Festa dei lavoratori. Intervista al sociologo Luciano Gallino Italia disoccupata, ha ancora senso il Primo maggio? «Sui precari i sindacati poco efficaci. Ma il capitalismo si fa autogol con la riduzione dei salari» Mauro Ravarino, Linkiesta 1.5.2013
Adriano Olivetti pensava che la fabbrica dovesse diffondere intorno a
sé bellezza. Luciano Gallino, classe 1927, uno dei più autorevoli
sociologi italiani, ha iniziato la sua formazione proprio nella
storica azienda di Ivrea, studiando i processi economici, l’impresa,
il lavoro e gli operai. Condivideva l’utopia di Olivetti e quel modo
di pensare che ora sembra così lontano. In seguito, Gallino ha
continuato ad analizzare – all’Università (è professore emerito a
Torino), su giornali e riviste, attraverso convegni e saggi –
l’evoluzione del mercato del lavoro, sottolineandone le distorsioni,
le disuguaglianze nella globalizzazione, la crisi, e proponendo
soluzioni. Il suo ultimo libro, La lotta di classe dopo la lotta di
classe (Laterza, 2012, 222 pp., 12 euro), indaga come questa, negli
ultimi decenni, venga esercitata – rispetto a quella classica –
dall’alto al basso; da parte dei vincitori a danno dei perdenti; a
scapito, quindi della classe operaia ma anche delle classi medie.
Oggi, il lavoro sembra svanire, tra cassa integrazione,
licenziamenti e imprese in difficoltà. E questo Primo maggio, non
appare una festa come le altre.
Nel 1998 avevo scritto per Einaudi un libro dal titolo Se tre milioni
vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione, in cui
prefiguravo un futuro drammatico se non si fosse invertita la rotta
sulle politiche occupazionali. Devo constatare che in Italia non
esiste più alcun partito del lavoro. Ci sono piccoli partiti di
sinistra, che hanno un peso elettorale insignificante; il Pd è
invece totalmente scomparso da questo dibattito. Ci sarebbe poco da
festeggiare, visto che le dottrine neoliberiste e l’attacco allo
stato sociale stanno svuotando il contenuto del Primo maggio. I
giovani che proprio in questo giorno dovrebbero fare festa sono
disoccupati o precari…
L’unica soluzione è un New Deal. Le altre alternative – l’abbassamento
dei salari, la corsa alla flessibilità, il contrasto ai sindacati –
mi sembra che abbiano solo aumentato il tasso di disoccupazione.
Dopo la crisi del 1929 furono riparati centomila chilometri di
strada, piantati un miliardo di alberi e migliaia di scuole vennero
ristrutturate. Al proposito, pochi giorni fa, ho apprezzato
l’intervento del neo-ministro dell’Istruzione, Maria Chiara
Carrozza, che ha detto di voler partire dall’edilizia scolastica. Si
dovrebbero, dunque, assumere persone, non per scavare fossi che
altri riempiono, ma per interventi utili, dalle scuole al dissesto
idrogeologico sul territorio. È necessario creare lavoro per creare
una domanda che generi la crescita. Ritenere che debba venire prima
la crescita e poi l’occupazione è come correre un gran premio in
retromarcia. In Italia, i salari sono stagnanti dal 1995, le
politiche d’austerità hanno compresso la domanda.
Per quanto riguarda i finanziamenti, un governo sensibile dovrebbe
subito cercarli per far fronte a questa catastrofe sociale. E farsi
sostenitore di un progetto, a livello di Unione europea, che chieda
alla Bce un prestito di centinaia di miliardi di euro per l’intera
Europa, partendo dai Paesi più in crisi. Difficile, o improbabile
che succeda, vista la guida iperliberista di Bruxelles e Berlino, ma
tentare non nuoce…
Lo sostiene la dottrina economica neoliberale. Come medicina
salvifica, pensa che se si abbassa il costo del lavoro, si arriva
alla piena occupazione e, se questa non c’è, significa che i
lavoratori non accettano i salari proposti. Si tratta di un
meccanismo strutturato al ribasso, ma è anche un circolo vizioso che
spinge le aziende a non investire.
Si tratta di una gravissima crisi di evoluzione del capitalismo
iniziata negli anni Settanta. Il capitalismo produttivista, che
aveva sfornato molte macchine ed elettrodomestici – migliorando,
certo, la vita delle persone – entrò in crisi perché la domanda dei
beni era saturata. Si ricorse al super indebitamento come motore
dell’economia, un sistema andato in aria, negli Usa, nel 2007.
Attualmente, non c’è un ripensamento del modello capitalistico, che
ritengo non sia alla fine. Storicamente è stato «domato» negli anni
Trenta, con il New Deal, e successivamente in diversi Paesi europei,
tra 1945 e gli anni Settanta, quando la disoccupazione era bassa, i
salari stabili e il welfare in sviluppo. Poi, è arrivata la
controffensiva, che si è protratta fino a oggi.
Per ora no, perché il problema non viene discusso. Si punta ancora a
un’industrializzazione di vecchio tipo, dove le tecnologie tolgono
posti ai lavoratori. Si dovrebbe invece puntare su quei settori ad
alta intensità di lavoro, dai beni culturali ai beni comuni (per
esempio, interventi sugli acquedotti, che perdono acqua dalla
sorgente al rubinetto). Scelte simili e specifiche creerebbero
migliaia di posti di lavoro, dove le braccia e le teste contano più
delle macchine.
Sui precari i sindacati non stati efficaci. Bisogna, però, tenere
conto che da quindici anni si accavallano decreti e norme per
ostacolare il loro ruolo, come la rimozione dei contratti nazionali
di lavoro a favore di quelli aziendali. Non si tratta di un
incidente, ma di una sconfitta per le organizzazioni dei lavoratori.
Viviamo una stagione in cui i diritti dei lavoratori vengono erosi con
leggi, licenziamenti, ipotesi e decisioni di delocalizzazione.
Storicamente il Primo maggio rivendicava un diritto fondamentale,
quello di un orario decente e umano. Questo è un richiamo attuale,
proprio in tempi in cui si va dal part-time imposto al raddoppio
delle otto ore. Il lavoro avrebbe bisogno di essere meglio
distribuito e questa festa deve sottolinearlo. Di solito, mi danno del massimalista, perché dico che Marx e Keynes sono stati importanti nell’analisi della società. Guardatevi attorno, dico io, e spiegatemi se non avevano qualche ragione. Se, poi, perché difendo lo Stato sociale, mi reputano un conservatore, la ritengo una lode… |