Un bicamerale sul femminicidio
ed educazione di genere a scuola

di Valeria Fedeli, la 27 ora, blog del Corriere della Sera 30.6.2013

La ratifica della Convenzione di Istanbul, riconoscendo la violenza sulle donne e domestica come violazione dei diritti umani, sancendo il principio secondo cui ogni persona ha il diritto di vivere libera dalla violenza, ponendo agli Stati il vincolo concreto del raggiungimento dell’uguaglianza tra i sessi de jure e de facto, è stata un passo fondamentale, ma un primo passo, per adeguare la nostra normativa agli standard internazionali più avanzati.

Ora dobbiamo implementare ancora il corpus normativo. Per questo abbiamo proposto l’istituzione di una Commissione bicamerale che risponda al dovere istituzionale di domandarsi se è stato fatto tutto quello che si poteva fare o se occorre un cambiamento più strutturale nelle azioni di contrasto alla violenza sulle donne.

La risposta deve, infatti, essere politica, sia nel senso che deve riguardare la ricostruzione di un patto sociale tra donne e istituzioni dello Stato, sia nel senso che deve coinvolgere attivamente i decisori politici perché, se è vero che nel Rapporto tematico dell’ONU si afferma che «in Italia sono stati fatti sforzi da parte del Governo, attraverso l’adozione di leggi e politiche», si aggiunge anche che

«questi atti non hanno però portato a una diminuzione dei femmicidi e non sono stati tradotti in un miglioramento della condizione di vita delle donne e delle bambine».

La Commissione sarà composta da dieci senatori e dieci deputati, nominati entro venti giorni dall’inizio di ogni legislatura, rispettivamente, dal Presidente del Senato della Repubblica e dal Presidente della Camera dei deputati, in proporzione al numero dei componenti dei gruppi parlamentari, garantendo comunque l’equilibrata rappresentanza dei generi. Infatti, nella composizione della Commissione stessa, abbiamo previsto che oltre al criterio di rappresentanza dei gruppi parlamentari, sia anche rispettata una misura antidiscriminatoria rispetto al genere.

La Commissione lavorerà seguendo un approccio di tipo olistico rispetto alle cause strutturali di discriminazione, oppressione e marginalizzazione delle donne, elaborando una relazione annuale in cui, oltre a riportare dati istituzionali di misurazione del fenomeno della violenza nei confronti delle donne – e questo relazionandosi con quelle realtà, associazioni e media, che già operano in questo senso a partire anche dal lavoro che da due anni viene svolto dalla 27esima ora - dovranno essere indicate misure e azioni sul piano politico, operativo, giuridico e amministrativo che, in linea con gli standard internazionali, siano volte a porre fine alle uccisioni di donne in quanto donne (femmicidi), ma anche a prevenire e tutelare le donne da pratiche sociali violente fisicamente o psicologicamente, che attentano all’integrità, allo sviluppo psicofisico, alla salute, alla libertà o alla vita delle donne, col fine di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico e/o psicologico (femminicidi).

La violenza femmicida è un fenomeno fortemente legato agli stereotipi, alle rappresentazioni culturali, alle abitudini e mentalità chiuse e maschiliste che resistono forti in alcuni Paesi e alcuni retaggi sociali.

Costruire politiche di contrasto alla violenza nei confronti delle donne significa intraprendere un percorso lungo e complesso, che renda le violenze sulle donne sempre meno accettabili socialmente.

Occorre da subito lavorare su tre punti: stereotipi, linguaggio, educazione.

Un dato infatti è chiaro: anche al netto del grado di sviluppo economico dei Paesi, gli abusi fisici e sessuali sono più diffusi là dove, per affermare l’autorità maschile all’interno della coppia, le norme culturali tendono a giustificare il ricorso alla forza e le risposte delle Istituzioni sono viste deboli e poco efficaci.

Quando uno Stato fallisce nel perseguire femmicidio e violenze, l’impunità non solo intensifica la subordinazione e l’impotenza di colei a cui le violenze sono indirizzate, ma manda anche un messaggio alla società, che la violenza nei confronti delle donne è accettabile.

La conseguenza di un approccio inadeguato delle Istituzioni è la normalizzazione dei comportamenti violenti nei confronti delle donne, in coerenza con stereotipi discriminatori. Gli stereotipi sono semplificazioni rigide che usiamo come «scorciatoie» rispetto alla complessità del mondo, sono costruzioni sociali che si radicano poco a poco, fino a divenire idee stabili che si tramandano tra generazioni, nelle famiglie, nelle scuole.

L’uso degli stereotipi di genere produce una rappresentazione rigida e distorta della realtà, che si basa su ciò che ci aspettiamo dalle donne e dagli uomini. Sono aspettative consolidate, che non vengono messe in discussione perché apparentemente fondate su differenze biologiche. Quelle aspettative invece sono rappresentazioni culturali, che derivano dalle esperienze accumulate nel tempo.

Gli stereotipi non hanno nulla di naturale, ma presentano il vantaggio di rendere semplice ciò che è complesso. Sono una forzatura cognitiva, che elimina profondità e differenze. Dobbiamo invece sfidare quelle rappresentazioni che scelgono di semplificare e conservare, che diventano stereotipi e producono discriminazioni.

In sostanza, la sfida che ci dobbiamo porre è quella di cambiare il Paese sul piano delle relazioni tra i generi e, per farlo, è necessario ripartire dall’educazione. La scuola e i libri di testo, infatti, sono spesso, sebbene in modo inconsapevole, sessisti: trasmettono stereotipi e comportamenti che favoriscono le «gabbie comportamentali di genere». Sappiamo però che ogni intervento in ambito educativo ha senso ed efficacia, soprattutto nel lungo periodo e in profondità, se riguarda per intero e dall’interno l’impianto complessivo della scuola, soprattutto nel ciclo primario. Interventi puntuali, estemporanei, «esterni» seppur importanti, non sono efficaci e rischiano di essere vanificati nel tempo.

Secondo questa prospettiva abbiamo presentato un atto di sindacato ispettivo alla Ministra dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, chiedendole di sapere, da un lato, se e come intenda procedere al fine di introdurre la cultura del rispetto e della consapevolezza delle identità di genere e il superamento degli stereotipi sessisti tra gli obiettivi nazionali dell’insegnamento e nelle linee generali dei curricoli scolastici; dall’altro, se non ritenga necessario ed urgente agire affinché i libri di testo in ambito scolastico rispettino le indicazioni contenute nel codice di autoregolamentazione POLITE (esplicitate operativamente nei due vademecum allegati al codice), attraverso una dichiarazione di adesione al medesimo codice.

Tra le azioni possibili in ambito scolastico, e sono tante, ne abbiamo scelte due che avessero i caratteri dell’incisività e dell’economicità per lo Stato; entrambe sono a costo zero e vogliono costituire il primo passo di un cammino verso la cultura del rispetto consapevole tra i generi e della non violenza: sono due azioni che agiscono in modo strutturale e continuo in campo educativo e scolastico e non in modo estemporaneo «esterno».

Porre tra gli obiettivi nazionali dell’insegnamento nella scuola italiana la promozione del rispetto delle identità di genere e il superamento degli stereotipi sessisti – in ogni ciclo di scuola, in ogni disciplina – vuol dire, tra l’altro, avvicinarsi all’Europa politica e recepire le indicazioni contenute nell’obiettivo strategico B4, «Formazione a una cultura della differenza di genere», per cui è necessario introdurre «nell’ambito delle proposte di riforma della scuola, dell’università, della didattica, i saperi innovativi delle donne, nel promuovere l’approfondimento culturale e l’educazione al rispetto della differenza di genere».

Dobbiamo agire quindi con un piano complesso di azioni, sia di conoscenza, analisi, sensibilizzazione e individuazione di risposte – come negli obiettivi della Commissione parlamentare bicamerale e nel lavoro educativo – sia di intervento immediato ed urgente – come il finanziamento dei centri antiviolenza. Occorre rilevare in maniera adeguata le dimensioni del femminicidio in Italia, i fattori di discriminazione strutturale correlati e l’efficacia della risposta istituzionale a tutte le forme di violenza che lo precedono. Serve poi individuare misure e azioni per sradicare ogni forma di discriminazione e violenza di genere e per superare gli ostacoli al raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale delle donne come prevista dall’articolo 3 della Costituzione, evitando prospettive falsamente neutrali che non sono vera parità, ma anzi accrescono le discriminazioni.

Serve infine modificare la cultura del Paese, superare la resistenza di un potere maschile e maschilista, prevenire discriminazioni e sessismi prima che degenerino in meccanismi patologici. È un lavoro lungo, la ratifica della Convenzione di Istanbul è un passo incoraggiante, la determinazione delle donne e degli uomini delle Istituzioni deve ora essere pari alla responsabilità che abbiamo.

Una responsabilità che dobbiamo e possiamo onorare.