Le difficoltà della…
...difficile scommessa di Raffaele Laporta!

Attualità della proposta avanzata da Raffaele Laporta 42 anni fa!*

di Maurizio Tiriticco Educazione & Scuola 18.6.2013

“Esiste una diffusa pratica di ‘educatori’ che non hanno rispetto per la libertà dei loro educandi; anzi, si può affermare che una gran parte della riflessione sull’educazione abbia all’origine proprio constatazioni relative ai danni prodotti da un tale tipo di pratica”

Raffaele Laporta, “L’assoluto pedagogico”, p. 257

 

La temperie del dopoguerra e degli anni Cinquanta

Nell’immediato dopoguerra, in un Paese distrutto e con una grande ansia di tornare alla normalità e di ricostruire, si hanno più spinte per quanto riguarda la scuola e l’occupazione. Le più significative sono le seguenti:
- dopo il ventennio della dittatura fascista si avverte il problema di una scuola che deve istruire più che… “educare” agli ideali fascisti! Nel nuovo scenario democratico il Ministero dell’Educazione Nazionale, istituto nel 1929, torna ad essere il Ministero della Pubblica Istruzione, come era stato istituito fin dal 1861, con l’avvio dell’Unità nazionale;
- dai Paesi più avanzati del nostro si propongono i primi suggerimenti relativi a promuovere un’istruzione aperta a tutti e per più anni di età: sono i prodromi di quella che poi si chiamerà l’Educazione Permanente, “dalla culla alla tomba”
- ha inizio l’esperienza di Scuola-Città Pestalozzi di Firenze, fondata nel 1945, scuola statale sperimentale, primaria e secondaria di primo grado, di norma “di differenziazione didattica”, di fatto un crogiolo di sperimentazioni di avanguardia. La dirige Ernesto Codignola; il suo motto è “Festina lente”: procedere con fermezza ma con i tempi necessari;
- si avverte l’esigenza di riavviare una ricerca pedagogica interrotta con il fascismo e l’attualismo di Gentile; si ritorna per certi versi all’attivismo laico, per altri allo spiritualismo cattolico;
- nel 1945 si varano i primi programmi della scuola elementare. Si avverte l’influenza di Charleton Washburne e della “scuola di Winnetka”; i programmi sono chiaramente laici e, di fatto, sono in larga misura osteggiati dai cattolici.

La situazione culturale nel nostro Paese è estremamente arretrata. Sono ancora larghe le fasce degli analfabeti e la ricerca educativa di fatto non esiste. Con il fascismo e con il razzismo di Stato il fondamento dell’educazione era la mistica del fascismo! Con l’esaltazione patriottarda e dell’“imperialismo straccione”! E la galera e il confino per gli oppositori!

Il da fare è enorme e non solo per la scuola dei piccoli.

Nel 1947 un gruppo di studiosi fonda l’UNLA, Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo. Ne è presidente Francesco Saverio Nitti; altri nomi illustri sono: Arangio Ruiz, Salvatore Valitutti, Anna Lorenzetto, Saverio Avveduto.

E nel 1949 il largo pubblico conosce per la prima volta Dewey, ovviamente volutamente misconosciuto dal fascismo e dall’etica gentiliana. Enzo Enriquez Agnoletti e Paolo Paduano (con la sovrintendenza di Lamberto Borghi) traducono per La Nuova Italia di Firenze “Democrazia e Educazione”, che aveva visto la luce a New York nel lontano 1916.

Negli anni Cinquanta, dopo la Ricostruzione, esplode un vero e proprio boom economico. Nel 1955 la Fiat lancia la Seicento, l’automobile che sarà prodotta fino al 1969 e sarà acquistata da tutti gli Italiani. In quegli anni le lotte dei contadini e degli operai saranno molto forti e segnano una forte tensione finalizzata al definitivo riscatto sociale e culturale della popolazione.
Le classi meno abbienti chiedono cultura per i loro figli: il trinomio classico della seconda metà dell’Ottocento “leggere, scrivere e far di conto” è garanzia di un riscatto culturale, di un diploma e di un lavoro dignitoso e – per certi versi – “intellettuale”. Quel contadino del Sud, soprattutto, che ai tempi della prima scuola dell’obbligo (leggi Casati e poi Coppino: seconda metà dell’Ottocento) non voleva mandare i figli a scuola per non perdere le loro “braccia” nel lavoro dei campi, negli anni Cinquanta del Novecento, invece, esige la scuola per i suoi figli, e la sua grande ambizione è quella di “avere il figlio professore”.
Vengono “scoperti” gli appunti e gli scritti a cui Antonio Gramsci aveva atteso nella sua lunga prigionia. E i “Quaderni del carcere” cominciano a vedere la luce a partire dal 1948: peculiare fu l’edizione critica che ne fece Valentino Gerratana. I Quaderni, oltre alle riflessioni sulla nostra storia, civiltà e costumi, costituiscono anche un alto esempio di educazione laica.
È in tale temperie che nel 1955 sono varati i nuovi Programmi Ermini della scuola elementare: si ha una sorta di riscossa congiunta dello spiritualismo di Maritain e del pensiero pedagogico cattolico. La riflessione sui problemi dell’educazione ha il suo avvio. Nei nuovi programmi si sostiene la tesi del “fanciullo tutto intuizione, fantasia e sentimento”; e “la religione cattolica costituisce il coronamento e il fondamento della formazione scolastica”.
Raffaele Laporta, già attivo nell’attività educativa e nella ricerca pedagogica, nel 1957 è chiamato a dirigere la Scuola-Città Pestalozzi.

 

Il CONTESTO IN CUI NASCE LA DIFFICILE SCOMMESSA DI RAFFAELE LAPORTA

Gli anni Sessanta

Negli anni del boom socioeconomico e dell’impennata della domanda di istruzione si ha una forte iniziativa della politica nei confronti della scuola.
Con la legge 1859 del 1962 l’obbligo di istruzione, che fino a quell’anno riguardava la sola scuola elementare, viene innalzato di tre anni, fino ai 14 anni di età.
Nasce la cosiddetta “scuola media unificata”. In effetti, la vecchia scuola media triennale, istituita dal ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai (la riforma fascista avviata con la cosiddetta “Carta della Scuola” del 1939) viene unificata con le scuole di avviamento al lavoro, a suo tempo cancellato dalla riforma Bottai e “restaurato” nell’immediato dopoguerra per rispondere alle nuove necessità di quel lavoro manuale richiesto dalle attività della Ricostruzione.

Si comincia a discutere su quali siano le finalità della scuola in una società democratica e bisognosa di conoscenze e di cultura. In effetti nella nuova scuola media unificata si boccia, in quanto in essa non è stata attuata alcuna iniziativa finalizzata a un rinnovamento dei metodi di insegnamento e di studio. L’unica innovazione, per altro non significativa sotto il profilo metodologico, è quella dell’abolizione dello studio del latino, considerato una sorta di strumento di selezione culturale e sociale.
Si segnala il “maestro” Bruno Ciari, con un libro profondamente innovativo: “Le nuove tecniche didattiche”, del 1961.
E nel 1963 un giovane studioso, Tullio De Mauro, pubblica per Laterza la “Storia linguistica dell’Italia unita”.

Per la prima volta gli strumenti dell’analisi linguistica strutturale sono utilizzati per studiare l’evolversi della nostra lingua e della nostra cultura, considerate nel loro insieme e nel loro uso da parte delle diverse classi sociali. Un’opera che i cosiddetti benpensanti non capirono, ma che fu di estrema utilità nella ricerca, da parte di tanti insegnanti motivati, soprattutto nella scuola dell’obbligo, di come operare concretamente per “insegnare l’italiano” o meglio per fare apprendere la nostra lingua.

Negli stessi anni il Comune di Reggio Emilia organizza una rete di servizi educativi con cui si aprono i primi asili per bambini dai 3 ai 6 anni. Ne è animatore Loris Malaguzzi. Nasce così quella scuola per l’infanzia emiliana che tutto il mondo ci ha invidiato.

In quel periodo Raffaele Laporta riflette sulla natura di classe della scuola e avverte come questa debba costituire, invece, un appannaggio dell’intera comunità sociale. Nel 1963 pubblica, per La Nuova Italia, “La comunità scolastica”: una temperie di ricerca e di spunti fortemente innovativi, di riflessioni e di studi. Un crogiolo di idee che ha permesso alla nostra ricerca pedagogica e alla nostra attività educativa poderosi balzi in avanti!

La nuova scuola media parte con l’anno scolastico 1963/64, ma… fioccano le “bocciature”. La nuova scuola, nonostante le grandi attese, boccia invece di promuovere!
Perché?
Perché nessuna innovazione metodologica era stata apportata e fare accedere “nuove” leve di adolescenti provenienti da comparti sociali che da secoli non avevano “masticato” quella cultura borghese esclusiva e discriminante, significava soltanto umiliarli ed escluderli. Eppure esiste una cultura popolare degna di tutto rispetto, che ovviamente quella ufficiale aveva sempre misconosciuto.

È opportuno ricordare che proprio nel 1962 Carlo Salinari pubblica la “Storia popolare della letteratura italiana”: una ricerca attenta sul valore “colto” di tanta produzione “popolare” che una tradizione cosiddetta colta non ha mai voluto considerare! Di fronte alla bocciature della scuola media, i “reazionari” esultano. In effetti sono stati sempre contrari a una scuola aperta a tutti! E sostenevano che, se mandiamo a scuola tutti, creeremo soltanto una generazione di ignoranti, perché la scuola e lo studio non sono per tutti.

Possiamo ricordare che anche Pio IX aveva reagito pesantemente contro la scuola obbligatoria, avviata dalla Legge Casati del 1861, allora di soli due anni. E aveva scritto così al Re d’Italia:
“Maestà, non ho dato corso alla prima lettera qui unita, e che ho diretto a Vostra Maestà, perché il Sig. Ministro del Portogallo mi assicurò di aver scritto in proposito, ma non vedendo riscontro, invio a V.M. la stessa lettera. Vi unisco poi la presente per pregarLa a fare tutto quello che può affine di allontanare un altro flagello, e cioè una legge progettata, per quanto si dice relativa alla Istruzione Obbligatoria. Questa legge parmi ordinata ad abbattere totalmente le scuole cattoliche, soprattutto i seminari. Oh quanto è fiera la guerra che si fa alla religione di Gesù Cristo! Spero dunque che la V. M. farà si che, in questa parte almeno, la Chiesa sia risparmiata. Faccia quello che può, Maestà, e vedrà che Iddio avrà pietà di Lei. Lo abbraccio nel Signore” [Pio IX, Lettera a Vittorio Emanuele II, 3 gennaio 1870].

Occorre, invece ricordare e con forza che con la legge 1859/62 si attuavano i principi fondanti della nuova Carta costituzionale, varata alla fine del 1947, di cui agli articoli 2 e 3, che è opportuno ricordare:
Art. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Va ribadito che la nostra Costituzione repubblicana è quella di un Paese moderno, avanzato, colto soprattutto, e che non ha nulla a che vedere con lo Statuto albertino del 1848, che è ancora tipico di un Paese, anzi di un Regno, non di cittadini, ma di sudditi e di “regnicoli”, abitanti di un regno, profondamente diviso in classi sociali.

È in questo clima di profonda disillusione che interviene la ricerca pedagogica – dopo la sottovalutazione di cui aveva sofferto nel periodo fascista, contrassegnato dalla cultura e dall’idealismo gentiliani – a dare i primi suggerimenti per sostenere lo sforzo che si fa nelle scuole per “non bocciare”.

La pedagogia stessa comincia a riflettere su se stessa, sulla sua natura e sui suoi fini. In primo luogo si vuole riscattare dalla filosofia, nella cui area era stata confinata dalla cultura gentiliana, e si vuole porre come una nuova scienza a tutto tondo. Questo è anche il pensiero di Laporta! E di altri ricercatori di avanguardia! Si introduce il concetto di Scienza o di Scienze dell’educazione e Aldo Visalberghi ne individua oltre venti: tutte le psicologie, la sociologia, l’antropologia, la docimologia… ecc.

Sono anche gli anni in cui nasce la contestazione studentesca contro la “scuola dei padroni” e l’autoritarismo dei baroni. Contro una scuola che impone invece di proporre, che tende a estendere la cultura dominante invece di sollecitare la ricerca di una cultura nuova. Le lotte studentesche vanno da Berkley a Pechino, da Parigi a Roma. E interessano i giovani di tutto il mondo avanzato. È quel movimento che, com’è noto, culmina con le vicende del biennio 68/69!

Si avverte sempre più largamente la necessità che la società intervenga a sostenere la scuola nei suoi sforzi. Si comincia a parlare di scuola aperta al sociale (si va verso i decreti delegati del ’74), alla comunità, al territorio. Si accusa la scuola di non essere in grado di promuovere cultura, ma di essere capace solo di bocciare.

È in questa temperie di forti polemiche che esce la “Lettera a una Professoressa” di Don MIlani, del 1967. La scuola dell’obbligo è sotto attacco! Obbliga i bambini ad andare a scuola, ma poi non fa nulla per promuoverli. Ne offende cultura e intelligenza! Non li comprende. È ancora una scuola fatta solo per i figli dei borghesi e non per i figli degli operai e dei contadini. E li discrimina non appena aprono bocca.
Dice Don Lorenzo: “Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo. Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: Non si dice lalla, si dice aradio. Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola. ‘Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua’. L’ha detto la Costituzione”.

La fiera invettiva di Don Milani e dei suoi ragazzi viene sostenuta da ricerche sociologiche di tutto rispetto e puntualmente fondate nelle analisi che vengono condotte. Marzio Barbagli e Marcello Dei pubblicano “Le Vestali della classe media”, Il Mulino, 1969. Le vestali sono le professoresse, e i professori, della classe media piccolo-borghese, preoccupati più a difendere e a promuovere la loro cultura di classe che a intercettare le culture nuove di cui sono portatori i nuovi alunni obbligati.

Il clima lungo tutti gli anni Sessanta è molto teso: la cultura dominante è quella borghese. Così affermano il movimento studentesco e un congruo drappello del movimento insegnanti. La domanda di fondo è: che fare? Abbattere una certa cultura? Ma in nome di che? Avviare una nuova cultura, ma come e in quale direzione? E la scuola? Va cambiata? È possibile cambiarla? Va distrutta? Oppure occorre che dell’istruzione si faccia carico la società nel suo insieme, la comunità, o meglio l’insieme delle comunità delle città e delle campagne?
E poi c’è il problema del Sud del Paese, con la sua secolare arretratezza.

Nel 1965, con la legge 717, nasce la Cassa del Mezzogiorno e, con essa, nascono in tutte le Regioni del Sud, in Calabria soprattutto, i Centri di servizi culturali. Nel Meridione si segnala il Movimento di Collaborazione Civica, di cui Raffaele Laporta è uno dei responsabili. Il Movimento è diretto da Ebe Flamini; ne fanno parte lo scrittore Augusto Frassineti, l’educatore Cecrope Barilli, già attivo nei Cemea, Centri d’Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva.
In quegli anni, tra le citate azioni in favore del Meridione, nasce anche l’Università della Calabria (1972), con sede ad Arcavacata di Rende, Cosenza. Ne è convinto animatore Raffaele Laporta.
Nella temperie di pubblicazioni sull’istruzione e sulla scuola va ricordata la pubblicazione nel 1968 de “La pedagogia degli oppressi” di Paulo Freire, pedagogista brasiliano: viene proposta la cosiddetta teologia della liberazione, ovvero l’educazione come strumento di liberazione.

È importante ricordare come in quegli anni si fronteggiassero due tesi diametralmente opposte, anche se le sfumature, ovviamente, non mancavano. Da un lato vi era il movimento studentesco che sosteneva che quella scuola, quella università fossero irriformabili e dovessero essere distrutte in quanto portatrici per natura e vocazione della cultura dominante, per se stessa di classe e repressiva. Dall’altra altri movimenti sostenevano, invece, che la cultura e l’istruzione potessero diventare strumenti di liberazione e di emancipazione sociale.

Ma se questa tesi era da sostenere, a quali condizioni la scuola poteva diventare strumento di liberazione?
Solo se l’istruzione e la cultura fossero proposte non da istituzioni a ciò dedicate, ma dall’intera comunità sociale del territorio. E si tratta della tesi a cui Laporta prima si avvicina e che poi sostiene con convinzione profonda. Pur sapendo però che non sarà affatto cosa facile restituire la scuola alle comunità. In effetti si tratterà… di una scommessa… molto molto difficile!

 

Gli Anni Settanta

Gli Anni Settanta non sono affatto da meno per quanto riguarda la discussione sulla scuola e sul suo valore o disvalore sociale e culturale.

Nel 1970 viene pubblicato in Italia il saggio di Louis Althusser, “Ideologia e apparati ideologici di Stato”: l’autore sostiene che la scuola non libera affatto i suoi alunni, ma li omologa ai valori della cultura dominante. La scuola ha di per sé una natura solamente classista! È un perfetto strumento di conservazione sociale.

Da altre parti, però, si sostiene che i nuovi nati non possono non essere “educati”. Ma si tratta di un compito che la società nel suo insieme, nelle sue diverse istituzioni e strutture, deve assumere. In effetti, non è la scuola, ma la società stessa che può e deve essere educante!
Un primo passo è quello di creare una scuola a tempo pieno. E questa nasce nel nostro Paese con la legge 820 del 1971. Ma sarà sufficiente una scuola a tempo pieno? Non sarà necessario attivare anche una scuola a spazio aperto? Una scuola aperta sul sociale e sulle sue problematiche?

Si avverte largamente la necessità di dar vita a una scuola “aperta” anche e soprattutto sotto il profilo ideologico e culturale. E che, ovviamente, non perda le sua caratteristiche fondanti di prima istituzione inculturante e acculturante. E una scuola essenzialmente lontana da qualsiasi manipolazione ideologica, palese o nascosta.
Di qui le posizioni fortemente critiche nei confronti dell’insegnamento obbligatorio della religione cattolica, anche in considerazione del fatto che i Patti Lateranensi sono entrati di diritto – anche se dopo accesissime discussioni all’interno dell’Assemblea Costituente – nella nostra Carta Costituzionale. Due concetti forti costituiscono motivi di interessanti e vivaci dibattiti: la Laicità e la Pubblicità della scuola.

In questo clima convulso, ma ricco di stimolanti dibattiti, Raffaele Laporta pubblica “Educazione sociale”, nel 1970. Sono i prodromi di un successivo volume, quello che farà storia, “La difficile scommessa”.

In tale scenario così ricco di idee, non possiamo non ricordare le posizioni dei cosiddetti “descolarizzatori”, Paul Goodman, Everett Reimer e Ivan Illich, che con “Descolarizzare la società”, del 1972, vanno oltre una scuola aperta. Sostengono che la scuola come istituzione non solo non ha più senso, ma non può neanche rispondere ai nuovi bisogni di conoscenza, di educazione, di cultura. Essi affermano con estrema chiarezza: chiudiamo le scuole e affidiamo i processi di insegnamento e apprendimento al sociale e alle sue istituzioni.

E motivo discriminante per la selezione sociale che da sempre divide uomini e gruppi è la lingua, lo strumento di discriminazione più potente. E allora come insegnare la lingua? Con la grammatica di sempre?

Una risposta coraggiosa viene data. A questo proposito non possiamo dimenticare l’interessante e dirompente contributo per l’insegnamento linguistico nella scuola per l’infanzia e per quella elementare che viene offerto dalla “Grammatica della fantasia, introduzione all’arte di inventare storie”, di Gianni Rodari, edito per Einaudi nel 1973. La lingua si apprende parlando! E, quando si è piccoli, l’invenzione è sovrana, e costruire storie è il modo migliore per costruire linguaggio. Questo l’insegnamento di Rodari, arricchito da pagine suggestive, tutte tese a suggerire le infinite tecniche dell’invenzione. Quindi, prima e dopo la grammatica delle regole, c’è la grammatica della fantasia! Una grammatica costruita più che appresa!

Chiudiamo queste note con due opere, assolutamente agli antipodi, ma che ci danno il senso di quel vivace dibattito che caratterizza tutto il decennio del 1970. Da un lato la ricerca di due sociologi francesi, Pierre Bourdieu e Jean Claude Passeron, “La Riproduzione del sistema scolastico ovvero della conservazione dell’ordine culturale”, del 1972.
Gli autori non nutrono alcuna speranza: la scuola ha un solo fine, quello di riprodurre ideologie, valori e credenze della società che la esprime e che l’ha istituzionalizzata. La scuola è solo uno strumento di conservazione e di riproduzione sociale. Dall’altro lato, invece, Edgar Faure pubblica nel 1972, per conto dell’Unesco, un rapporto all’insegna del più fiducioso ottimismo, più noto come Rapporto Faure, intitolato “Apprendere ad essere”. La visione ottimistica e forse un po’ ingenua di un Paulo Freire trova corpo in un documento di politica dell’educazione che lancia una sfida ai governi di tutti i Paesi del mondo.
Nel Rapporto la visione catastrofistica delle finalità della scuola e dell’istruzione vengono a cadere in ordine a un approccio diverso che viene condotto non tanto sulla scuola, ma sui fini generali dell’educazione. I rischi che si corrono non sono nella scuola in sé, ma nel fatto che l’evoluzione delle tecnologie – che in quegli anni stavano compiendo il loro primo balzo – se condotta senza la considerazione e lo sviluppo di un solido retroterra culturale e civile, rischierebbe di mettere in ombra quello sviluppo civile che è il cardine della nostra civiltà. Pertanto, l’educazione deve assumere il suo ruolo per consentire a ciascun cittadino di affrontare e risolvere i problemi personali e del suo gruppo e di assumere quelle decisioni che siano garanti di uno sviluppo che sia nel contempo scientifico, tecnico e civile.
Il Rapporto ebbe un lusinghiero successo, in quanto permise di ricollocare in un’ottica corretta e produttiva il problema dell’educazione e della scuola al termine del Secondo Millennio.


L’azione e il pensiero di Raffaele Laporta: Scuola sì! Scuola no! Scuola come!

Una scuola che provenga dal sociale e appartenga al sociale, ma… come? Si tratta in verità di una scommessa, anzi di una “Difficile Scommessa”! È il saggio più significativo di quegli anni nel nostro panorama pedagogico. Esce nel 1971 per La Nuova Italia ed è dedicato alla memoria di Bruno Ciari, scomparso l’anno precedente.

Laporta scrive nel pieno della contestazione studentesca. Ne coglie il significato profondo e lo comprende, ma… ritiene che rifiutare la “scuola dei padroni” e l’“università dei baroni” – per noi suoi allievi lui era il “barone rosso” – non significa e non deve significare un rifiuto tout court dell’istruzione e dell’educazione.
La questione è un’altra!
La scuola, o meglio l’istruzione e i suoi processi vanno sottratti all’istituzione, qualunque essa sia – nel caso italiano, a un ministero – e consegnati alla società nel suo insieme. Ma come? È qui il nodo della scommessa: è la società stessa e nel suo tessuto di istituzioni e organizzazioni che può insegnare ed educare, ma vanno ricercate insieme – dal basso e dall’alto – le nuove fonti e le nuove responsabilità che siano in grado di orientare e governare i processi formativi.
In effetti i descolarizzatori sono più incisivi nella loro proposta. Ma Laporta non è un descolarizzatore, anzi è uno scolarizzatore a tutto campo, ma… quale proposta concreta si può avanzare in merito? Laporta non lo dice, riconosce però che è una sfida, una scommessa, e di un’estrema difficoltà. È qui la grandezza e il limite del pensiero laportiano agli inizi degli anni Settanta.
Ma il suo pensiero non è isolato! In effetti interpreta una esigenza che in quegli anni prende sempre più corpo, giorno dopo giorno, in vasti settori della popolazione, soprattutto di quella parte che è rimasta esclusa dai processi di educazione, istruzione e formazione. Basta fare un rapido calcolo: la scuola media obbligatoria è partita dall’anno scolastico 1963/64 e i primi esami terminali si sono effettuati nella tornata del 1967. E le bocciature erano fioccate numerose. E non a caso è dello stesso ’67 la “Lettera a una professoressa” di Don Milani. Un gran numero di quattordicenni dal ’67 in poi erano stati esclusi da quell’istruzione obbligatoria che invece la stessa Carta costituzionale auspicava. E non fu un caso che proprio agli inizi degli anni Settanta maturò nella classe operaia e nella sua parte più avanzata l’esigenza che la “scuola” venisse “riaperta” per tutti coloro che ne erano stati esclusi.


Ma procediamo con ordine seguendo lo sviluppo del pensiero di Laporta.

Egli avverte la problematicità della situazione. Va considerato che la società è quella che è, che lo stesso “autoritarismo della scuola corrisponde all’autoritarismo della società” (p. 4). “Il problema del controllo dei rapporti interpersonali è sempre in ogni caso un problema di educazione… I rapporti interpersonali consistono nella maggior parte dei casi in ciò che un individuo fa all’altro ancor prima che in ciò che pensa e gli dice” (p. 5). “L’educazione è dunque assicurare che nel rapporto interpersonale ogni persona venga protetta. Il rapporto educativo è al centro dell’educazione quando questa diviene intenzionale. In essa chi insegna ha poteri che chi deve imparare non ha ancora, ma vuole e deve conseguire. Il rapporto educativo è un tipico rapporto fra disuguali che devono divenire uguali: dunque deve essere una pratica costante della uguaglianza. Insegnare intellettualmente l’uguaglianza attraverso messaggi verbali è inutile! Occorre farla vivere” (p. 7).

Ma non basta! L’educazione ha un grande nemico! “L’educazione ha avversaria implacabile l’ideologia… L’educazione non può fare a meno di sentirsi e di farsi scienza! L’educazione come scienza!… La politica è l’esito, non il presupposto di una scienza dell’educazione” (p. 36). Ne consegue questo indiscutibile assunto: “La libertà di insegnamento come strumento professionale e politico” (p. 49).

È l’intuizione laportiana che si collega alla domanda che sta emergendo da una gran parte del mondo di chi lavora e che avverte di non avere gli strumenti di lettura e di interpretazione di una società che per certi versi utilizza e sfrutta la sua parte più debole: la classe operaia.
Ne consegue che solo il conseguimento e il superamento della Scuola dell’obbligo costituiscono la base di una educazione ulteriore, quella che gli studiosi cominciano a chiamare educazione permanente, educazione per tutta la vita, “dalla culla alla tomba”.

E Laporta fa i suoi appunti anche agli insegnanti, o meglio a quegli insegnanti della tradizione, che sono funzionali a un certo tipo di scuola e a un certo tipo di società. “L’insegnante pretende dall’allievo comportamenti verbali e in qualche caso intellettuali imitativi dei propri, ripetitivi, conformi. I comportamenti emotivi, morali, sociali, estetico-critici e creativi, economici, gli sfuggono quasi sempre totalmente” (p. 217). “L’obbligare l’allievo a prestazioni intellettuali e soprattutto verbali ripetitive, l’impedirgli di acquisire condotte impegnative dell’intera personalità sono forme di violenza indipendenti da ogni altra violenza” (p. 218).

Sono gli anni in cui l’eco e i richiami di Mc Luhan sono molto forti (ricordiamo la sua famosa espressione: “il mezzo è il messaggio”): la pervasività dei mezzi di comunicazione di massa.
Sono anche gli anni in cui una certa cultura “di classe” rischia di produrre un uomo non libero, etero diretto.
In questa direzione si muove “L’uomo a una dimensione”, il famoso e prezioso volumetto di Herbert Marcuse che Einaudi aveva pubblicato nel 1964. Pertanto “le comunicazioni di massa costituiscono oggi uno dei problemi più complessi dal punto di vista educativo” (p. 214). E Laporta sottolinea anche una certa ambivalenza delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, che da un lato possono sollecitare educazione, dall’altro, però, assuefazione e violenza: “La violenza in educazione come condizionamento economico e intellettuale” (p. 234).

Il mondo del lavoro reclama cultura e non solo salari più alti, perché la conoscenza è strumento non solo di promozione professionale, ma anche di riscatto sociale. Ma sarebbe rischioso coniugare direttamente la cultura con la lotta sociale. Perché a volte la vera cultura poco o nulla ha a che fare con le lotte operaie e contadine.
E Laporta fa proprio un pensiero di Adler che “sostiene che in una società classista l’educazione neutra non esiste” (p. 284). Egli è per “una società che non contiene la scuola come una sua parte, ma la esercita direttamente, a tutto raggio pedagogico, su se stessa e per se stessa, come educazione permanente” (p. 331). E, in polemica con “L’Erba Voglio”, di Elvio Fachinelli, edito da Einaudi nel 1970, un autore fortemente schierato contro l’“autoritarismo” degli insegnanti, Laporta spezza una lancia a loro favore purché sia chiaro l’alto livello di professionalità che debbono raggiungere: “Se ci vogliono dieci anni per un aspirante medico per capire come funziona un corpo fisico, quanti ce ne vorrebbero per capire come funziona un essere umano intero?” (p. 333).

E giungiamo alla stagione delle 150 ore!

Nel 1973 viene sottoscritto il nuovo contratto di lavoro dei metalmeccanici. Il valore della scuola e dello studio era già stato riaffermato da Luciano Lama, grande segretario della Cgil dal 1970 al 1986. Con quel contratto per la prima volta nella storia sindacale viene introdotto per i lavoratori dipendenti un nuovo diritto a permessi che prevedono la sospensione dell’orario di lavoro fino a un massimo annuale di 150 ore per poter accedere a corsi di studio.
Il recupero degli anni perduti nella scuola “che boccia” viene così avviato in una nuova scuola, fatta su misura per chi dalla scuola è stato escluso e che ha bisogno di studiare con modi e criteri assolutamente nuovi e diversi da quelli noti nelle scuole di sempre.
L’insegnamento di Laporta si mostra come risorsa ineludibile per da vita a corsi di questo tipo. Concetti e strumenti della “programmazione educativa e didattica” e della “valutazione formativa” – per accennare ai fattori clou dell’innovazione – entrano a pieno titolo nei corsi serali delle 150 ore e provocano serie e produttive ricadute sui corsi mattutini della scuola di sempre. Strategie e strumenti nuovi per sollecitare e promuovere apprendimenti significativi sono largamente “inventati” e adottati nei corsi delle 150 ore che in quegli anni fecero storia.

La scommessa di insegnare e apprendere in una scuola diversa e nuova sembra non essere più tanto difficile.
I suggerimenti di Laporta e l’impegno anche dei suoi “alunni”, o meglio dei numerosi allievi della sua cattedra romana, hanno partita vinta!
La scuola del mattino comprende che ha molto da imparare dalla scuola della sera. E non è un caso che nel ’73 si giunge a quella legge delega n. 477, da cui discendono l’anno successivo quei famosi “decreti delegati” con cui si dà l’avvio al processo di democratizzazione della scuola.
Nascono quegli organi collegiali partecipati che ancora oggi sono vigenti nelle nostre istituzioni scolastiche autonome.
Si afferma quel principio che è l’intera comunità territoriale, con le sue istituzioni rappresentate nelle singole scuole, che deve concorrere a quelle complesse attività di educare, istruire e formare.

La lezione laportiana ha toccato il suo acme. Il resto è storia nota. La democratizzazione della scuola ha conosciuto fasi alterne, ora di grandi entusiasmi e attese, ora di profonde disillusioni. Ma qui si aprirebbe un altro discorso, che andrebbe oltre le intuizioni e le intenzioni di Laporta e della sua Difficile scommessa!

La riflessione sulla scuola e sulle sue finalità imbocca ormai nuove strade, quella soprattutto della società educante, che va oltre i nostri confini nazionali, che vede altri pensatori, altre organizzazioni, a livello europeo e internazionale. Ed è proprio al Congresso internazionale di Napoli, del 1974, “Verso un nuovo alfabeto: la società educante”, che Laporta presenta la sua relazione, ricca di nuove suggestioni e di nuove prospettive.

Ma qui sui aprirebbe un’altra storia! Oltre la scommessa, che ancora oggi non è stata vinta! Nonostante Laporta, il suo insegnamento, la sua scuola!

Altre pubblicazioni significative di Raffaele Laporta:

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“La via filosofica alla pedagogia”, 1975

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“L’autoeducazione delle comunità”, 1979

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“Educazione e scienza empirica”, 1980

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“L’assoluto pedagogico”, 2000

Organizzazioni e ambiti di ricerca, oltre le facoltà accademiche, in cui Raffaele Laporta è stato attivo:

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La Fnism, la Federazione nazionale italiana degli insegnanti medi

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I Cemea, i Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, con Cecrope Barilli

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Il Movimento di Cooperazione Educativa, nato nel 1951 sulla scia del pensiero pedagogico e sociale di Célestin ed Elise Freinet. Ne hanno fatto parte ricercatori illustri, tra cui Giuseppe Tamagnini, Ernesto Codignola, detto Pippo, Bruno Ciari, Mario Lodi

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Il Movimento di Collaborazione Civica con Ebe Flamini, Augusto Frassineti

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L’Adespi, l’Associazione per la difesa della scuola pubblica

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L’iniziativa per una ricerca antropopedagogica – un coraggioso neologismo – con il contributo di Vittorio Lanternari

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L’autoeducazione delle comunità – gli influssi di “La pedagogia degli oppressi” del brasiliano Paulo Freire

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Le riviste: “Scuola e Città”, “ Riforma della Scuola”, Orientamenti pedagogici”

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Il mosaico laportiano: i grandi valori; la storia e la politica; la sociologia e l’antropologia; l’epistemologia; le pratiche concrete (l’attivismo); la responsabilità della comunità

E per finire sul ruolo che Laporta ha avuto nella nostra storia educativa, si riportano queste riflessioni di Franco Cambi, redatte poco tempo prima della scomparsa del Maestro.
La riconferma del suo ruolo “l’ho ricevuta assai di recente (settembre 2000) durante un colloquio avuto con Laporta a Firenze, dove – tra altre cose – abbiamo parlato anche delle sue ricerche in corso, tra le quali mi ha indicato un nodo problematico della formazione (e dell’esistenza) posto al punto di incrocio tra coscienza, tempo e noia e rivolto a cogliere la specificità della ‘coscienza umana’ posta – col linguaggio – come il luogo del salto dal mondo animale a quello propriamente umano. La coscienza umana è coscienza, in particolare, del tempo (presente più passato più futuro), ha una struttura che fa interagire memoria e intenzionalità, che si incardina sulla continuità dell’esperienza temporale e sulla sua trascendenza rispetto al ‘tempo vissuto’. La noia, poi, leopardianamente, si pone proprio come l’atto di riflessione/interpretazione del senso/valore di questa temporalità, come ‘dispositivo’ metariflessivo e che, pertanto, si pone come apice della coscienza temporale”.

Da “Studi sulla formazione”, anno III, 2000, n. 2.

 

 

* La relazione di Maurizio Tiriticco in occasione del Convegno, del 17 maggio scorso, per l’intitolazione dell’Istituto Comprensivo Alto Orvietano di Fabro a Raffaele Laporta.
da education 2.0