A chi tocca valutare la
scuola? E, soprattutto, a chi giova? Tutti, nel nostro Paese, hanno
una buona ragione per valutarla, se non altro perché, essendo
l’istruzione obbligatoria fino al sedicesimo anno di età, ogni
italiano è o è stato studente e ha un giudizio sulla sua esperienza
scolastica. Molti di essi sono diventati genitori e hanno valutato
attentamente le scuole del territorio per iscrivere i loro figli. Si
potrebbero aggiungere altre categorie, che avendone più o meno
l’autorità e la necessità, esprimono valutazioni sulla scuola
(giornalisti e opinionisti, docenti universitari e hr manager,
psicologi e sociologi, il ministero dell’istruzione e l’Invalsi...).
Ciascuno ha una sua opinione in merito alle singole scuole e alla
scuola nel suo complesso, più o meno motivata e supportata da una
conoscenza, comunque sempre parziale, di dati.
Tutti, per valutare, partono però dagli stessi elementi: la
conoscenza dei fattori in gioco e la rispondenza di tali fattori
all’aspettativa, al senso che attribuiscono a tale istituzione. Non
è possibile per l’uomo, in qualsiasi ambito sia chiamato a farlo,
esprimere un giudizio di valore senza un’indagine conoscitiva e
senza un paragone tra i dati e la sua domanda di senso. La
valutazione è infatti un’azione imparentata con quella del giudizio,
iudicium, parola derivata dal latino ius, che già in latino copriva
un ambito semantico ben più ampio di quello del diritto (nel quale
il giudizio si traduce in sentenza di condanna o di assoluzione).
Giudizio ha a che fare con buon senso, senno, prudenza,
discernimento, criterio, gusto... Giudicare è un atto radicalmente
personale, che richiede conoscenza dei dati, capacità di
confrontarli e di valutarli in rapporto a un fine, a un senso. Un
atto che, implicando un’indagine e un’assunzione di responsabilità
nel pronunciare un parere, non può essere meccanicamente svolto da
un database o da un’istituzione: non va dimenticato che anche un
ministero, un istituto di ricerca, una scuola sono un insieme di
persone, non un’entità astratta e impersonale.
Forse il soggetto che in primis ha il dovere di valutare la scuola è
però la scuola stessa. Chi fa scuola ha ricevuto l’“incarico” dalla
società civile di istruire le giovani generazioni del Paese,
introdurle nella sua tradizione culturale, collaborando con le
famiglie alla loro educazione. Missiondella scuola è infatti,
secondo le Indicazioni nazionali, “lo sviluppo armonico e integrale
della persona, all’interno dei principi della Costituzione italiana
e della tradizione culturale europea... la formazione di ogni
persona e la crescita civile e sociale del Paese” (cf. Il paragrafo
Scuola, Costituzione e Europa, in Finalità generali delle
Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e
del primo ciclo d’istruzione, 2012).
Se questo è il compito della scuola, una seria autovalutazione dovrà
tenerne conto, confrontando un significativo numero di fattori con
il senso per cui la scuola esiste. La vera domanda allora diventa:
quali sono i segnali, i fattori da tener presente per verificare se
il giovane studente sta crescendo nella consapevolezza di sé e della
realtà, così da poter diventare un soggetto adulto, ragionevole,
libero e responsabile nella società? Non è detto infatti che una
scuola all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, ricca di
offerte extracurricolari, eccellente nei risultati delle prove
Invalsi sia automaticamente garanzia dello “sviluppo armonico e
integrale della persona”: l’educazione non è il risultato scontato
di una somma di fattori.
E ancora: chi può aiutare le persone che fanno scuola nella loro
riflessione personale e in quella comunitaria (si pensi ai consigli
di classe, ai collegi docenti, alle riunioni di area disciplinare) a
tenere in considerazione tali fattori?
Sicuramente gli studenti stessi e i loro genitori, quando la
condivisione della mission della scuola è tale da permettere di
superare la conflittualità scuola-famiglia, spesso alimentata dai
giornali e dal gossip. Fondamentale infatti è l’apporto dei genitori
nel fornire elementi di valutazione ai docenti circa aspetti dello
studente che loro non hanno la possibilità di osservare.
Ben venga anche il prezioso lavoro che l’Invalsi sta conducendo in
questi ultimi anni: attraverso prove strutturate e questionari ha la
possibilità di fornire dati sul sistema di istruzione dell’intero
Paese altrimenti irraggiungibili al singolo istituto, il quale trova
in essi elementi di paragone senza i quali sarebbe inevitabilmente
autoreferenziale. Lo stesso dicasi di ricerche condotte da altri
enti (penso ad esempio al Rapporto della Fondazione Agnelli sulla
scuola).
Anche il ministero dell’Istruzione, a condizione che si concepisca
al servizio delle scuole e non soggetto dell’istruzione e
dell’educazione dei giovani, può offrire alle singole scuole utili
strumenti per l’autovalutazione (penso ad esempio alle varie
edizioni delle Indicazioni nazionali, da leggersi come linee guida
per la predisposizione dei curricula e non programmi da eseguire,
che suggeriscono alcuni importanti fattori da tener presente nella
valutazione della crescita culturale dei propri studenti).
Da ultimo anche i mass media possono rendersi utili
all’autovalutazione delle singole scuole se, invece che dar voce a
inutili e dannosi luoghi comuni sulla scuola, si impegnano a portare
a conoscenza di tutti le buone pratiche, gli esempi virtuosi di
scuole rispondenti al loro compito, i tentativi messi in atto per
favorire la crescita dell’interesse alla conoscenza e allo studio
dei loro alunni. Quando si desidera migliorare, infatti, è
fondamentale il paragone con una realtà che ha realizzato il
miglioramento auspicato. Perché ciò che è accaduto a qualcuno
diventa possibile per tutti.
È dunque auspicabile che famiglie, istituzioni, mass media,
sostengano le scuole a svolgere una autovalutazione seria e
continua, intesa come giudizio ragionevole e libero sulla propria
proposta formativa in ordine al fine ultimo della scuola.
A favore di chi? A chi giova l’autovalutazione in vista del
miglioramento della scuola? Allo studente, agli studenti, cioè ai
nostri giovani e dunque al futuro del nostro Paese. Perché, come
scrive Charles Péguy:
“Tutto quel che si fa lo si fa per i bambini.
E sono i bambini che fanno fare tutto.
Tutto quel che si fa.
Come se ci prendessero per mano.
Così tutto quel che si fa, tutto
quello che tutti fanno
Lo si fa per la piccola speranza”
(da Il
portico del mistero della seconda virtù, 1911).