Del “bonus maturità” e di altre,
trascurate, complessità

 dal blog di Max Bruschi, 4.6.2013

Il bonus maturità è una vicenda tipica di una certa “italianità” nel costruire e abbattere le norme, italianità che in questo caso non rappresenta una eccellenza. Che la polemica si sia scatenata ora, a più di un mese dall’emanazione del famigerato decreto attuativo (il Decreto Ministeriale 24 aprile 2013 n. 334) è anch’esso tipico. Bravissimi (più o meno) nel mettere pezze a colore e nell’emergenza, sembriamo culturalmente incapaci di agire, o reagire, per tempo e nel modo opportuno.

Intanto, la radice del problema non è nel decreto ministeriale, ma nella norma di cui esso è la mera attuazione: il Decreto legislativo 14 gennaio 2008, n. 21, uno strumento applicato a spizzichi e bocconi e che pure, bonus a parte, contiene indicazioni preziose per raccordare i vari percorsi di istruzione all’accademia. Ebbene, il Dlgs, all’articolo 2, comma 4, lettera b), testualmente riporta, tra i criteri per l’attribuzione del bonus (inizialmente pari a 25 punti, abbassati a 10 dalla Gelmini): “la valutazione finale conseguita nell’esame di Stato,  al  termine dell’istruzione secondaria  superiore,  dal  20  per  cento  degli   studenti con la  votazione  piu’  alta  attribuita  dalle  singole commissioni, e comunque non inferiore a 80 su 100. Il punteggio di   cui  alla  presente  lettera  puo’  essere  assegnato  anche   per   scaglioni, in relazione alla valutazione finale  conseguita  dallo studente”.

Un patatrack. Se è evidente la preoccupazione di evitare di favorire quei candidati che abbiano avuto la ventura di trovarsi in istituti e di fronte a commissioni di manica larga (statali o paritari, ma, se ricordo bene, per lo più statali) e dal 100 facile, il problema non può essere certo risolto, al di là della discutibilissima applicazione, ledendo, come fa il decreto legislativo, un principio costituzionale. L’esame, sembra banale dirlo, è un esame di Stato, l’esito è nazionale e non può in nessun caso portare a produrre delle “gabbie” di valutazione che ne mutino il valore. E non è un caso che l’ex Ministro Gelmini si sia, per tre anni, rifiutata di applicare la norma, rinviandola nel tempo. Profumo ha deciso diversamente, in maniera piuttosto ingegneresca, ma anche se la “localizzazione” dei voti fosse stata improntata a maggior chiarezza, il risultato NON sarebbe cambiato: ricorsi a raffica e un contenzioso ingovernabile. Come se non bastasse, il decreto ministeriale omette completamente di dare attuazione  alla lettera d) della norma primaria, che dispone di ricomprendere (opportunamente) tra gli indicatori “le votazioni, uguali o  superiori  agli  otto  decimi,  conseguite  negli scrutini  finali  di  ciascuno  degli  ultimi  tre  anni  in   discipline, predefinite nel bando di accesso a corsi universitari, che abbiano diretta attinenza o siano comunque significative per il corso di laurea prescelto”.

Che fare? Le soluzioni sono solo due. Prima soluzione, se si vuole, prima o poi, valorizzare il percorso scolastico, procedere a riscrivere l’articolo 10 del decreto, ma dopo aver, per decreto legge, sospeso l’applicazione del decreto legislativo. Opportunissimo riscrivere la lettera b), rendendola costituzionalmente accettabile, e reintrodurre la valutazione della lode che oggi, come da più parti si evidenzia, è un risultato difficilissimo da ottenere, a qualsiasi latitudine.

Seconda soluzione, se si considera il voto all’esame di Stato come una mera formalità, procedere per decreto legge all’abrogazione dell’articolo 4 del Dlgs 21/2008, una volta per tutte, senza rifugiarsi nell’ipocrisia del rinvio “sine die”. Tertium, a mio parere, non datur.