Le difficoltà della… Attualità della proposta avanzata da Raffaele Laporta 42 anni fa!* di Maurizio Tiriticco Educazione & Scuola 18.6.2013 “Esiste una diffusa pratica di ‘educatori’ che non hanno rispetto per la libertà dei loro educandi; anzi, si può affermare che una gran parte della riflessione sull’educazione abbia all’origine proprio constatazioni relative ai danni prodotti da un tale tipo di pratica” Raffaele Laporta, “L’assoluto pedagogico”, p. 257
La temperie del dopoguerra e degli anni Cinquanta
Nell’immediato
dopoguerra, in un Paese distrutto e con una grande ansia di tornare
alla normalità e di ricostruire, si hanno più spinte per quanto
riguarda la scuola e l’occupazione. Le più significative sono le
seguenti: La situazione culturale nel nostro Paese è estremamente arretrata. Sono ancora larghe le fasce degli analfabeti e la ricerca educativa di fatto non esiste. Con il fascismo e con il razzismo di Stato il fondamento dell’educazione era la mistica del fascismo! Con l’esaltazione patriottarda e dell’“imperialismo straccione”! E la galera e il confino per gli oppositori! Il da fare è enorme e non solo per la scuola dei piccoli. Nel 1947 un gruppo di studiosi fonda l’UNLA, Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo. Ne è presidente Francesco Saverio Nitti; altri nomi illustri sono: Arangio Ruiz, Salvatore Valitutti, Anna Lorenzetto, Saverio Avveduto. E nel 1949 il largo pubblico conosce per la prima volta Dewey, ovviamente volutamente misconosciuto dal fascismo e dall’etica gentiliana. Enzo Enriquez Agnoletti e Paolo Paduano (con la sovrintendenza di Lamberto Borghi) traducono per La Nuova Italia di Firenze “Democrazia e Educazione”, che aveva visto la luce a New York nel lontano 1916.
Negli anni Cinquanta,
dopo la Ricostruzione, esplode un vero e proprio boom economico. Nel
1955 la Fiat lancia la Seicento, l’automobile che sarà prodotta fino
al 1969 e sarà acquistata da tutti gli Italiani. In quegli anni le
lotte dei contadini e degli operai saranno molto forti e segnano una
forte tensione finalizzata al definitivo riscatto sociale e
culturale della popolazione.
Il CONTESTO IN CUI NASCE LA DIFFICILE SCOMMESSA DI RAFFAELE LAPORTA Gli anni Sessanta
Negli anni del boom
socioeconomico e dell’impennata della domanda di istruzione si ha
una forte iniziativa della politica nei confronti della scuola.
Si comincia a discutere
su quali siano le finalità della scuola in una società democratica e
bisognosa di conoscenze e di cultura. In effetti nella nuova scuola
media unificata si boccia, in quanto in essa non è stata attuata
alcuna iniziativa finalizzata a un rinnovamento dei metodi di
insegnamento e di studio. L’unica innovazione, per altro non
significativa sotto il profilo metodologico, è quella
dell’abolizione dello studio del latino, considerato una sorta di
strumento di selezione culturale e sociale. Per la prima volta gli strumenti dell’analisi linguistica strutturale sono utilizzati per studiare l’evolversi della nostra lingua e della nostra cultura, considerate nel loro insieme e nel loro uso da parte delle diverse classi sociali. Un’opera che i cosiddetti benpensanti non capirono, ma che fu di estrema utilità nella ricerca, da parte di tanti insegnanti motivati, soprattutto nella scuola dell’obbligo, di come operare concretamente per “insegnare l’italiano” o meglio per fare apprendere la nostra lingua. Negli stessi anni il Comune di Reggio Emilia organizza una rete di servizi educativi con cui si aprono i primi asili per bambini dai 3 ai 6 anni. Ne è animatore Loris Malaguzzi. Nasce così quella scuola per l’infanzia emiliana che tutto il mondo ci ha invidiato. In quel periodo Raffaele Laporta riflette sulla natura di classe della scuola e avverte come questa debba costituire, invece, un appannaggio dell’intera comunità sociale. Nel 1963 pubblica, per La Nuova Italia, “La comunità scolastica”: una temperie di ricerca e di spunti fortemente innovativi, di riflessioni e di studi. Un crogiolo di idee che ha permesso alla nostra ricerca pedagogica e alla nostra attività educativa poderosi balzi in avanti!
La nuova scuola media
parte con l’anno scolastico 1963/64, ma… fioccano le “bocciature”.
La nuova scuola, nonostante le grandi attese, boccia invece di
promuovere! È opportuno ricordare che proprio nel 1962 Carlo Salinari pubblica la “Storia popolare della letteratura italiana”: una ricerca attenta sul valore “colto” di tanta produzione “popolare” che una tradizione cosiddetta colta non ha mai voluto considerare! Di fronte alla bocciature della scuola media, i “reazionari” esultano. In effetti sono stati sempre contrari a una scuola aperta a tutti! E sostenevano che, se mandiamo a scuola tutti, creeremo soltanto una generazione di ignoranti, perché la scuola e lo studio non sono per tutti.
Possiamo ricordare che
anche Pio IX aveva reagito pesantemente contro la scuola
obbligatoria, avviata dalla Legge Casati del 1861, allora di soli
due anni. E aveva scritto così al Re d’Italia:
Occorre, invece
ricordare e con forza che con la legge 1859/62 si attuavano i
principi fondanti della nuova Carta costituzionale, varata alla fine
del 1947, di cui agli articoli 2 e 3, che è opportuno ricordare: Va ribadito che la nostra Costituzione repubblicana è quella di un Paese moderno, avanzato, colto soprattutto, e che non ha nulla a che vedere con lo Statuto albertino del 1848, che è ancora tipico di un Paese, anzi di un Regno, non di cittadini, ma di sudditi e di “regnicoli”, abitanti di un regno, profondamente diviso in classi sociali. È in questo clima di profonda disillusione che interviene la ricerca pedagogica – dopo la sottovalutazione di cui aveva sofferto nel periodo fascista, contrassegnato dalla cultura e dall’idealismo gentiliani – a dare i primi suggerimenti per sostenere lo sforzo che si fa nelle scuole per “non bocciare”. La pedagogia stessa comincia a riflettere su se stessa, sulla sua natura e sui suoi fini. In primo luogo si vuole riscattare dalla filosofia, nella cui area era stata confinata dalla cultura gentiliana, e si vuole porre come una nuova scienza a tutto tondo. Questo è anche il pensiero di Laporta! E di altri ricercatori di avanguardia! Si introduce il concetto di Scienza o di Scienze dell’educazione e Aldo Visalberghi ne individua oltre venti: tutte le psicologie, la sociologia, l’antropologia, la docimologia… ecc. Sono anche gli anni in cui nasce la contestazione studentesca contro la “scuola dei padroni” e l’autoritarismo dei baroni. Contro una scuola che impone invece di proporre, che tende a estendere la cultura dominante invece di sollecitare la ricerca di una cultura nuova. Le lotte studentesche vanno da Berkley a Pechino, da Parigi a Roma. E interessano i giovani di tutto il mondo avanzato. È quel movimento che, com’è noto, culmina con le vicende del biennio 68/69! Si avverte sempre più largamente la necessità che la società intervenga a sostenere la scuola nei suoi sforzi. Si comincia a parlare di scuola aperta al sociale (si va verso i decreti delegati del ’74), alla comunità, al territorio. Si accusa la scuola di non essere in grado di promuovere cultura, ma di essere capace solo di bocciare.
È in questa temperie di
forti polemiche che esce la “Lettera a una Professoressa” di Don
MIlani, del 1967. La scuola dell’obbligo è sotto attacco! Obbliga i
bambini ad andare a scuola, ma poi non fa nulla per promuoverli. Ne
offende cultura e intelligenza! Non li comprende. È ancora una
scuola fatta solo per i figli dei borghesi e non per i figli degli
operai e dei contadini. E li discrimina non appena aprono bocca. La fiera invettiva di Don Milani e dei suoi ragazzi viene sostenuta da ricerche sociologiche di tutto rispetto e puntualmente fondate nelle analisi che vengono condotte. Marzio Barbagli e Marcello Dei pubblicano “Le Vestali della classe media”, Il Mulino, 1969. Le vestali sono le professoresse, e i professori, della classe media piccolo-borghese, preoccupati più a difendere e a promuovere la loro cultura di classe che a intercettare le culture nuove di cui sono portatori i nuovi alunni obbligati.
Il clima lungo tutti
gli anni Sessanta è molto teso: la cultura dominante è quella
borghese. Così affermano il movimento studentesco e un congruo
drappello del movimento insegnanti. La domanda di fondo è: che fare?
Abbattere una certa cultura? Ma in nome di che? Avviare una nuova
cultura, ma come e in quale direzione? E la scuola? Va cambiata? È
possibile cambiarla? Va distrutta? Oppure occorre che
dell’istruzione si faccia carico la società nel suo insieme, la
comunità, o meglio l’insieme delle comunità delle città e delle
campagne?
Nel 1965, con la legge
717, nasce la Cassa del Mezzogiorno e, con essa, nascono in tutte le
Regioni del Sud, in Calabria soprattutto, i Centri di servizi
culturali. Nel Meridione si segnala il Movimento di Collaborazione
Civica, di cui Raffaele Laporta è uno dei responsabili. Il Movimento
è diretto da Ebe Flamini; ne fanno parte lo scrittore Augusto
Frassineti, l’educatore Cecrope Barilli, già attivo nei Cemea,
Centri d’Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva. È importante ricordare come in quegli anni si fronteggiassero due tesi diametralmente opposte, anche se le sfumature, ovviamente, non mancavano. Da un lato vi era il movimento studentesco che sosteneva che quella scuola, quella università fossero irriformabili e dovessero essere distrutte in quanto portatrici per natura e vocazione della cultura dominante, per se stessa di classe e repressiva. Dall’altra altri movimenti sostenevano, invece, che la cultura e l’istruzione potessero diventare strumenti di liberazione e di emancipazione sociale.
Ma se questa tesi era
da sostenere, a quali condizioni la scuola poteva diventare
strumento di liberazione?
Gli Anni Settanta Gli Anni Settanta non sono affatto da meno per quanto riguarda la discussione sulla scuola e sul suo valore o disvalore sociale e culturale. Nel 1970 viene pubblicato in Italia il saggio di Louis Althusser, “Ideologia e apparati ideologici di Stato”: l’autore sostiene che la scuola non libera affatto i suoi alunni, ma li omologa ai valori della cultura dominante. La scuola ha di per sé una natura solamente classista! È un perfetto strumento di conservazione sociale.
Da altre parti, però,
si sostiene che i nuovi nati non possono non essere “educati”. Ma si
tratta di un compito che la società nel suo insieme, nelle sue
diverse istituzioni e strutture, deve assumere. In effetti, non è la
scuola, ma la società stessa che può e deve essere educante!
Si avverte largamente
la necessità di dar vita a una scuola “aperta” anche e soprattutto
sotto il profilo ideologico e culturale. E che, ovviamente, non
perda le sua caratteristiche fondanti di prima istituzione
inculturante e acculturante. E una scuola essenzialmente lontana da
qualsiasi manipolazione ideologica, palese o nascosta. In questo clima convulso, ma ricco di stimolanti dibattiti, Raffaele Laporta pubblica “Educazione sociale”, nel 1970. Sono i prodromi di un successivo volume, quello che farà storia, “La difficile scommessa”. In tale scenario così ricco di idee, non possiamo non ricordare le posizioni dei cosiddetti “descolarizzatori”, Paul Goodman, Everett Reimer e Ivan Illich, che con “Descolarizzare la società”, del 1972, vanno oltre una scuola aperta. Sostengono che la scuola come istituzione non solo non ha più senso, ma non può neanche rispondere ai nuovi bisogni di conoscenza, di educazione, di cultura. Essi affermano con estrema chiarezza: chiudiamo le scuole e affidiamo i processi di insegnamento e apprendimento al sociale e alle sue istituzioni. E motivo discriminante per la selezione sociale che da sempre divide uomini e gruppi è la lingua, lo strumento di discriminazione più potente. E allora come insegnare la lingua? Con la grammatica di sempre? Una risposta coraggiosa viene data. A questo proposito non possiamo dimenticare l’interessante e dirompente contributo per l’insegnamento linguistico nella scuola per l’infanzia e per quella elementare che viene offerto dalla “Grammatica della fantasia, introduzione all’arte di inventare storie”, di Gianni Rodari, edito per Einaudi nel 1973. La lingua si apprende parlando! E, quando si è piccoli, l’invenzione è sovrana, e costruire storie è il modo migliore per costruire linguaggio. Questo l’insegnamento di Rodari, arricchito da pagine suggestive, tutte tese a suggerire le infinite tecniche dell’invenzione. Quindi, prima e dopo la grammatica delle regole, c’è la grammatica della fantasia! Una grammatica costruita più che appresa!
Chiudiamo queste note
con due opere, assolutamente agli antipodi, ma che ci danno il senso
di quel vivace dibattito che caratterizza tutto il decennio del
1970. Da un lato la ricerca di due sociologi francesi, Pierre
Bourdieu e Jean Claude Passeron, “La Riproduzione del sistema
scolastico ovvero della conservazione dell’ordine culturale”, del
1972. Una scuola che provenga dal sociale e appartenga al sociale, ma… come? Si tratta in verità di una scommessa, anzi di una “Difficile Scommessa”! È il saggio più significativo di quegli anni nel nostro panorama pedagogico. Esce nel 1971 per La Nuova Italia ed è dedicato alla memoria di Bruno Ciari, scomparso l’anno precedente.
Laporta scrive nel
pieno della contestazione studentesca. Ne coglie il significato
profondo e lo comprende, ma… ritiene che rifiutare la “scuola dei
padroni” e l’“università dei baroni” – per noi suoi allievi lui era
il “barone rosso” – non significa e non deve significare un rifiuto
tout court dell’istruzione e dell’educazione. Egli avverte la problematicità della situazione. Va considerato che la società è quella che è, che lo stesso “autoritarismo della scuola corrisponde all’autoritarismo della società” (p. 4). “Il problema del controllo dei rapporti interpersonali è sempre in ogni caso un problema di educazione… I rapporti interpersonali consistono nella maggior parte dei casi in ciò che un individuo fa all’altro ancor prima che in ciò che pensa e gli dice” (p. 5). “L’educazione è dunque assicurare che nel rapporto interpersonale ogni persona venga protetta. Il rapporto educativo è al centro dell’educazione quando questa diviene intenzionale. In essa chi insegna ha poteri che chi deve imparare non ha ancora, ma vuole e deve conseguire. Il rapporto educativo è un tipico rapporto fra disuguali che devono divenire uguali: dunque deve essere una pratica costante della uguaglianza. Insegnare intellettualmente l’uguaglianza attraverso messaggi verbali è inutile! Occorre farla vivere” (p. 7). Ma non basta! L’educazione ha un grande nemico! “L’educazione ha avversaria implacabile l’ideologia… L’educazione non può fare a meno di sentirsi e di farsi scienza! L’educazione come scienza!… La politica è l’esito, non il presupposto di una scienza dell’educazione” (p. 36). Ne consegue questo indiscutibile assunto: “La libertà di insegnamento come strumento professionale e politico” (p. 49).
È l’intuizione
laportiana che si collega alla domanda che sta emergendo da una gran
parte del mondo di chi lavora e che avverte di non avere gli
strumenti di lettura e di interpretazione di una società che per
certi versi utilizza e sfrutta la sua parte più debole: la classe
operaia. E Laporta fa i suoi appunti anche agli insegnanti, o meglio a quegli insegnanti della tradizione, che sono funzionali a un certo tipo di scuola e a un certo tipo di società. “L’insegnante pretende dall’allievo comportamenti verbali e in qualche caso intellettuali imitativi dei propri, ripetitivi, conformi. I comportamenti emotivi, morali, sociali, estetico-critici e creativi, economici, gli sfuggono quasi sempre totalmente” (p. 217). “L’obbligare l’allievo a prestazioni intellettuali e soprattutto verbali ripetitive, l’impedirgli di acquisire condotte impegnative dell’intera personalità sono forme di violenza indipendenti da ogni altra violenza” (p. 218).
Sono gli anni in cui
l’eco e i richiami di Mc Luhan sono molto forti (ricordiamo la sua
famosa espressione: “il mezzo è il messaggio”): la pervasività dei
mezzi di comunicazione di massa.
Il mondo del lavoro
reclama cultura e non solo salari più alti, perché la conoscenza è
strumento non solo di promozione professionale, ma anche di riscatto
sociale. Ma sarebbe rischioso coniugare direttamente la cultura con
la lotta sociale. Perché a volte la vera cultura poco o nulla ha a
che fare con le lotte operaie e contadine.
Nel 1973 viene
sottoscritto il nuovo contratto di lavoro dei metalmeccanici. Il
valore della scuola e dello studio era già stato riaffermato da
Luciano Lama, grande segretario della Cgil dal 1970 al 1986. Con
quel contratto per la prima volta nella storia sindacale viene
introdotto per i lavoratori dipendenti un nuovo diritto a permessi
che prevedono la sospensione dell’orario di lavoro fino a un massimo
annuale di 150 ore per poter accedere a corsi di studio.
La scommessa di
insegnare e apprendere in una scuola diversa e nuova sembra non
essere più tanto difficile. La lezione laportiana ha toccato il suo acme. Il resto è storia nota. La democratizzazione della scuola ha conosciuto fasi alterne, ora di grandi entusiasmi e attese, ora di profonde disillusioni. Ma qui si aprirebbe un altro discorso, che andrebbe oltre le intuizioni e le intenzioni di Laporta e della sua Difficile scommessa! La riflessione sulla scuola e sulle sue finalità imbocca ormai nuove strade, quella soprattutto della società educante, che va oltre i nostri confini nazionali, che vede altri pensatori, altre organizzazioni, a livello europeo e internazionale. Ed è proprio al Congresso internazionale di Napoli, del 1974, “Verso un nuovo alfabeto: la società educante”, che Laporta presenta la sua relazione, ricca di nuove suggestioni e di nuove prospettive. Ma qui sui aprirebbe un’altra storia! Oltre la scommessa, che ancora oggi non è stata vinta! Nonostante Laporta, il suo insegnamento, la sua scuola! Altre pubblicazioni significative di Raffaele Laporta:
Organizzazioni e ambiti di ricerca, oltre le facoltà accademiche, in cui Raffaele Laporta è stato attivo:
E per finire sul ruolo
che Laporta ha avuto nella nostra storia educativa, si riportano
queste riflessioni di Franco Cambi, redatte poco tempo prima della
scomparsa del Maestro. Da “Studi sulla formazione”, anno III, 2000, n. 2.
* La
relazione di Maurizio Tiriticco in occasione del Convegno, del 17
maggio scorso, per l’intitolazione dell’Istituto Comprensivo Alto
Orvietano di Fabro a Raffaele Laporta. |