il quale, vedendoci «una possibilità di realizzazione umana, professionale e sociale», insieme a molti dei colleghi che posseggono «come me dottorato, specializzazione e quant'altro l'Università possa offrire», ha tentato il concorso della A059 e dell’A033.

«Il desiderio di tentare la strada dell’insegnamento mi ha spinto a iscrivermi agli esami di accesso. La preparazione per il concorso del TFA mi ha richiesto un lavoro molto complesso - innanzi tutto su me stesso - che mi ha portato a rimettere in discussione competenze particolari acquisite in anni di lavoro nell’ambito della ricerca scientifica e rivelatesi inutili per la tipologia di prove di accesso. Queste sono state articolate in una prova preselettiva consistente in un questionario a scelta multipla di 60 domande – superato con un punteggio minimo di 21 punti (0,5 per ogni domanda corretta; meno 0,5 per ogni risposta errata) – seguita dalla prova scritta e, ove superata, quella orale. Purtroppo in molti casi la prova preselettiva si è rivelata inadeguata, come hanno attestato le numerose correzioni a posteriori che hanno “abbuonato” molte risposte errate, consentendo a chi era escluso di essere riammesso alle prove scritte. Questa scarsa chiarezza, questo stile ‘ondivago’ ha reso tutto molto più faticoso. Ri-affrontare un percorso di selezione che è soggetto alla variabilità della commissione che ti deve giudicare implica la recondita consapevolezza del valore della mia persona.

L’altro aspetto di questa ‘vaghezza’ ha riguardato cosa studiare, ovvero gli argomenti su cui prepararsi per superare il percorso selettivo di acceso al TFA. Dopo aver scelto uno dei tanti testi sulla preparazione al test di ingresso ho incominciato ad esercitarmi tentando di ‘entrare’ nella logica delle domande formulate in modo non sempre chiaro. Questo ha richiesto uno studio quotidiano che nulla ha potuto dare per scontato».

Tutto da rifare? Un TFA da buttare nei rifiuti come una pizza bruciata, immangiabile?

«Dopo tanto studio – continua la lettera di Michele – ho superato le prove preselettive ed ho sostenuto 4 scritti, sperando di riuscire ad accedere al percorso abilitante per una classe di concorso. Niente. Certo, non un disastro, ma non abbastanza per accedere all’orale. Lo scritto verteva sulla totalità della disciplina o delle discipline incluse nella singola classe di concorso. Forse ho preteso troppo nel tentare 4 classi di concorso diverse, se pur correlate con la mia laurea… In conclusione posso dire che ne è valsa la pena perché è stata un’occasione per potermi misurare con le discipline; occasione in parte mancata per la vaghezza delle prove e dei criteri di valutazione sottostanti il percorso selettivo».

 

La rift valley della modernità

Nettamente positivo il giudizio di Giovanni, presente alla pizzata: «A Bergamo l’esperienza è positiva perché c’è un gruppo di insegnanti di matematica che stanno sperimentando in situazioni concrete. È affascinante, c’è in giro della gente interessante. S’impara qualcosa, sto imparando, perché si fanno casi concreti».

Dello stesso parere sono Viola e Tommaso: «Il TFA funziona se e quando si passa dalla teoria alla pratica, cioè se e quando si comincia a entrare in acqua anziché parlare dell’acqua». Un TFA dunque che ha rischiato e rischia di diventare per i più, se non proprio una pietanza indigesta, un’occasione sciupata. Che fare? Occorre recuperare quanto diceva Nicola parlando della SILSIS. Occorre puntare all’unità dentro e tra i soggetti del sapere, della formazione, della scuola combattendo ogni dualismo, nella consapevolezza che la separazione non è solo tra teoria e prassi, ma è molto più profonda e più ampia.

C’è una rift valley culturale enorme a livello epistemologico, metodologico e contenutistico che attraversa la cultura, l’educazione e quindi la formazione di chiunque, che ostacola la conoscenza e fa traballare la scuola ed ogni altra realtà educativa.

«La scuola moderna, come noto, si è costituita e giustificata, negli ultimi secoli, sull'idea stessa della separazione. Separazione dalla famiglia, dalla società, dall'ambiente, dall'impresa. […] Separazione, inoltre, dentro e fuori la scuola , tra mano e mente, tra cuore e logica, tra tutte le diverse componenti di ogni persona (psichica, espressiva, comunicativa, sociale, cognitiva, manuale, etica, religiosa, il cui trattamento è affidato a tempi, luoghi, contesti, istituzioni programmaticamente differenti.[…] Paradigma che corrisponde a quello anche epocale, del resto, visto che la modernità è il periodo durante il quale si è assistito alla prolificazione di parecchie altre teorizzazioni divisorie, tutte ritenute opportunità invece che avversità culturali. Separazioni rivendicate, per esempio, tra filosofia e vita, tra umanesimo e scienza, tra scienza e tecnica, tra arti e tecnica, tra metafisica e diritto, tra diritto ed etica, tra morale e religione, tra economia e morale, tra economia e finanza. Separazioni al cubo, insomma. Una netta vittoria del dia-bolico rispetto al sim-bolico» ( G. Bertagna, Fare Laboratorio, La scuola, 2012, pag. 62 ss).

 

Tensione all’autentica “forma” dell’io e del noi

Metti dunque a confronto una sera, davanti ad una pizza, giovani docenti del TFA e insegnanti di lungo corso, che succede?

Succede che si prende atto magari di un sconfitta, ma nello stesso tempo si riscopre che è possibile ricominciare la partita e puntare alla vittoria. Come? Mettendosi in gioco, insieme, come si diceva nell’editoriale di questo numero della rivista, accettando consapevolmente e liberamente di prendere, ricevere e dare “forma” di uomo nel rapporto con la totalità del reale che si pone, giorno dopo giorno, nella sua pregnanza, complessità e storicità.

La scuola, in quanto comunità di apprendimento a livello sincronico e diacronico, poggia sulla consapevolezza che siamo nani sulle spalle di giganti con i quali è più agevole e certa l’avventura della conoscenza. La formazione dei docenti sia iniziale sia in itinere è vivificata e dinamicizzata da questa consapevolezza e tensione all’autentica “forma” dell’io e del noi. Parliamo non di una comunità virtuale (ammucchio di cervelli senza volto sul web), ma di una comunità in carne e ossa, che si forma e ri-riforma, mettendo al centro la persona nella sua concreta fisicità, nel suo evidente mistero, nell’essere in relazione con l’Infinito, “senza mai lasciarsi rubare la speranza”.