Intervista al prof. Santamaita, Ausilia Gulino, 20.7.2013 L’insegnante è una figura professionale che nel tempo ha subito dei cambiamenti all’interno della società. L’avevamo visto con Il professore nella scuola italiana dall’Ottocento a oggi e lo vediamo continuamente con le varie riforme che bersagliano questo settore senza ancora trovare un vero punto d’incontro. Ne abbiamo parlato con uno degli autori del libro, Saverio Santamaita, ordinario di Storia della Pedagogia presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’università di Chieti-Pescara. Cosa significa fare il professore oggi? Tanti possono essere i significati. Sommariamente, sul piano della realtà nel nostro Paese significa svolgere un lavoro che, dopo una formazione complessa e un reclutamento indegno di una società civile, è molto faticoso, richiede grande responsabilità e può dare grandi soddisfazioni. A fronte di ciò vi sono una retribuzione inadeguata e uno status sociale molto deteriorato, non senza qualche “colpa” della categoria. Sul piano teorico e, si vuole, ideale, la professionalità docente richiede conoscenze specifiche nelle discipline che si insegnano, competenze in scienze dell’educazione, acquisite anche attraverso laboratori didattici e tirocini guidati, capacità relazionali, e poi doti personali di equilibrio, sensibilità, senso civico. Com’è cambiata questa figura professionale e perché secondo lei? Negli ultimi decenni la professionalità docente è cambiata profondamente nella sua formazione, nei contenuti e nelle modalità dei processi di insegnamento-apprendimento, mentre è rimasto costante, o è peggiorato, il rapporto tra quanto ci si aspetta dall’insegnante e quanto si è disposti ad investire nella sua formazione, iniziale e in servizio, nella sua retribuzione, nel suo stato giuridico. All’insegnante si chiede di essere un bravo docente, un assistente sociale, un fine psicologo, un animatore culturale e soprattutto di supplire ad una funzione educativa spesso disertata dalle famiglie. Un tessuto sociale debole quanto a senso di responsabilità, riconoscimento del merito e delle qualità personali, vorrebbe un insegnante che professi questi principi, dimenticando che ogni società ha gli insegnanti che si merita e che la scuola rispecchia la società da cui nasce. Infatti anche le ragioni del cambiamento della professionalità docente sono strettamente collegate ai mutamenti sociali, scientifici e tecnologici, alle esigenze sempre nuove dell’economia. Un giovane oggi per quale motivo potrebbe intraprendere questa professione? D’impulso mi verrebbe da dire per insufficiente conoscenza di cosa sia oggi, realmente, il lavoro dell’insegnante, di cui molti aspiranti docenti hanno poco più che il ricordo, nel bene e nel male, dei professori che hanno incontrato nel proprio percorso scolastico. In termini più riflessivi direi che ci si può avviare all’insegnamento se si ha consapevolezza della serietà del percorso formativo, delle finalità da raggiungere e degli ostacoli da superare. Soprattutto occorre mettere da parte le motivazioni che guardano all’insegnamento come missione, come vocazione, come apostolato più o meno laico. La spinta motivazionale, che deve essere forte, va declinata in termini di professionalità e competenza. Nel libro sono presenti “i metodi scorretti” che hanno causato ciò che la società vive oggi, quale invece potrebbe essere un metodo nuovo per rilanciare la scuola? Dovrei dilungarmi più di quanto sia consentito in questa sede, mi limito ad una (apparente) ovvietà: per rilanciare la scuola bisogna crederci. Non esiste UN metodo ma occorrono tanti interventi su tanti piani diversi, all’interno di una visione unitaria, chiara, condivisa. Crederci, appunto. I suoi studenti con quale spirito affrontano il futuro incerto? Ve ne sono di quelli che guardano al futuro con frustrazione, altri con rassegnazione, altri con lo slancio e la generosità che sono i doni più preziosi della condizione giovanile. Talora manca una progettualità minuta fatta di raccolta delle informazioni, di rapporto conoscitivo con il reale (possibilità, opportunità, difficoltà, dove, chi, come ecc.) piuttosto che di scenari, affascinanti o temibili, ma spesso lontani dal dato di realtà. Anche questo può essere un portato dell’età giovanile e quindi sarebbero necessari veri servizi di orientamento allo studio e al lavoro; ma sembra che chi dovrebbe provvedervi sia, come dire, distratto. Qual è stato l’errore maggiore, nella storia, che ha “affondato” l’istruzione? Non direi che l’istruzione sia “affondata”, certo in Italia è in difficoltà. Come ho già accennato, l’errore sta nel fatto che non ci si è creduto e non ci si crede abbastanza. La storia della nostra scuola reca in sé una sorta di dannoso strabismo: governi e ministri indicavano alla pubblica istruzione finalità altissime (di volta in volta: combattere l’analfabetismo, fare gli italiani, costruire una coscienza nazionale, via via fino alle scemenze della società della conoscenza) e al tempo stesso lesinavano le risorse, la inondavano di provvedimenti demenziali, scollegati tra loro, in una confusione perseguita con accanimento, e spesso la piegavano a interessi molto poco “scolastici”. Per come è stata trattata dai gruppi dirigenti, la nostra scuola funziona anche troppo bene. Perché un insegnante dovrebbe anche essere un educatore? E in che modo è possibile educare e impartire cultura? Perché un buon insegnante è sempre un buon educatore. Introdurre i giovani alla cultura del loro gruppo sociale, presidiare con cura i processi di insegnamento-apprendimento, che si tratti di filosofia o di applicazioni tecniche, significa sempre educare: si insegna e si educa per ciò che si sa, ma anche per ciò che si è. È difficile? Certo che lo è, ma è questa la “difficile scommessa” dell’insegnante.
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