Il preside-manager migliora la scuola

di Pasquale Almirante, La Tecnica della Scuola 24.7.2013

Secondo uno studio della Fondazione Agnelli le scuole dirette da presidi preparati e col bernoccolo manageriale ottengono risultati migliori, anche se in Italia, rispetto all’Europa, c’è record di dirigenti poco capaci

Gli studi e le statistiche hanno il pregio di rendere scientifico, provandolo, quanto si intuisce in modo empirico e ciò vale anche per questa ricerca che condotta dalla fondazione Agnelli, e pubblicata da Repubblica, relativamente al ruolo e alla funzione dei nuovi i dirigenti scolatici il cui concorso nazionale, fra l’altro, sta subendo critiche e contenziosi in alcune regioni d’Italia.

Per capire dunque chi sono, quanto “valgono” e con quali competenze sono formati i presidi, ci ha pensato una ricerca della Fondazione Agnelli e dell’università di Cagliari, all’interno del progetto internazionale “World management survey in schools”.

Intanto, dice lo studio, nel confronto internazionale l’Italia, come è ormai abitudine leggere, non ne esce bene, anche se nelle scuole dove i presidi sono migliori, gli studenti presentano ai test Invalsi 2,2 punti in più rispetto agli studenti di scuole gestite non bene. E questo dato già a naso era facile intuirlo, considerando proprio che l’input, verso i risultati apprezzabile, inizialmente parte proprio dal dirigente e dalle sua capacità di sapere guidare la scuola.

Stesso discorso se il termine di riferimento è la bocciatura. La ricerca dimostra che per ogni punto in più di “abilità manageriale” dei presidi diminuisce del 3 per cento il rischio che gli alunni vengano bocciati, per cui la loro qualità paga.

Tuttavia se il raffronto è fatto a livello internazionale i nostri dirigenti scadono agli ultimi posti, circa due punti indietro rispetto ai paesi presi in esame fra i quali in cima stanno, in una scala da 1 a 5, quelli inglesi, seguiti dalla Svezia, il Canada, gli Stati Uniti, la Germania, ultima l’Italia.

Sulla base di 338 interviste a dirigenti scolastici di scuole di secondo grado statali e paritarie i presidi italiani, ma come i docenti e il personale, sono i più anziani d’Europa, con un’età media di 58 anni, contro i 48-50 anni degli altri, anche se abbiamo il record di dirigenti scolastiche donne, il 35 per cento di tutti i presidi in servizio, subito dopo la Svezia dove sono il 44 per cento.

Un dato confortante, all’interno di questo panorama non proprio brillante, è la percezione che la situazione andrebbe migliorando.

Infatti analizzando le capacità organizzative e gestionali dei dirigenti scolastici prima e dopo la riforma che ha istituito il concorso ordinario per presidi, si nota come il punteggio passi da 1,96 a 2,17 punti, dimostrando, dice Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, che “la figura tradizionale del preside, che diventava dirigente scolastico a fine carriera avendo fatto per tutta la vita il professore, non basta più. Oggi chi governa una scuola, così prevede la riforma, deve avere delle vere e proprie capacità manageriali, pur senza dimenticare il ruolo dell’educazione. La novità di questa ricerca è che per la volta viene valutato il merito di chi gestisce professori e allievi”.

Un miglioramento, per una figura nuova.

“Un preside oggi deve essere in grado di leggere un bilancio e di reperire fondi, capire la didattica e avere rapporti con i genitori, e organizzare la vita di mille allievi e magari cento professori è come gestire una media azienda italiana, e per questo bisogna essere formati”.

Infatti dai dati raccolti emerge che il ritardo nell’abilità gestionale non dipende tanto dai vincoli della nostra burocrazia, quanto appunto da una mancanza di preparazione da parte del dirigente, mentre si è pure visto nella indagine che le scuole migliori da un punto di vista della “qualità organizzativa e manageriale” sono i licei, classici e scientifici, del Nord Est, mentre i presidi più efficienti sono quelli che hanno un curriculum scientifico. Il Sud resta indietro, ma questa purtroppo non è una novità (come non è una novità l’arretratezza dell’Italia rispetto all’Europa) che però non pare interessare nessuno, né mettere in allarme nessuno, né indurre qualcuno ad adoperarsi per livellare il dislivello.