scuola

Piccolo "manifesto" a difesa
del prof intelligente

Giuseppe Botturi, il Sussidiario 5.6.2013

Nel corso di questo anno scolastico mi sono reso conto più volte di avere a che fare con un discreto numero di studenti bravi, soprattutto al liceo: bravi, cioè che capiscono facilmente, e che dispongono di un buon bagaglio di informazioni, ad esempio in un ambito che è loro congeniale - chi è un appassionato di storia, chi è un piccolo genio della matematica... Si tratta, cioè, di persone che sanno molte cose; e questo, di per sé, dovrebbe far contento un insegnante. La cosa, invece, mi ha mandato sanamente in crisi: se i miei studenti sanno già  molte cose, io che cosa insegno a fare? Se il mio scopo è trasmettere loro del sapere, che cosa se ne fanno, se tanto dispongono già  di molte altre informazioni, persino di carattere culturale, reperibili con facilità  anche grazie alle nuove tecnologie? Non di rado loro stessi a lezione si mostrano poco interessati di fronte a un pugno di notizie in più. La questione è pertanto radicale: qual è la ragion d'essere di una scuola superiore, oggi?

Innanzitutto mi è chiara una cosa: la scuola non può esistere solo per erogare informazioni, perché oggi i ragazzi queste se le vanno a prendere tranquillamente altrove, e una scuola che si accontenti così si abbassa al livello della mera informazione usa e getta, che non dice niente di nuovo a un giovane. Eppure qualcosa bisogna trasmettere; io ritengo che siano tre gli oggetti del fare scuola. Il primo è un insieme di contenuti, cioè proprio di informazioni e nozioni, ma forti, ossia qualificati, importanti. Quando ad esempio pensiamo di dover leggere un testo in classe "perché c'è nel manuale e fa parte del programma" abbiamo già  perso in partenza; le direttive vanno di certo rispettate, ma esiste anche una ragione - pur piccola, ma interessante - per cui ha senso dedicare del tempo a un certo brano? Altrimenti è tempo sprecato. 

In secondo luogo, la scuola ha il pregio di poter fornire un metodo di lavoro (quante volte se ne parla a vanvera!), che insegni a osservare, ad analizzare nelle singole parti un oggetto, e a trarne uno sguardo d'insieme significativo, cioè una sintesi. Questo nessun mezzo d'informazione potrà  produrlo, e nemmeno gli studi da autodidatta di un adolescente.

Terzo compito della scuola è l'insegnare a cogliere i nessi tra gli oggetti di studio proposti, cioè il far crescere la capacità  di individuare il significato. E su questo aspetto, o si lavora seriamente da (e, auspicabilmente, tra) insegnanti, oppure nessun sistema di nozioni e quiz, e men che meno informazioni racimolate altrove, potranno mai far crescere un giovane.

Da ultimo vorrei rispondere allo sconforto che prende – credo – parecchi insegnanti, come prende spesso me, di fronte alle condizioni oggettivamente caotiche in cui si trovano molte scuole, per quanto riguarda il piano formativo e l’orizzonte culturale angusto e funzionalista in cui si deve operare. Ho sentito una volta un collega con una lunga carriera alle spalle affermare che ormai, visto il livello medio-basso delle classi, si può solo fissare degli “obiettivi minimi” nella speranza di portare a casa almeno quelli. 

Ecco, io non credo negli obiettivi minimi come somma aspirazione didattica e culturale, anzi, sono proprio contrario. Senza essere idealista, so bene che ogni insegnante deve calare il proprio entusiasmo, le proprie conoscenze e la propria didattica nella specifica istituzione all’interno della quale lavora; perciò magari in una scuola non è possibile proporre un insegnamento così approfondito come invece – grazie al quadro orario, alla direzione, a certi colleghi e alla pasta umana e intellettuale degli studenti – si può fare altrove. E non penso che, per contrastare gli obiettivi minimi, si debbano proporre argomenti “massimi”, cioè difficili. Sono però convinto che quanto più una scuola ha un’offerta formativa di basso profilo, dispersiva e poco organica (un bel calderone in cui si studiacchia di tutto e non si impara niente, per dirla tutta), tanto più bisogna puntare su contenuti alti ed essenziali: alti, cioè che stimolino l’intelligenza a uscire dall’ovvietà con cui si ricevono le informazioni da molte altre fonti; e allo stesso tempo essenziali, perché fondativi di una materia (in questo senso, sì, minimi). 

Credo proprio che questo investire su ciò che è di valore sia l’unico vero antidoto allo scadimento generalizzato della didattica. Tanto per fare un esempio, io leggerò a breve a una classe di maturità una paginetta di Romano Guardini sul perché vale la pena di fare l’università: non è che la mia lezione, di per sé, cambierà in meglio la vita e la cultura dei miei studenti, ma di certo proporre uno spunto significativo di riflessione ha qualche probabilità di lasciare un buon segno in uno studente. Mi torna alla mente il motto del mio professore di lettere, che diceva così del compito della scuola: non multa, sed multum, cioè non bisogna insegnare molte cose, ma cose di molto valore. 

Da ultimo vorrei rispondere allo sconforto che prende – credo – parecchi insegnanti, come prende spesso me, di fronte alle condizioni oggettivamente caotiche in cui si trovano molte scuole, per quanto riguarda il piano formativo e l’orizzonte culturale angusto e funzionalista in cui si deve operare. Ho sentito una volta un collega con una lunga carriera alle spalle affermare che ormai, visto il livello medio-basso delle classi, si può solo fissare degli “obiettivi minimi” nella speranza di portare a casa almeno quelli. 

Ecco, io non credo negli obiettivi minimi come somma aspirazione didattica e culturale, anzi, sono proprio contrario. Senza essere idealista, so bene che ogni insegnante deve calare il proprio entusiasmo, le proprie conoscenze e la propria didattica nella specifica istituzione all’interno della quale lavora; perciò magari in una scuola non è possibile proporre un insegnamento così approfondito come invece – grazie al quadro orario, alla direzione, a certi colleghi e alla pasta umana e intellettuale degli studenti – si può fare altrove. E non penso che, per contrastare gli obiettivi minimi, si debbano proporre argomenti “massimi”, cioè difficili. Sono però convinto che quanto più una scuola ha un’offerta formativa di basso profilo, dispersiva e poco organica (un bel calderone in cui si studiacchia di tutto e non si impara niente, per dirla tutta), tanto più bisogna puntare su contenuti alti ed essenziali: alti, cioè che stimolino l’intelligenza a uscire dall’ovvietà con cui si ricevono le informazioni da molte altre fonti; e allo stesso tempo essenziali, perché fondativi di una materia (in questo senso, sì, minimi). 

Credo proprio che questo investire su ciò che è di valore sia l’unico vero antidoto allo scadimento generalizzato della didattica. Tanto per fare un esempio, io leggerò a breve a una classe di maturità una paginetta di Romano Guardini sul perché vale la pena di fare l’università: non è che la mia lezione, di per sé, cambierà in meglio la vita e la cultura dei miei studenti, ma di certo proporre uno spunto significativo di riflessione ha qualche probabilità di lasciare un buon segno in uno studente. Mi torna alla mente il motto del mio professore di lettere, che diceva così del compito della scuola: non multa, sed multum, cioè non bisogna insegnare molte cose, ma cose di molto valore.