La professione degli insegnanti. di Benedetto Vertecchi, Tuttoscuola, XXXVIII, 528, 2013, pp. 12-13 Strano paese è il nostro. Si afferma con uguale convincimento tutto e il suo contrario, all’unica condizione che si tratti di aspetti del tutto marginali nel quadro complessivo dell’educazione. Così, per esempio, non si risparmiano riconoscimenti ad alcune figure da tempo dimoranti sull’Olimpo della scuola perché si è ben consapevoli che si tratta di modelli che è improbabile possano essere replicati. Mario Lodi, Albino Bernardini o Alberto Manzi (il mio maestro quando frequentavo la scuola elementare) sono grandi figure di educatori, alle quali si continua a guardare con ammirazione, ma che si è consapevoli di quanto siano lontani dal modo in cui si svolge oggi la professione degli insegnanti. Se si dovesse, infatti, collocare su una scala i tre maestri appena ricordati, non c’è dubbio che dovrebbero essere posti, anche se per ragioni diverse, nella posizione più alta. Ma è altrettanto certo che sarebbe difficile immaginare personaggi che possiedano ln una misura intermedia le loro caratteristiche: in altre parole, Lodi, Bernardini o Manzi hanno onorato al meglio la loro professione, ma è difficile considerarli modelli di riferimento per quella grande maggioranza degli insegnanti che nella scala ipotizzata si colloca in una posizione meno elevata, anche se di poco. Paradossalmente, sarebbe più agevole utilizzare la triade che occupa l’estremità positiva della scala per definire l’estremità opposta, quella negativa, dove potrebbero collocarsi (è una eventualità che si può prendere in considerazione senza che nessuno abbia a pendersela a male, considerando che si sta parlando di una professione praticata da molte centinaia di migliaia di persone) quanti sono in più evidente contraddizione con i profili – culturali, sociali e affettivi – dei personaggi presi a riferimento. Eppure, non dovrebbe sfuggire a nessuno che il livello al quale una determinata professione è esercitata si definisce a partire dal modo in cui essa è praticata più di frequente. Le eccezioni, se positive, sono da considerarsi alla stregua di prototipi, importanti ma di scarsa utilità fino a quando non si trova il modo di replicarli in condizioni correnti. D’altra parte, se si tratta di eccezioni negative, ci si trova di fronte a limiti nella definizione dell’identità professionale, che si possono associare a difetti di creatività e di motivazione. La retorica corrente sulla professione degli insegnanti fa un uso sostanzialmente moralistico di figure come quelle Lodi, Bernardini o Manzi. Implicitamente, si rimprovera agli insegnanti di non dimostrare la stessa capacità di curvare i percorsi educativi in una direzione desiderata. Ma sarebbe come rimproverare agli architetti di non essere tutti al livello di Gae Aulenti (è questa un’occasione per rendere omaggio alla sua memoria) o Renzo Piano (al quale auguro sempre nuovi successi). È un moralismo che serve a nascondere a ricacciare sugli insegnanti responsabilità che, invece, debbono essere addebitate all’inadeguatezza delle scelte politiche relative sia all’assetto generale del sistema scolastico e agli intenti da esso perseguiti, sia alle omissioni, o all’ignavia (è l’ipotesi peggiore), che hanno caratterizzato le decisioni riferibili all’accumulazione conoscitiva e alla predisposizione delle strutture di contorno che sarebbero state necessarie per consentire di esercitare la professione di insegnante al livello richiesto dalle trasformazioni culturali, sociali ed economiche delle società contemporanee. L’eccesso di personalizzazione nel confronto sui profili professionali potrebbe far pensare al permanere di modelli d’insegnamento basati soprattutto sull’interazione fra insegnanti e allievi, e che tale interazione continui a essere perseguita anche quando si mostri di non essere del tutto convinti dei risultati che possono essere conseguiti. Ma non è così. La medesima enfasi si ritrova nel modo in cui si addita nella modernizzazione strumentale la via d’uscita dalla crisi che il sistema educativo sta attraversando. Si può pensare che, almeno in parte, il ricorso a modelli freddi sia una conseguenza della caduta di tensione ideale che in altre fasi dello sviluppo del nostro sistema educativo aveva favorito l’emergere di grandi figure di insegnanti, ma una simile interpretazione non giustifica la disinvoltura con la quale si stanno sostituendo al vertice della scala manifestazioni di creatività soggettiva con risorse che sono espressione di una razionalità reificata. Anche in questo caso, non si tiene in conto la realtà costituita dalle condizioni in cui si svolge l’attività quotidiana degli insegnanti (è del tutto da dimostrare che una razionalità reificata possa offrire riferimenti per la pratica comune dell’insegnamento, così come si era rilevato nel caso delle figure dei grandi maestri), ma si colloca nella posizione più elevata una nozione astratta dell’attività educativa. E si tratta di una nozione astratta non solo perché prescinde dalle contraddizioni che comunque si presentano nelle situazioni reali in cui si pratica l’educazione scolastica, ma perché non può dar luogo, anche se lo si volesse, all’iterazione delle proposte nel tempo, per la semplice ragione che la validità del macchinario e dei contenuti che si vogliono comunicare tramite la sua utilizzazione è sempre più breve e, in ogni caso, non dipende da scelte effettuate in modo autonomo da posizioni dominate da preoccupazioni culturali e educative, ma solo da interessi economici. Non si può neanche dire che nella sostituzione delle risorse si segua la logica dei progressi conseguiti dalla ricerca tecnologica, perché quelli proposti alle scuole sono mezzi già del tutto maturi dal punto di vista merceologico: le scuole li acquisiscono quando stanno per essere sostituiti, vanificando così gran parte dell’impegno di quanti si adoperano per integrare il nuovo strumentario con le altre opportunità di promuovere l’istruzione che la didattica è venuta accumulando attraverso il tempo. C’è da chiedersi quanto sia responsabile disperdere nelle scuole il tempo e l’intelligenza di bambini e ragazzi per produrre apprendimenti caduchi e di minimo spessore, senza preoccuparsi di rilevare quanto e come si stiano modificando i loro profili culturali di medio e lungo periodo. Può anche darsi che le tendenze in atto siano da preferire agli scenari di immobilità che l’educazione troppe volte ha fornito. Ma si deve anche avere il coraggio di affermare che gli usi linguistici sempre più sciatti, la distanza crescente fra il pensiero e l’azione, la perdita di autonomia nella possibilità di effettuare operazioni mentali siano da considerare una prospettiva di progresso e, in ogni caso, siano la prospettiva verso la quale si vuole muovere. Se non c’è chiarezza sugli intenti da perseguire per il lungo termine non ci può essere neanche chiarezza sulle soluzioni da introdurre nell’immediato. Nel profilo degli insegnanti non potrà che prevalere l’incertezza che ha condotto a definire percorsi di studio per la preparazione all’insegnamento che sono un miscuglio di argomentazioni parenetiche e di saperi filiformi. L’infelice sortita del governo sull’orario di lavoro degli insegnanti ha riaperto il dibattito sul profilo professionale degli insegnanti. C’è da augurarsi che sia un dibattito senza fughe dalla realtà, che non si limiti a bruciare granelli d’incenso per celebrare questo o quel talento eccezionale o che eluda i problemi reali cercando rifugio dietro i nuovi totem strumentali. Non entro in questioni che riguardano aspetti formali dei rapporti di lavoro nelle scuole. Altri possono farlo con una competenza certamente maggiore. Non posso, invece, passare sotto silenzio l’offesa implicita nella proposta. Le melasse ideologiche sulla rilevanza sociale dell’educazione hanno mostrato di essere quello che sono: espedienti per rendere tollerabile il declassamento della professione. |