La scuola è morta, viva la scuola

di Franco De Anna Pavone Risorse 15.6.2013

Note a margine del nuovo libro di Bottani. Il nocciolo di una analisi realistica: i sistemi di istruzione pubblica nazionale hanno fallito sia per quanto attiene ai risultati di apprendimento, sia e soprattutto per quanto attiene alla sfida della "equità" sociale e del superamento delle disuguaglianze. Requiem per la scuola. Così titola il libro.

Il secolo in cui sono nato incomincia con le carrozze a cavalli e i lumi a petrolio e finisce con la microelettronica, la rete, l’ingegneria genetica, le nanotecnologie.

Ho avuto la fortuna di nascere a metà di quel secolo e dunque la mia vita si è sviluppata a cavallo con il nuovo millennio; si è saturata, nella sua adultità, di tutte le novità della tecnologia che con la loro velocità di diffusione, pervasività di applicazioni a tutti gli aspetti del vivere quotidiano, hanno modificato profondamente quest’ultimo e per tutti..

Per altro non saprei dire se la pressione innovativa di tali fenomeni sulla mia vita e la loro influenza materiale e psicologica su di me, sulla mia configurazione di persona, soggetto, individuo, sia stata più o meno elevata di quanto accaduto per esempio a mio nonno. Lui era nato nel 1882, l’anno della morte di Garibaldi (a dirlo così fa più impressione…) ed è morto poco dopo la mia nascita.

Quale sfida della Storia sulle nostre reciproche storie personali è stata più radicale? Mio nonno ha visto generalizzarsi l’uso quotidiano, produttivo e domestico dell’energia elettrica, le strade riempirsi progressivamente di automobili, i cieli di aeroplani, l’etere di voci ed immagini scambiate a distanza di migliaia di chilometri; è passato attraverso due guerre mondiali che possono in realtà considerarsi come due tappe di una medesima lunghissima guerra dei trent’anni…

Se dovessi enumerare " i cambiamenti" vissuti da mio nonno sotto il profilo della loro quantità e portata non avrei dubbi ad assegnare la palma della sfida a quale sia più radicale.

Bisogna invece considerare altre circostanze per capire l’effettiva portata dei mutamenti della Storia su quelli delle storie individuali.

Per esempio, per quanto riguarda il rapporto tra lo sviluppo e diffusione della tecnologia e la sua influenza innovativa nella vita quotidiana delle persone, contano lo sguardo, le attese e le disponibilità soggettive (curiosità, speranze, aperture) che le persone stesse mettono in campo rispetto all’innovazione. Il Paese nel quale si è formato, cresciuto e vissuto mio nonno per gran parte della sua vita era sostanzialmente un Paese di analfabeti e di contadini, largamente legato alle rappresentazioni ed ai valori della vita agricola. Poche le isole di sviluppo industriale ed urbano negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia: quando la cultura ad esse legata ha cominciato a generalizzarsi ed a irrobustirsi a sufficienza per "marcare" il senso comune, mio nonno era già adulto, e andava in guerra.

Vivere direttamente in prima persona il generalizzarsi della disponibilità domestica di energia elettrica deve avere avuto un impatto formidabile sulla sua testa e sui suoi pensieri: non aveva seguito alcun curricolo scolastico che gli avesse insegnato cosa fosse quella forma di energia che si propagava nella sua casa.

La prima lavatrice nella mia famiglia entrò quando avevo già compiuto e per intero, l’istruzione primaria. La sua portata innovatrice, particolarmente nella vita di mia madre, fu formidabile. Ma io ne ero preparato: non solo la disponibilità di elettricità era ormai cosa consolidata, ma avevo imparato a scuola che cosa fosse. La mia "testa" aveva già introiettato una "curvatura" di curiosità, disponibilità, informazioni, attese che assicuravano una diversa mediazione dell’impatto delle innovazioni tecnologiche e scientifiche.

La generazione di mio nonno visse in un tempo in cui l’attesa di vita media era al di sotto dei 50 anni (e le carneficine belliche produssero, nei fatti, inveramenti più che realistici delle previsioni statistiche). La "piramide della popolazione" era davvero una piramide: classi di età giovanili molto popolate e restringimenti progressivi verso un vertice non particolarmente elevato.

Le "memorie", le consapevolezze della Storia, non potevano che seguire tale distribuzione, in almeno due aspetti. Il primo: la "quantità" di innovazione che ogni persona incontrava nella sua vita materiale era contenuta nella maggiore brevità (media) della stessa. Insomma uno "stress innovativo" forzatamente limitato sotto il profilo quantitativo.

Il secondo: la base molto larga della piramide della popolazione e il vertice abbassato definivano condizioni particolari alla "riproduzione della memoria". Pochi anziani, molti cuccioli da portare nella foresta per insegnare loro a cacciare. Una "struttura" adeguata (!?) a compiti "conservativi, nella trasmissione delle memorie tra generazioni (Come fu per gran parte della Storia di gran parte dell’umanità).

Ma totalmente inadeguata a fare fronte a tensioni innovative sostenute dallo sviluppo della scienza e dalla tecnologia e capaci di modificare la vita quotidiana di masse sempre più larghe di popolazione e con velocità sempre più elevata.

Scienza, tecnologia, economia capaci di imprimere un ritmo di innovazione che poneva le popolazioni di fronte a "oggetti" sempre nuovi, ma che le condizioni tradizionali della riproduzione culturale intergenerazionale non garantivano di socializzare adeguatamente e collocare nella "biblioteca personale" disponibile alle menti ed all’esercizio di padronanza dei singoli e delle comunità..

Ovviamente non un problema per le elite sociali: l’istruzione, come funzione sociale "specializzata" a ciò, assolveva per loro a tale compito di "riproduzione delle memorie e del senso" che si ritrovava compressa nella struttura della distribuzione "naturale" delle generazioni.

Chi oggi ha una età simile alla mia (ultrasessantenne) ed è laureato come me, dovrebbe sempre ricordare alcune "verità" strutturali che a volte suonano "scomode", soprattutto quando si tratti di discutere di politica scolastica.

L’80% (ottanta!) della popolazione di coloro che nel 1963 (scuola Media Unica) avevano più di 10 anni (quorum ego: non ho fatto la media unificata..) ha frequentato solo le scuole elementari. Questa parte di popolazione ha vissuto una vita intera nella quale benessere progressivo e cultura dei consumi (pervasività della tecnologia nella vita quotidiana compresa) si sono accompagnati a condizioni di semianalfabetismo o di analfabetismo di ritorno. Una condizione che non può non avere pesato anche sui suoi figli e nipoti, sia pure sottratti a ciò da una scolarizzazione di massa cresciuta impetuosamente lungo gli anni ’70 del secolo scorso.

Ciò significa che a metà degli anni Novanta la stragrande maggioranza degli ultraquarantenni erano figli di una Italia premoderna, che pur non esistendo più nella realtà non poteva però che alimentare stratificazioni profonde (memorie, attese, disponibilità, padronanze) della loro identità/personalità.

Tutto questo fa di me ( e di quelli come me) un privilegiato. Ricordarlo non serve ovviamente per alimentare sensi di colpa, ma certamente per dare alle nostre opinioni, ai nostri argomenti, alle nostre analisi piegate sull’oggi, (e su qualche deriva "funzionalista" o ideologia postmoderna come quella della "società della conoscenza") la corretta prospettiva, capace di respirare il futuro e non solo di invocarlo.

L’istruzione pubblica, la scuola di massa per il nostro Paese ha avuto questo fondamentale significato storico (una sfida/scommessa in realtà): ridistribuire socialmente, oltre la disuguaglianza sociale, le condizioni di una riproduzione culturale capace di creare le condizioni per superare la contraddizione specifica del nostro Paese: tra la "struttura profonda" premoderna e lo sviluppo economico da grande paese industrializzato.

La vera domanda oggi sarebbe circa quanto in quella direzione è stato fatto e quanta di quella sfida scommessa sia ancora attuale e come fare per "giocarsela" nelle condizioni attuali (cosa è morto, cosa occorre rivitalizzare, cosa far nascere)

E’ chiaro che qui mi riferisco ad una "istruzione di base" socializzata ed unitaria (vedi dettato costituzionale nella sua letterale espressione). Altro ragionamento ed approccio occorrerebbe sviluppare, pur partendo da qui, per l’istruzione superiore e terziaria.

Su questo piano il dato più preoccupante in termini di "risultati" non sono le "misure" delle prestazioni degli studenti, ma la non "equità" del sistema, la permanenza di una varianza interna non accettabile e che contravviene l’assunto di base, il permanere ed acuirsi di differenze territoriali e di contesto ancora prima, e non solo, che socio economiche. Non è certo la scuola a doversi fare carico di combattere, da sola, le disuguaglianze sociali. Esse si riflettono al suo interno, come ovvio.

Ma è legittima la domanda se lungo gli anni di permanenza al suo interno, essa sappia contribuire ad attenuare il peso che le variabili di tipo economico e sociale assumono nella crescita di una persona, se questa rappresenta una missione dichiarata e praticata dalle politiche pubbliche, e condivisa e socializzata da un ceto professionale che a partire da essa configura il proprio profilo, le proprie competenze, i propri "attrezzi di lavoro".

Se un attenta analisi critica dei dati (a questo servono le valutazioni) fornisce risposte negative o quanto meno dubitative, il problema non è dichiarare fallimento e morte. Ma capire cosa e come cambiare ciò che pareva consolidato e dato per scontato da scarsa cura nelle letture valutative.

Se guardo ancora a me e a mio nonno mi riesce difficile pronunciare un requiem. Quando sono nato oltre il 50% dei lavoratori italiani era impiegato (!?) nell’agricoltura. Lungo la mia vita tale dato si è ridotto a meno di un decimo. Ed è evidente che non si tratta solamente di un dato occupazionale: significa emigrazione interna ed esterna, inurbamento, mutazione di modelli culturali e di vita… La massificazione della scuola di base ha accompagnato tutto questo. Ed è un risultato storico .

Tutto questo è certamente finito: altri compiti, altre soluzioni, altre modalità e strumenti per affrontarle.

Ma, proprio perciò, e proprio per l’istruzione di base (con quei significati, nella riproduzione delle generazioni che ho cercato di indicare) non un requiem, ma un altro assetto di compiti e priorità.

E se si misura il fallimento proprio in termini di equità ed uguaglianza, da lì occorre ridefinire politiche e strumenti. Prima di tutto facendo proprio dell’istruzione di base la priorità della politica pubblica. (Si raccomanda, personalmente, con priorità per l’infanzia…).

Riconoscere che il compito è diverso dal passato è però non solo un attributo di onestà politica ed intellettuale (e ben vengano da questo punto di vista anche le affermazioni tranchant sui requiem necessari) ma anche una condizione per definire politiche pubbliche sensatamente verificabili.

Per esempio, come si ridefiniscono condizioni di riproduzione delle memorie, del senso comune, delle capacità di padronanza tra generazioni, a fronte di una "piramide della popolazione" che è oggi tutt’altro che una piramide e assomiglia invece ad una "cupola orientale", con una base ristretta, un rigonfiamento mediano ed una punta che si assottiglia verso l’alto? Anziani numerosi, e ancor più le età di mezzo. Pochi cuccioli da portare nella foresta per insegnare loro a cacciare, ma con compiti assai più complessi di un tempo. La foresta è più intricata e la caccia è più difficile.

Bastano in proposito anche i volenterosi e apprezzabili sforzi di innovare curricoli e contenuti (pardon… "indicazioni"), O al contrario sono le condizioni "strutturali" da cambiare (durate, tempi, scansioni, ambienti, contenuti e distribuzione del lavoro, protagonisti…)?

Pensiamo per esempio all’interrogativo specifico, rispetto all’istruzione di massa, rappresentato dal rigonfiamento intermedio della piramide della popolazione e ai fenomeni acclarati di semi analfabetismo o di analfabetismo di ritorno: forse si potrebbe azzardare che possano cambiare i riferimenti generazionali dell’opera di istruzione della scuola, a parità di suoi significati sociali di fondo.(la scommessa dell’uguaglianza…).

D’altra parte, a proposito di coerenza di politiche pubbliche e di priorità sociali, non posso non ricordare che nel nostro Paese quella che oggi si chiama "formazione per tutta la vita" ha acquisito qualche cittadinanza solo sulla scorta di un impegno "sindacale" ( le 150 ore…). L’Ordinamento, in quanto tale (dal decisore politico, all’Amministrazione) ha sempre avuto (ha?) "pensieri lontani" da tali obiettivi di fondo. (si vedano, al di là delle affermazioni di principio, le vicende relative agli assetti dei Centri Territoriali di istruzione permanente…)

La grande affermazione dell’istruzione come "bene comune", non può significare mantenere ciò che è stato. Né quei fallimenti presentati da Bottani sono un dato contingente legato ai limiti di risorse. Questi certo aggravano la situazione, ma i cattivi risultati rispetto alla scommessa storica dell’equità hanno radici ben più lontane.

L’argomentazione precedente muove dallo spunto iniziale costituito dalla innovazione, diffusione, pervasività dello sviluppo tecnologico e della funzione dell’istruzione di massa come strumento di socializzazione culturale adeguata ad esso e finalizzata allo sviluppo di sensate condizioni di "padronanza" dei suoi effetti lungo la riproduzione delle generazioni.

Ma argomentazioni analoghe (o meglio simmetriche) si possono fare rispetto ad altri aspetti relativi allo sviluppo dell’istruzione pubblica di massa nel nostro Paese che danno specificità al processo anche rispetto alla comparata internazionale.

I sistemi di istruzione pubblica accompagnano, nel loro sviluppo, l’affermarsi e consolidarsi degli stati nazionali. La loro articolazione di funzioni, le scale di valori, gli assetti, la "significazione sociale" che accompagna il loro costituirsi istituzionale sono connesse in una permanente dialettica con gli stessi caratteri del "costituirsi" degli Stati nazionali.

La comparata sui "risultati" è dunque analisi fondamentale e necessaria (si misurano e valutano le "politiche pubbliche); ma certamente non né sufficiente, né esaustiva. Solo alcuni esempi.

L’alfabetizzazione si pose come obiettivo storico fondamentale nei paesi della Riforma perché ad essa era legata alla "lettura del Libro" esercitata personalmente. Più tardi, la "riproduzione culturale" propriamente detta (il modello di "cultura nazionale", la Kultur) è legata alla "nazionalizzazione delle masse", o alla "civilisation", e possiamo assumere tanto Bismark, quanto la Republique come riferimenti storici (con modelli diversi, certamente).

Ma le correlazioni tra sviluppo dei Sistemi di istruzione pubblica e lo sviluppo e consolidamento degli Stati nazionali, sotto il profilo sia delle "funzioni" sia delle "significazioni sociali" riguardano in particolare i livelli superiori di istruzione.

E’ infatti a questo livello che agiscono con più significativa efficacia entrambi gli "operatori di significazione sociale" legati alla istituzione pubblica del sistema nazionale di istruzione: la riproduzione delle elite (politiche, amministrative, culturali, scientifiche, sociali) e la (più tarda) riproduzione dei "talenti economici" (ingegneri, tecnici, agronomi, economisti…).

Su questo piano i miei distinguo rispetto alle diagnosi di requiem di Bottani si attenuano alquanto per lasciare posto ad una corrispondenza di pensieri: "quel" sistema è al tramonto conclamato.

Primo: il decadere di significato, potestà deliberativa, rappresentanza di interessi e volontà politiche degli Stati nazionali rappresenta un tratto specifico di questa era.

C’è chi pensa, anche per sincera preoccupazione, alla possibilità di opporsi a tale processo. Ma se appena volge lo sguardo per capire chi abbia intorno come alleato, non può che desistere. Non pare ci sia alternativa autenticamente democratica nel rifluire a negare la fase della Storia che vede declinare la funzione degli Stati nazionali, a meno di ritrovarsi in pessima compagnia. Si può solamente al contrario spingere per trasferire sul piano sopranazionale le istanze di democrazia, cittadinanza, deliberazione. Ma ciò significa operare per "far convergere" nella loro strutturalità i diversi apparati un tempo autoparametrati sul monopolio statuale. Non sono sufficienti (anzi a volte dannosi nella loro funzione mistificante) le sole definizioni di "parametri" di risultato: occorre la convergenza dei processi e delle strutture reali. Il rapporto PIL/deficit non significa nulla (è parametro "stupido" diceva Prodi) se la struttura dei diversi bilanci pubblici non tende a convergere nella sua composizione, e dunque se non convergono, nella loro operatività i sottosistemi di spesa pubblica, dalle pensioni, alla sanità, alla scuola… Ciò vale dunque per quei sottosistemi istituzionali fondamentali che sono i sistemi di istruzione nazionale…Occorrono altri obiettivi comuni, altre significazioni unificanti, altre decisioni di investimento coordinato sull’istruzione superiore…

Secondo: la suggestione della "società della conoscenza" rischia di occultare una mistificazione ideologica se non si considera che i caratteri dello sviluppo economico, nazionale e mondiale, hanno bensì una necessità sempre rinnovata di disporre di talenti di alto livello di competenze (da qui la suggestione citata e quella spesso insieme declinata del "merito"). Ma i caratteri stessi dello sviluppo implicano che 1) le competenze richieste abbiano un elevatissimo tasso di obsolescenza, e dunque decadano con ritmi assai più rapidi di quelli generazionali e che 2) il sistema ha bisogno di talenti sempre più qualificati, ma è in grado di valorizzarli solo in modo sempre più selettivo (altro che ascensore sociale: o meglio, si tenga conto, per valutare le metafore, che l’ascensore è sempre un contenitore di assai esigue dimensioni… è in grado di contenere assai poche persone…). Rimando, per comprendere la portata "ideologica" del paradigma di "società della conoscenza" alle

analisi di L. Gallino sulle stratificazioni del lavoro connesse alla globalizzazione e sul valore "falsificato" di un indicatore come il "titolo di studio" nel determinare tale stratificazione.

Terzo: se si guarda allo specifico della istruzione superiore italiana, le diagnosi nefaste si fanno molto realistiche. Senza dilungarmi in complesse analisi (del resto ampiamente disponibili…) uso come paradigmatico il confronto tra i tedeschi che, dopo la tragedia bellica e del nazismo seppero spostare il baricentro dell’istruzione secondaria dalla Kultur del Gymnasium all’istruzione professionale e tecnica (senza nulla perdere, anzi, sul piano della cultura umanistica) e il caso italiano di contraddittoria permanenza di una scala di gerarchie e valori incentrata sull’istruzione liceale; resa obsolescente in termini reali e conclamati da una crescita di massa dell’istruzione tecnica e professionale (in certe fasi storiche coerente con lo stesso sviluppo economico), e però mantenuta comunque operativa nelle scelte di ordinamento (non una "sopravvivenza", cosa che già sarebbe grave, ma una permanenza fin entro alle "nuove" (!?) indicazioni per la secondaria superiore).

E quanto alla riproduzione delle elites sociali e politiche…. La filiera di Presidenti francesi che, di qualunque colore politico, provenivano tutti dall’ENA è stata bensì interrotta da Sarkosy, ma si è subito ripresa…In Gran Bretagna Cameron convalida la funzione essenziale (nei fatti anche se non codificata come per l’ENA) svolta da un paio di università nell’alimentare le elites politiche. In Germania la continuità nazionale della cultura è riuscita a darsi in questi anni un (una) premier che si è formata nell’est durante una divisione storica più che drammatica. In Italia…. Beh! È sempre possibile consolarsi guardando al numero di avvocati (e di licei classici dunque) presenti in Parlamento ed ai magnifici risultati di quel "modello di cultura". Su altro il tacere è bello. Altrove ho scritto: abbiamo il Liceo, abbiamo l’Accademia,peccato ci manchi la Stoa.

Più seriamente, a proposito di correlazione tra Stato nazionale e sistemi di istruzione. Io e mio nonno (per tornare all’approccio) abbiamo condiviso una idea "formativa" di fondo: lo Stato rappresentava il coronamento e l’ispirazione di un percorso formativo "dal soggetto alla cittadinanza"; dalla individuazione alla "professione" (ciò che un soggetto dà e sa al contesto sociale di riferimento). Il coronamento del percorso di cittadinanza era costituito dallo Stato. Così per me come per mio nonno.

Ma non è più così: l’idea (e l’ideale) stesso di cittadinanza si complessificano e declinano più livelli. Lo Stato e i suoi ordinamenti rimangono come una "intelaiatura" di inquadramento ma entro la quale operano istanze plurime di cittadinanza "societaria" che si parametrano sulla società civile e le sue autonomie (di dimensione non meno "pubblica" degli ordinamenti statali) e contemporaneamente istanze che travalicano la dimensione nazionale e che richiedono parimenti esercizio di cittadinanza (la deliberazione e le appartenenze) su una scala sopranazionale. Per me una sfida che arriva in tarda età. Ma le nuove generazioni nascono "dentro" questa sfida.

In altre parole, la "formazione" delle nuove generazioni (e non solo), acquista altri riferimenti e manda in obsolescenza antiche significazioni che delineavano le funzioni sociali dei sotto insiemi istituzionali costituiti dai sistemi di istruzione.

Qui sono francamente d’accordo con Bottani: bisognerebbe avere il coraggio di intonare un requiem. Ma, senza esagerare, credo si possa delineare una conclusione operativa.

Focalizzare gli obiettivi di politica pubblica sull’istruzione di base: durata, organizzazione, scansioni, ambienti, obiettivi, qualità del lavoro impegnato, condivisone di una mission forte e fondata costituzionalmente. Qui deve "consistere" il sistema di istruzione e il suo "ordinamento", il suo interpretare un "bene comune" e la sua capacità di interpretare la sfida di "questa" Storia.

Per l’istruzione superiore, al contrario, occorre superare il paradigma stesso di "ordinamento" (e le scale di valori e gerarchie implicite connesse). Portare a effettiva consequenzialità una intuizione pure presente nei tentativi di riforma della secondaria: la flessibilità dei percorsi, liberando tale opzione dai lacci e laccioli che la imprigionano. Arrivare ad una assennata composizione tra (poche) prescrizioni generali e "mirate" scelte opzionali, vocazionali, personali, in relazione a contesti socio economici e produttivi diversi e con diversa domanda sociale.