Geometrie della svalutazione. Antropologia e Invalsi
di Fabio Milazzo,
Psychiatry on line 20.5.2013
Nella settimana appena trascorsa, all’interno di centinaia di scuole
italiane, si sono tenute le famigerate prove Invalsi, lo strumento
attraverso il quale lo stato cerca di valutare le condizioni del
proprio sistema di istruzione. Cosa è l’ Invalsi è presto detto: è “
l’Ente di ricerca dotato di personalità giuridica di diritto
pubblico che ha raccolto, in un lungo e costante processo di
trasformazione, l’eredità del Centro Europeo dell’Educazione (CEDE)
istituito nei primi anni settanta del secolo scorso” (http://www.invalsi.it/invalsi/istituto.php?page=chisiamo)
. La scuola italiana ne fa esperienza attraverso una prova scritta
che ha lo scopo di valutare i livelli di apprendimento degli
studenti e di riflesso il livello e la produttività del corpo
docente nazionale.
Uno strumento pensato per razionalizzare la spesa pubblica e
“misurare” lo standard qualitativo delle prestazioni della scuola
italiana, questo dovrebbe essere l’Invalsi. Eppure, come ben
sappiamo dalla lettura di Foucault, ogni pratica di sapere è anche e
soprattutto una pratica di potere, frutto di geometrie ed equilibri
governamentali attraverso i quali si vuol assoggettare la
popolazione. Il “come si svolge il potere” è il baricentro analitico
degli studi di Foucault a partire dal 1970-71[1]
e questo perché ritiene che le logiche del potere, prima di poter
essere identificate in attori o ipostatizzazioni varie, debbano
essere ricercate nelle modalità di funzionamento, nel “come” più che
nel “che cosa”. La scuola, più delle caserme e delle prigioni, è la
fabbrica disciplinare per definizione, lo spazio entro cui si
plasmano le persone di domani; per tal motivo problematizzare le
logiche gestionali della scuola italiana vuol dire analizzare la
fisionomia delle relazioni di potere odierne. Ancora prima di
chiederci cosa sono gli “Invalsi” dovremmo porre in questione la
finalità governamentale che ne anima il senso, lo scopo
politico-giuridico che ne determina la ragion d’essere. E in
subordine, ma solo in apparenza, la visione antropologica che ne
anima la finalità politica: quale visione dell’uomo c’è dietro le
“condizioni di esistenza” dell’Invalsi?
Gli Invalsi sono test di abilità per misurare le capacità di lettura
e comprensione del testo e il livello di apprendimento in matematica
degli studenti italiani dalla seconda elementare fino alla maturità.
Gli scopi principali dei test sono due: quantificare un certo tipo
di competenze negli alunni, fondamentalmente saper rispondere a
degli stimoli strutturati in un certo tempo e, conseguentemente,
valutare la capacità delle scuole di educare i propri studenti ad
un determinato tipo di prestazioni misurabili in maniera oggettiva
(sic!). Il fine è quello di comparare gli alunni e gli istituti di
una città, di una regione, di una macro-regione, di una nazione, di
un continente. Il tutto secondo criteri intersoggettivamente
verificabili, cioè quantificabili numericamente.
I test Invalsi, che entro il 2015 si vorrebbero estendere a tutte le
scuole, sono a tutti gli effetti una procedura di soggettivazione
per un individuo ridotto alla funzione di contabile da ufficio di
ragioneria, un novello Fantozzi che nel futuro saprà soltanto
rendicontare le entrate e le uscite dell’azienda-mondo. Il
tono lirico di queste ultime righe non devono farci dimenticare che
la scuola, secondo i programmi sbandierati a Lisbona nel 2000, è
prima di tutto un’agenzia per lo sviluppo della persona, delle
intelligenze, della cittadinanza attiva alla luce delle competenze.
L’ Invalsi quali competenze vuole evidenziare? Quale tipo di
intelligenza hanno in mente quando disciplinano l’alunno rendendolo
nulla di più che un esecutore di funzioni in tempi sempre più
ridotti?
Riducendo la valutazione a semplice processo di riscontro delle
velocità di reazione dell’alunno davanti a problemi strutturati, con
riposta oggettiva, si plasma un’antropologia che esalta il soggetto-
strumento, l’esecutore di certe risposte alla luce di determinati
stimoli. Eppure che la valutazione all’interno della scuola debba
ridursi a questa compilazione del registro dei consuntivi sulla base
della differenza matematica tra le entrate e le uscite è
quantomeno discutibile. Di fatto, nella scuola, si dovrebbe valutare
il percorso di crescita della persona alla luce della triade
“conoscenze-abilità-competenze” dove, soprattutto quest’ultimo
parametro, dovrebbe delineare un sotto-insieme di criteri
includenti: le capacità di problematizzazione, di autovalutazione,
di collaborazione nella risoluzione di problemi, di analisi,
sintesi, critica, argomentazione, organizzazione del pensiero
secondo concatenamenti logici; insomma, una serie di elementi che
dovrebbero fotografare lo sviluppo cognitivo e affettivo
dell’alunno, non soltanto la capacità di produrre certe, limitate,
prestazioni in termini rapidi. Il solito problema di preferire il
regime di “complessità” a quello del “riduzionismo”.
Misurare non è valutare, anche se spesso i due termini vengono
utilizzati come sinonimi, obliando la differenza costitutiva che li
ricolloca in due ambiti distinti e separati; da una parte quello
proprio della “razionalità economica”, dall’altro la multiforme
costellazione socio-affettiva della “soggettività”. La questione in
ballo è biopolitica e riguarda il tipo di “persona” che si vuol
produrre per l’immediato futuro. Le “parole” fanno le “cose” e
questo credo sia riconosciuto, almeno per l’ambito sociale, anche da
chi non si identifica come propriamente costruttivista.[2]
Si devono preferire, a procedure di misurazione a tutti gli effetti
biometriche, quali gli Invalsi, una valutazione analitica,
complessa, della persona fatta di considerazioni sul percorso svolto
in relazione al contesto di riferimento, alle potenzialità e alle
inclinazioni sintomali che rendono unico il soggetto,
all’impegno profuso in ordine al processo di apprendimento. Solo
così la scuola può eludere il fantasma sadico che si cela dietro la
valutazione.
Quanto detto, beninteso, non si inserisce nella retorica di cui si
nutre la logica “buonista”, riflesso radical chic dell’antropologia
permissiva sviluppatasi nelle scuole italiane dopo il 1968[3],
tutt’altro. Infatti, riteniamo che il buonismo imperante nelle
scuole italiane, al di là di certe affermazioni di principio sulla
necessità della “meritocrazia”, sia da iscrivere a pieno diritto
nello stesso ambito in cui si è sviluppato il “sistema Invalsi”. Se
quest’ultimo decostruisce la soggettività riducendola a semplice
dispositivo calcolatore, la “logica permissiva”, sottraendo al
giovane la fase conflittuale data dal confronto con la “legge”, ne
svuota l’aspetto desiderante, quindi il nucleo di
costituzione della soggettività. Come sappiamo bene, il giovane che
non desidera è preda delle passioni mortifere che tanto comuni sono
oggi in età scolare[4].
Il disegno dell’ Invalsi si situa in dinamiche di ampio respiro che
includono anche il recente concorsone per gli insegnanti, con la
farsa delle prove “oggettive” e, per tornare agli alunni, le
certificazioni creditizie utili per il sospirato “punto
incrementale” in vista degli esami, i quiz per l’ammissione alle
facoltà universitarie, le scuole di preparazione per i suddetti
quiz, vere agenzie disciplinari che in un’ottica di
addestramento al mondo del lavoro, plasmano gli studenti al
dogma dell’oggettività. Solo evitando di scorporare le logiche
degli Invalsi da quelle che orientano le attuali pratiche di governo
biopolitico è possibile situare la problematica per provare a
comprendere quali sono le trasformazioni dell’immaginario che si
stanno delineando e che riguarderanno l’immediato futuro.
[1]
Cfr.
M.Foucault,
Bisogna
difendere
la
società,
Feltrinelli,
Milano
1998,
p.28.
[2]
Cfr.
M.Ferraris,
Documentalità.
Perché
è
necessario
lasciare
tracce,
Laterza,
Roma-Bari
2009.
[3]
Cfr.
E.Fachinelli,
L’Erba
voglio.
Pratica
non
autoritaria
nella
scuola,
Einaudi,
Torino
1971.
[4]
Cfr.
M.
Benasayag
G.
Schmit,
L'epoca
delle
passioni
tristi,
Feltrinelli,
Milano
2004.