La maturità e il “bonus” premia-ciucci dal blog di Giorgio Israel, 5.6.2013
A norma di un decreto di un mese fa agli studenti che conseguiranno
il diploma di maturità con almeno 80/100 sarà conferito un “bonus”
da 4 a 10 punti da sommare al punteggio che otterranno nel test
nazionale di ammissione alle facoltà universitarie a numero chiuso.
Allo sventurato che voglia capire il meccanismo di assegnazione dei
punti si dice che il voto ottenuto alla maturità dà diritto a un
incremento «in rapporto alla distribuzione in percentili dei voti
ottenuti dagli studenti che hanno conseguito la maturità nella
stessa scuola nell’anno scolastico 2011-12». Se vorrà approfondire
il senso di questo gergo troverà nel sito www.universitaly.it un
tabulato che specifica gli incrementi scuola per scuola: 208 pagine…
Il succo di questa cabala numerica è che per ottenere il massimo dei
punti occorre un punteggio che, nell’anno precedente, sia stato
superato da una percentuale molto bassa di studenti della propria
scuola; se ne otterranno di meno con un punteggio che, nell’anno
precedente, sia stato superato da una percentuale nettamente più
alta di studenti; e così via. Se si esplora l’immane tabulato,
prendendo ad esempio scuole notoriamente eccellenti e altre
notoriamente mediocri, si constata che nelle prime è difficilissimo
ottenere “bonus” significativi, al contrario delle seconde. È
evidente che il meccanismo produce un forte appiattimento e
ingiustizie plateali. Non a caso le proteste fioccano. L’aspetto 2) evoca il caso di Naftalij Frenkel che, da detenuto del Gulag staliniano, ne divenne uno degli organizzatori, sostituendo al primitivo e inefficiente sistema di gestione, un sistema efficiente in quanto basato su una ripartizione analitica del cibo secondo fasce di “merito”. L’unica differenza è che il sistema di Frenkel faceva fuori scientificamente i più deboli mentre questo li favorisce. Ma l’approccio spersonalizzante è lo stesso ed è da chiedersi perché mai in questo paese, quando si parla di “merito” o di “efficienza” si debba finire sistematicamente col ricorso a modelli autoritari e dirigisti, oltretutto declinati all’inverso, cioè secondo una logica che premia il demerito facendo finta di penalizzarlo. Sarà forse un’eredità imperitura del totalitarismo fascista che, con anni e anni di ministero Bottai, ha impregnato il sistema dell’istruzione? Ma c’è qualcosa di non meno perturbante: da mane a sera siamo assordati dalle rapsodie di un’orchestra di tromboni “meritocratici” per poi assistere a risultati del genere. È difficile trovare altra spiegazione se non il commento sconsolato di un professore che, esausto dai vani tentativi di produrre qualcosa di fattivo nella gestione del proprio istituto, osservò che il male principale di questo paese è preferire le chiacchiere alle realizzazioni concrete e semplici. Nel sistema dell’istruzione questa inconcludenza si manifesta con il prevalere dei formalismi burocratici, assortiti da un feticismo dei numeri che solo chi conosce davvero i numeri sa quanto sia provinciale. Mi scrive un direttore di dipartimento universitario terrorizzato per il diluvio di obblighi valutativi che piove sull’università: niente più «studiare, scrivere, fare lezione, seguire tesi di laurea, dialogare con gli studenti, creare occasioni di discussione; ma occupare settimane a decifrare leggi fumose e contraddittorie, partecipare a interminabili riunioni di indottrinamento amministrativo, compilare moduli». Non più insegnare, ma «erogare didattica», nell’orrido lessico ministeriale. Ora le scuole vedranno ridotto il tempo dedicato alla loro missione specifica – già mutilato da una marea di certificazioni e di scartafacci – dalla necessità di mettere in moto un meccanismo concorrenziale non sulla qualità dell’insegnamento, ma sulla gara a chi costruisce le più furbe alchimie numeriche. È facile capire come mai, in un simile contesto, prevalga chi è capace di produrre solo farragini inutili o dannose, come nel caso in oggetto, dopo le tante prove a test fallimentari, la sgangherata agenda digitale o il progetto di scuola “centro civico”. Inevitabilmente, gli orchestrali di questa rapsodia non sono persone che vogliono fare cose ragionevoli e costruttive, ma un battaglione di manager e tecnocrati “gestionali” che, falliti nel loro ambito, sfogano le loro frustrazioni nell’istruzione con progetti universali, di burocrati e azzeccagarbugli delle normative; il tutto con un contorno di sadismo nei confronti di studenti e insegnanti. Naturalmente, in capo a tutte le responsabilità è quella della politica. E se qualcuno ha sbagliato, e troppo, nel recente passato, ci si attende dal nuovo ministro che cambi registro in modo radicale, facendo piazza pulita di prassi che stanno facendo a pezzi il sistema italiano dell’istruzione e minano le possibilità di ripresa del paese. Per cambiare registro basterebbe solo tornare al buon senso, essere un po’ cartesiani nel senso delle “idee chiare e distinte”. Molti si stanno rendendo conto che l’unico modo di affrontare le riforme costituzionali ed elettorali è di adottare un approccio “cartesiano”. Perché non dovrebbe essere lo stesso per l’istruzione? |