Concorrere al futuro,
bellezza e produttività del pensare

di Gabriele Boselli, da ScuolaOggi  21.7.2013

Quella che attraversiamo appare una contingenza della storia in cui credere in un felice futuro a molti può sembrare difficile: il futuro appare arduo per gli anziani, rischioso e talora disperato per i troppi giovani che una lunga, lunghissima crisi economica di iperciclo e immensa portata costringe al precariato economico, a una forte difficoltà di auto-progettazione esistenziale e in troppi casi alla non-fiducia nella possibilità personale di con-correre (procedere velocemente ma non individualisticamente) alla costruzione della città futura.

Tale la sensazione diffusa, ma non è vero che solo ciò che appare sull’orizzonte della cronaca sia reale nella storia: oltre l’immediato il futuro (etico-politico, scientifico, economico) continua a levitare, il non-sùbito a offrirsi positivamente anche a coloro che ritengono di avere più motivi di timore che di speranza nel domani. Ma chi ha idee e un cuore ha in dono immediato la bellezza del pensare e un domani probabilmente felice. L’attesa operosa costruisce comunque. Dopo ogni crisi il mondo riprende quota, tanto più alta quanto più forte e lunga è stata la crisi.

Dobbiamo essere convinti che siano principalmente le idee a fare la storia, anche quella materiale, economica o militare, per non dire di quella politica, civile o religiosa. La storia è essenzialmente (generativamente) una realizzazione dell’Idea che muove le idee, sintesi e frutto dei miliardi di atti di pensiero che l’uomo ha concepito nei millenni.

Confidare che siano il pensiero e il cuore a dirigere gli eventi, non il solo caso e la forza.

Urgenze e contingenze, necessità ineludibili e assurdità sistemiche, adempimenti burocratici e prove INVALSI ci coinvolgono spesso al punto di non lasciarci pensare alle cose che valgono davvero. Il sentire e il pensare sono schiacciati sul momento, lo sguardo è corto, il pensiero non va molto più lontano e scaviamo buche per riempirle. Non è questo il compito di chi, insegnanti, dirigenti o ispettori, ha per professione il pensare: le scuole, le università e i centri di ricerca dovrebbero essenzialmente insegnare a pensare e lasciar pensare nelle forme antiche come in quelle necessariamente nuove che il mondo dominante e quello emergente e insorgente richiedono. Insegnino la “fatica del concetto” come la gioia della pura attività del conoscere, a leggere del piacere e della sofferenza del costruire. Siano luoghi di formazione sul pensare ri-assuntivo, produttivo e auspicabilmente anche creativo, dunque “bello”.

Se molte istituzioni pubbliche e private e numerosi singoli intellettualmente autonomi lavorano per un pensiero libero, critico e creativo, d’altro lato il sistema informativo globale, nel baricentro assiologico di internet e dei media in genere, fa sì che grandi masse di umanità si smarriscano nella rumorosa ed escludente narrazione del tardo moderno. Troppi finiscono così per perdere coscienza di sé, non acquisendo autentica (scientificamente personale e fondata) conoscenza del mondo; si allontanano da ogni percezione pur indeterminata della sterminata estensione dell’ignoto e della gravità/levità del mistero.

Non riusciamo a educare nel senso di "trar via da…": dalle favole tardomoderne del profitto, dell'efficienza, dell'efficacia come valori assoluti, dal non-pensiero; mancano desiderio e coraggio per nuotare entro le correnti di senso del pensare occidentale nel loro incontrarsi con pensari di altra origine.

Pro-tensione

TV, internet e stampa di massa (quella che eccede le 500 copie) presentano agli spettatori-non-lettori un quadro di conoscenze epi-stemico, che “siede”, o pretende di farlo, sopra il fluire degli eventi e dell’attività rappresentatrice dei soggetti individuali e collettivi. Produce e stratifica conoscenze come sospese dal complesso e mutevole campo intenzionale delle soggettualità come dalla pluralità e dalla mutevolezza delle pro-tensioni verso l'alterità. Come dire, prosaicamente: il sapere è fatto e confezionato, prendi su com’è, ricorda e porta a casa.

Credo di poter rilevare come ogni atto di conoscenza -e ogni conoscenza intesa come stratificazione storica di conoscenze, ogni disciplina- derivi in ciascuno di noi da proprie radici e dal proprio ambiente; che sia partigiano, intenzionato e intenzionante. Soprattutto lo sia quando sussista l’ingenua convinzione di esser di fronte alla “cosa in sé” (per lo stato mentale che pone un fenomeno rappresentativo in rapporto a un contenuto, invero, a mio avviso, costituito essenzialmente da una direzione verso un oggetto e poco d’altro) l’atteggiamento epistemico ma non epistemologico fa smarrire coscienza e conoscenza. Negli atti di conoscenza “ingenui” tale oggetto potrà essere o no “reale”; esso è inizialmente percepito non come “la cosa così come rappresentata” ma “la cosa”, la verità incontrovertibile; poi –se andrà bene- verrà la consapevolezza del suo essere solo un epifenomeno variamente connesso al reale.

L’intenzionalità è tendersi verso l’oggetto su di una linea di trascendimento; nel trascendersi il soggetto non può lasciare indietro se stesso ma senza l’atto del trascendersi un se stesso autentico o l’autoconoscenza di una costellazione culturale non possono nemmeno avere autenticamente luogo.

Ma il problema è: quanto l’intenzionalità che crediamo di avere è propria del nostro io e del nostro variamente esteso noi? Quanto una cultura sa di sé e delle condizioni del suo pro-tendersi verso un proprio sapere del campo oggettuale? Ci tendiamo a qualcosa/qualcuno che in effetti ci attende o a un ectoplasma proiettato sulla parete, magari dalle macchine da proiezione dei signori del mondo?

Ad esempio la didattica tardomoderna di sistema (quella che prescinde dai Maestri e dalle Costellazioni culturali ) pretende di fatto che il soggetto dimentichi se stesso per apprendere senz’altro la verità senza soggetto di discipline senza Maestro e senza Discepolo e risponda intenzionalmente non con il prodotto del proprio pensare ma con la ripetizione di quanto pensato da coloro che compilano i non-testi dei test. Una risposta critica o creativa, per sistemi di valutazione come INVALSI od OCSE-PISA, è una risposta sbagliata: quella che vale è l’intenzionalità sistemica. I processi di valutazione sistemici rafforzano un certo tipo di pensiero, quello conformistico, ripetitivo, applicativo; forme di pensiero sempre utili, ma più al sistema committente che al soggetto.

Certo, in fenomenologia la soggettualità è resa altra da ogni oggetto e ogni oggetto è alterato da ogni soggetto; tutto è variamente in-teso da tutto. Non vi è nulla di immediato e ogni atto richiederà la fatica della liberazione dall’indichiarata intenzionalità ambientale, attraverserà pericolosamente e faticosamente un complesso e insidioso terreno di indichiarate e “oggettive” mediazioni anonime.

Dis-trarsi dalla chiacchiera

L’evidenza accessibile alle masse è prevalentemente quel che deriva dalla manipolazione, un trucco del non-pensiero sistemico per le sue masse-bersaglio. Il sistema informativo globale insegna e rappresenta e soprattutto usa quotidianamente il mito dell’evidenza. Contro le ultime “scuole del sospetto” si tratta di far credere che l’oggetto A, B o C si autodia e si automanifesti originalmente e immediatamente alla visione della coscienza: “l’ho visto in televisione!” o su internet. Le discipline scientifiche e scolastiche sarebbero mere prese d’atto di quel che assolutamente sta; specie da quando la realtà virtuale delle lavagne pseudo-interattive porta i meno provveduti, i meno dotati di capacità critiche, a credere che la realtà rappresentata sia il reale. Saranno rinchiusi a doppia mandata nella caverna platonica.

Nella tradizione idealistica e fenomenologica in cui mi riconosco, l’evidenza non è data assolutamente, si coglie attraverso atti di limitata e parziale riduzione dell’accidentale. Non è nel porsi/imporsi della cosa in sé ma il frutto faticoso di un’attiva azione di apertura al più possibile diretto ma sempre curvato e sfuggente mostrarsi dei fenomeni. E’ aperto all’evidenza l’atto del lasciare che ciò che si manifesta sia (il più possibile) autenticamente visibile, possa divenirlo con il minimo di interventi esterni al soggetto che conduce le operazioni conoscitive. Proporre scientificamente e pedagogicamente qualcosa come evidente comporta sempre, a mio avviso, il dovere della presentazione delle cose negli esplicitati limiti del loro incontrarsi con il soggetto; è discorrerne al congiuntivo. Il lasciar-vedere si sviluppa nel lasciar essere, nel costruire un orizzonte di attesa che il soggetto avverta come chiamata a esperire se stesso nel duro confronto con scenari di evidenze senza consistenza, e di evidenze più consistenti, dove però mai l’evidenza sia posta come indipendente dall’ambiente, dal momento storico e dal soggetto che l’avverte e/o la presenta come tale.

L’oggettività del mondo dei saperi istituzionalizzati –l’inestinguibile mito positivistico- non è l’in-sé e il per-sé; è inverabile (criticabile) come l’esser oggetto di operazioni di umana coscienza; fuori di questa non vi sono altri oggetti. Nessuno –credo- ha mai pensato sul serio all’io come creatore della realtà; troppi hanno invece pensato, non sempre con l'orrore necessario, a una “realtà” creatrice dell’io dal nulla. Nella mia visione della fenomenologia l’io/noi è il punto di prospettiva da cui il mondo è configurabile e ogni io ordina i fenomeni secondo le forme dell’intersoggettività e gli statuti disciplinari. Questo è costituire (meglio forse ri-costituire) autenticamente il mondo.

Mutazioni

Il futuro dell’essere è già vigorosamente cominciato e occorre ben disporsi e proporsi per in-tenderlo, preparandoci anche a una diversa concezione di quel che vale così come posta dalle nuove vicende politiche, economiche e tecnologiche dell'idea. Per un buon futuro personale e collettivo dobbiamo pensare criticamente e creativamente e tener conto di cosa il pensare e il conoscere significhino oggi: le direzioni di senso del pensare come i contenuti e le stesse categorie classiche della conoscenza umana stanno mutando nel nuovo mondo globalizzato e informatizzato, con radicalità e velocità assai maggiori che nel tempo della pura parola o della comunicazione pre-elettronica. I modi e gli schemi in cui veniva rappresentato e ordinato il personale e collettivo vissuto del mondo e progettato il nostro intervenirvi (categorie di soggetto, oggetto, causa, fine, tempo, spazio) stanno divenendo altro. Quelli delle istituzioni economiche e politiche (categorie di territorio, autorità, diritti, efficacia) forse ancora di più, essendo ancor più massicciamente connessi alla globalizzazione.

C’e una nuova “crisi delle scienze europee”, di tipo diverso da quello husserliano, secondaria alla nuova distribuzione dell’economia e della comunicazione politica. Sono entrate in crisi anche le concezioni di spazio, tempo, causa, fine, autorità, diritti, da sempre elementi essenziali dello costruzione dello scenario pedagogico.

La ricerca scolastica e accademica deve pertanto ripensare non solo i contenuti della conoscenza ma anche le tradizionali strutture portanti delle discipline, operare scarti dalle direzioni di senso tradizionali della visione europea del mondo. Preparare a pensare in forme nuove il nuovo mondo.

Nuovi atti ideali, nuovi assemblaggi e disassemblaggi di tradizioni epistemiche ed epistemologiche, concetti altri di autorità e di diritto si formano a livello globale, nazionale e subnazionale, tutti variamente connessi nella complessità dell’universo globale di questo “esperimento naturale” (Sassen) che è la storia. Nella disarticolazione delle costellazioni valoriali, gravità e mondi di vita singolari prevalgono sui tradizionali assetti assiologici ed è difficile pervenire od attuare princìpi condivisi. La teleologia dell’educazione e dell’istruzione deve allora sforzarsi di arricchire il soggetto di quella forza autentica che può farlo aprire all’Intero senza perdere singolarità e volto.

Chi è nell’istruzione o nella ricerca deve operare non solo ex cathedra o in laboratorio ma muoversi nei plurali e pluristratificati mondi della vita politica, morale ed economica. Le strutture istituzionali andranno profondamente ripensate: la tendenza allo svuotamento dello Stato nazionale e della sua capacità di imposizione fiscale priva infatti il sistema/costellazione dell’istruzione e della ricerca di parte rilevante delle sue giustificazioni giuridiche e delle sue basi materiali. Altrimenti la scuola potrebbe scomparire e la ricerca essere condotta solo su obiettivi a breve termine e rapida resa.

Certo, l’istruzione sarà sempre più slegata da luoghi fisici e riferimenti nazionali e locali e sempre più su un mercato globale che prescinde dalle identità, dai tradizionalismi come purtroppo anche dalle tradizioni, dalle memorie e dalle intenzionalità nazionali.

Gli enti sovranazionali sono per ora estremamente deboli e non hanno capacità di orientamento delle economie dei servizi sociali e della scuola. Una coscienza e un impegno politico dei lavoratori della scuola – uniti a una intelligenza fenomenologica ed ermeneutica delle loro élites - sono condizione per la difesa e la conquista dei propri spazi, mezzi e diritti.

Ad es. una nuova geografia, caratterizzata da estrema compressione, distensione e giocabilità dello spazio/tempo, sta nascendo sopra le carte geografiche che abbiamo studiato. Altro esempio: la virtualizzazione del denaro e la sua creazione più o meno truffaldina (hedge funds, futures, ghost banking….) e la ridislocazione di grandi masse di ricchezza a livello internazionale e interno hanno creato forti disagi o agi in rapporto alla collocazione dei soggetti nelle direzioni di flusso. Entrambi i fenomeni sono accentuati anche a seconda di come vengono capiti e affrontati e della capacità di cambiamento e riposizionamento competitivo dei singoli e delle organizzazioni. Anche di quelle aventi per scopo istruzione e ricerca sono costrette a rispondere alla domanda sul quantum di resa a breve.

Per essere in sintonia con i mutamenti della scienza, dell’economia e dell’etica occorre difendersi dal non-pensiero, seguire la trasformazione del conoscere e possibilmente anticiparne le tappe. Vince chi sa farlo, se ha fortuna; o almeno si salva.

Primato dell’ideazione e della speranza, sol dell’avvenire

Sono un socialista e dunque credo nel “sol dell’avvenire” e che nell’avvenire le giornate di sole siano più di quelle di tempo cattivo. Per questo cerco di difendermi dalla rappresentazione mediatica del mondo e dalla sua versione per le scuole: queste ci porterebbero a pensare che la storia proceda per una mera “naturale” meccanica degli eventi basata sul disordine/ordine dell’economia e che l’umanità (lo spirito che s’incarna in ciascuno di noi) abbia abbandonato la fiducia nella possibilità di decidere in che mondo vivere. Ci si vuol far credere che le idee non valgano e comunque non contino, che siano solo chiacchiere vuote e improduttive, mere sovrastrutture del reale; che solo i fatti materiali operino nella costruzione del futuro; che i destini del mondo dipendano solo dalla forza economica o militare. Che una democrazia autentica –si fa capire- sia impossibile, una scienza in atto e non come sedimentazione di statuti consolidati da ignorarsi poichè eretica e sia invece doveroso rassegnarsi a ripetere i pensieri programmati. Altrimenti il sistema decreta: risposta sbagliata, i giovani più brillanti non entrano nelle facoltà desiderate, gli insegnanti intelligenti e creativi vengono esclusi dai concorsi fin dalle prove preliminari (vedi concorso a DS) o la scuola crolla nelle classifiche INVALSI.

Non può essere così, non sarà sempre così; o meglio non necessariamente. Se la cronaca deriva dalla contingenza, sono le idee che a lungo termine fanno la storia, anche quella materiale, economica o militare, per non dire di quella politica, civile o religiosa. Un aereo che solca maestoso i cieli poco tempo fa era solo nella mente di Leonardo o di Verne, poi degli ingegneri e dei costruttori; un’impresa economica parte dal volgersi di un sogno di un imprenditore in un progetto, in un fabbricato, in una struttura di relazione. Uno Stato da un’idea.

La storia è essenzialmente (generativamente) una realizzazione della produzione ideale, origine, sintesi e frutto dei miliardi di idee che l’uomo ha concepito nei millenni. E poiché le idee e i sentimenti rientrano nella capacità di pensarle e di sentirli che è in ciascuno di noi e in noi tutti (o quasi) insieme, il futuro –a meno che non ce lo lasciamo portar via- è nostro.

 



Bibliografia

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