La giungla dei master: Francesco Coniglione da ROARS, 3.1.2012 Sui Master – che ormai si moltiplicano in Italia ad un ritmo incalzante – non si è ancora avviata una serie riflessione, sia per valutare quanto sinora fatto in tale campo, sia per esplorarne le potenzialità per l’alta formazione e per il sistema universitario italiano nel suo complesso, sicché spesso negli stessi operatori accademici è diffusa una certa confusione. Per dissipare quest’ultima è innanzi tutto importante distinguere i master regolati dalle normative nazionali emanate per l’università e i sistemi di alta formazione, da quelli invece organizzati da soggetti privati di diversa natura e qualità intrinseca. Mentre nel primo caso esiste una normativa che per l’università fa riferimento al DM 509 del 1999, per le altre istituzioni di alta formazione (la cosiddetta AFAM, in sostanza le Accademie di belle arti, l’Accademia nazionale di danza, l’Accademia nazionale di arte drammatica, gli Istituti superiori per le industrie artistiche, i Conservatori di musica e gli Istituti musicali pareggiati) si richiama al DM n. 212 dell’8 luglio 2005 e al successivo regolamento del dicembre 2010, che disciplina i “diplomi di perfezionamento o master” nelle istituzioni di alta formazione aventi il riconoscimento a rilasciare titoli di studio. Per quanto riguarda l’università, il succitato DM stabilisce che “le università possono attivare, disciplinandoli nei regolamenti didattici di ateneo, corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente, successivi al conseguimento della laurea o della laurea specialistica, alla conclusione dei quali sono rilasciati i master universitari di primo e di secondo livello.” (art. 3, c. 8). Viene anche stabilito (art. 7, c. 4) che il master richiede l’acquisizione di almeno 60 crediti, che si aggiungono a quelli delle lauree triennale e specialistica (poi magistrale). Sicché il master è di primo livello se l’ammissione ad esso richiede solo la laurea triennale, di secondo livello se invece impone la laurea specialistica (o magistrale). A questa stringata normativa a livello nazionale (nella sostanza ripetuta in successivi provvedimenti normativi, come ad es. il DM 270 del 2004) si aggiungono poi i regolamenti che i singoli atenei si danno e che disciplinano i master da loro gestiti, fissando requisiti per l’istituzione, di carattere finanziario, organizzativo e gestionale, per la docenza, i titoli di ammissione, le attività didattiche e la loro durata temporale, gli esami, le convenzioni con altri enti e organizzazioni e così via (si veda ad es. il regolamento dell’università di Bologna). Nella sostanza quasi tutto viene demandato alle singole istituzioni universitarie, il cui unico obbligo è quello dei 60 crediti minimi. È da notare che nessun riferimento esplicito è fatto ai master nella riforma Gelmini. Più vincolante e minuziosa la regolamentazione dei master per le altre istituzioni di alta formazione, il cui regolamento applicativo fissa tutta una serie di criteri che per i corsi universitari sono invece demandati – in base al principio dell’autonomia – alle singole sedi universitarie. Qui di seguito ci concentreremo sui master universitari, anche se quello che diciamo in generale di essi può essere esteso anche ai master AFAM. Accanto a quelli universitari stanno i cosiddetti master organizzati da enti privati e varie associazioni, per i quali il titolo di ‘master’ è una semplice mutuazione della denominazione universitaria: in questo caso non si rilascia un titolo riconosciuto dallo stato, essendo il corso per lo più una sorta di addestramento o specializzazione professionale (o supposta tale), il cui valore sta tutto nella qualità del percorso didattico, dei docenti e dell’organizzazione che li gestisce. Insomma, in questo caso la condizione che verrebbe a configurarsi con la fantasticata e irrealistica abolizione del “valore legale” della laurea – da tanti auspicata come la panacea per l’università italiana – è di fatto già realizzata. Lucrando sulla denominazione, si organizzano così ‘master’ (magari finanziati dall’UE) il cui valore è tutto da accertare caso per caso e che a volte si possono trasformare in autentiche truffe per coloro che vi si avventurano, spesso pagando costi di iscrizione assai salati (che possono giungere ai 6 mila-8 mila euro). Basta una piccola ricerca su internet per rendersi conto di ciò: vi sono master che non danno neanche informazioni su docenti, comitati scientifici e su molte altre cose fondamentali per valutarne la qualità e serietà; come vi sono anche master che specificano tutto ciò e sono organizzati da categorie professionali, gruppi di aziende o specifici settori produttivi ed economici che nella sostanza selezionano e preparano in questo modo i quadri futuri che potrebbero essere da loro fruiti, con ciò completando e in parte sopperendo alla formazione universitaria. Questi master ovviamente non danno crediti universitari, spesso non richiedono neanche il possesso di laurea (di primo o secondo livello) e certificano solo un percorso di studio e di tirocinio effettuato. Abbiamo dunque nell’universo ‘master’ una sorta di polarizzazione tra due realtà: i master universitari e quelli non-universitari, con inevitabili confusioni e possibilità di inganno. Quelli universitari dovrebbero dare la certezza di una qualità certificata e una serietà nella organizzazione e nel curriculum che riflette il prestigio e il livello qualitativo delle singole università e dei loro docenti. Tuttavia questi master non sempre sono connessi in modo organico al mondo lavorativo e a volte (specie in ambito umanistico) rispondono prevalentemente ad esigenze disciplinari interne al mondo accademico; inoltre – a causa di una assenza di riorganizzazione normativa – si sovrappongono in maniera poco chiara a tutti gli altri titoli che le università rilasciano. Infatti, avendo i master la duplice funzione di “perfezionamento scientifico” e/o di qualificazione professionale, si sovrappongono in parte ai corsi di dottorato, a quelli specializzazione e ai diplomi di perfezionamento di vario tipo che – secondo la normativa italiana – possono essere rilasciati dalle università italiane (vedi il sito sul quadro dei titoli italiani), sicché essi più che distinguersi per le finalità o le figure che formano, finiscono per essere diversi dagli altri titoli solo per le specifiche normative e i regolamenti che li reggono, in quanto dalla normativa esistente si può solo ‘desumere’ una loro differente finalizzazione (come ha rilevato la ricerca condotta da AlmaLaurea nel 2010). Di contro i master non universitari sono, nei casi virtuosi (lasciando da parte quelli truffaldini e ingannevoli), espressione diretta del mondo del lavoro, delle professioni o delle stesse aziende e quindi incanalano i propri studenti verso uno sbocco occupazionale ben definito e che dà una qualche garanzia di ‘placement’, visto che sono gli stessi interessati che programmano questi master, anche in base alla proprie esigenze occupazionali. È in questo caso quasi sempre del tutto escluso il fine del “perfezionamento scientifico”, a favore dello sbocco lavorativo. Sono ovviamente possibili master universitari che vengono organizzati con la partnership di aziende o gruppi di aziende e che quindi dovrebbero presentare i vantaggio delle due tipologie prima descritte; ma questi sono casi fortunati e per lo più gestiti da quelle università specializzate (come la Bocconi) o direttamente legate al mondo produttivo (come la LUISS – si vedano i master elencati nella recente Grande guida Master 2013, pubblicata da “Repubblica”). Ma anche in questo caso persiste la sopra menzionata sovrapposizione tra questi master e gli altri titoli rilasciati dalle stesse università che li organizzano e non sempre la partnership con i privati si traduce in un loro effettivo interessamento per le figure professionali formate, anche perché la loro gestione – almeno nelle università pubbliche – risente della farraginosità e delle lentezze burocratico-amministrative di una università sempre più ingessata da regolamenti, norme e lentezze nei processi decisionali, che la riforma Gelmini non ha affatto risolto, ma in molti casi sta contribuendo a ulteriormente esasperare. E in effetti l’introduzione dei master in Italia è avvenuto, come al solito, a seguito di uno scimmiottamento del sistema anglosassone, senza tener conto del contesto complessivo in cui il master viene inserito. Negli USA, infatti, il master non ha nessuna pretesa di “perfezionamento scientifico”, in quanto si configura come un corso cui si accede dopo la graduation (che sarebbe la nostra laurea di primo livello, in genere di quattro anni) e ha prevalentemente lo scopo di permettere un’alta qualificazione spendibile già nel mondo del lavoro. Dopo si può ovviamente accedere al dottorato, il PhD, che invece costituisce il prerequisito indispensabile per la carriera scientifica all’università, ma è anche una qualificazione spendibile nel mondo del lavoro (tuttavia, in questo caso, la sua spendibilità dipende non dal ‘corso’ che si è fatto, ma dallo specifico contenuto specialistico seguito dal singolo studente ed attestato dalla sua tesi di dottorato). Pur nella grande varietà e multiformità del sistema statunitense, esso sembra per questo aspetto meglio organizzato e più chiaro di quello italiano. In Italia l’inseguimento sempre raccomandato e invocato dal MIUR, dal ceto politico e industriale, della laurea ‘utile’ al sistema produttivo, che dia la possibilità di inserimento nel mondo del lavoro e sia funzionale alla crescita economica (e della ricerca scientifica come “spin off” per l’innovazione tecnologica e produttiva) ha portato nel recente passato, dopo la riforma Berlinguer, ad una moltiplicazione del numero dei corsi di laurea non sempre motivata: la giusta esigenza di formare figure professionali specifiche per le nuove professionalità (sollecitata anche da certi settori del mondo produttivo) si è convertita in tutta una serie di percorsi formativi che perseguivano il disperato tentativo di incastrare perfettamente i propri laureati nelle sempre moltiplicantesi e rinnovantesi nicchie lavorative. Un gigantesco puzzle cui l’università cerca di fornire i tasselli adatti a coprirne i vuoti. E le figure professionali vengono così sempre più specializzate, sempre più contratte, nella speranza di vincere la lotteria che la “mano invisibile” del mercato gestisce con piglio sicuro. Un tentativo vano, in quanto la stessa lentezza con cui si mette a regime un nuovo percorso formativo e il tempo necessario affinché si formino le nuove figure professionali è spesso superato dagli eventi, col venir meno delle esigenze che ne avevano dettato la costituzione. Eppure, ad una società complessa e in rapida evoluzione bisognerebbe fornire non figure professionali rigide, bensì plastiche; laureati capaci di acquisire nuove competenze anche al di là di quelle ottenute nel breve ciclo universitario e quindi in possesso degli strumenti concettuali in grado di renderli criticamente e intellettivamente autonomi. Non dunque la rigidità dello specialismo acquisito una volta per tutte; piuttosto una formazione critica e generale, aperta e duttile, capace di adattarsi ai diversi contesti lavorativi ed in grado di acquisire in breve tempo le competenze necessarie per inserirsi pienamente nella professione cui le vicende della vita e le trasformazioni della società destineranno il laureato. L’università non può diventare un laboratorio di addestramento professionale, non può sostituirsi all’impresa, ai luoghi di lavoro, alle specializzazioni professionali, che soltanto la pratica sul campo può far acquisire; non deve fornire un prodotto finito, l’oliato ingranaggio che perfettamente si incastri in un ipotetico e fantasticato luogo di lavoro, partorito dalla fertile ed interessata fantasia dei docenti universitari. Ecco allora l’importante funzione che potrebbero avere i master se una normativa saggia ne riformasse l’architettura e il ruolo all’interno del sistema universitario italiano: non un ulteriore, inutile titolo che si aggiunge e sovrappone a quelli già esistenti, ma il luogo in cui mercato del lavoro e mondo della formazione si incontrano mettendo insieme le competenze indubbiamente esistenti nel mondo universitario con quelle al di fuori di esso e legate e specifici contesti produttivi e lavorativi. Una loro organizzazione flessibile e facilmente adattabile al mutamento del contesto sociale, svincolata dai complessi procedimenti di valutazione e accreditamento che sempre più stanno ingessando l’università italiana e i suoi corsi di studio, cogestita dalle università e dal mondo produttivo, potrebbe costituire il canale fondamentale attraverso il quale si possono formare quelle specifiche figure professionali richieste dal mercato del lavoro, lasciando all’università la cura di una formazione complessiva più generale, ma di qualità, che prepari sia per specifiche figure professionali (come fanno già molte tipologie di lauree, ad es. ingegneria, giurisprudenza e così via) sia anche per ambiti disciplinari abbastanza generali, che potrebbero poi essere ulteriormente articolati in master più specifici e diretti a nicchie lavorative difficilmente coperte e copribili dai normali corsi universitari. Un solo un esempio: per fare il giornalista potrebbe non esser necessario uno specifico corso di laurea; basterebbe una buona laurea in lettere o in filosofia o in scienze politiche e poi un master in giornalismo (o in tutte le varietà che tale ambito conosce), organizzato con le associazioni professionali e le aziende ad esso interessate. I master così concepiti avrebbero anche un’importante funzione di riqualificazione professionale, di aggiornamento e di mobilità lavorativa che nella società di oggi sono sempre più richieste in ossequi alla cosiddetta ‘flessibilità’. E inoltre potrebbe portare ad un rimodulazione del cosiddetto “numero programmato”, che potrebbe non essere riferito ai corsi di laurea, che rispondono anche ad una esigenza di cultura e formazione generale e civile, ma appunto ai master, più vicini al mondo lavorativo. Infine il cosiddetto “prestito d’onore” da tanti invocato per l’università, potrebbe essere riferito solo ai master, la cui tassa di iscrizione potrebbe essere più elevata, che nella sostanza così si autofinanzierebbero, lasciando invece all’università il compito costituzionale di garantire una formazione culturale a tutti i cittadini: è quella “terza missione” sempre più trascurata nell’attuale politica dell’università. Ma a tale fine sarebbe necessario un ripensamento della normativa esistente (o ‘inesistente’) sui master universitari, che ponga anche un limite e fornisca un quadro complessivo e semplificatore rispetto al contesto normativo “frammentario e talvolta di difficile comprensione” (sono parole della citata ricerca di AlmaLaurea) che è venuto a stratificarsi negli ultimi anni; e ciò allo scopo da evitare che la giungla dei master organizzati al di fuori dell’università e dell’AFAM possa divenire una truffa per studenti e famiglie (ad es. impedendo che si dia la qualificazione di ‘master’ a corsi che sono per lo più di preparazione professionale, allo stesso modo di come avviene col titolo di ‘laurea’); è infine necessario approntare strumenti normativi e organizzativi affinché la cogestione dei master tra università e soggetti privati possa effettivamente realizzarsi senza gli ostacoli burocratici e regolamentari che sembrano sempre più infittirsi in ambito universitario. |