Scuola

Quei genitori che non "aiutano" più
i figli a sbagliare

Gianni Zen il Sussidiario 16.1.2013

A scuola si parla molto, giustamente, degli studenti, delle nuove generazioni, delle nuove domande, di speranze e di valori, etc., cioè di futuro, sapendo bene la gravità  del momento. Ma poco si parla dei genitori. Nel senso delle nuove generazioni di genitori.

A parte un certo utilitarismo, cioè la mera richiesta dei voti dei propri figli, i genitori oggi sono i grandi assenti dalla vita della scuola. Solo piccole minoranze vanno oltre i voti in pagella. Guardando il panorama generale, direi che prevale, sul piano formativo, una sorta di delega in bianco, nel senso che si scaricano in troppi casi le proprie responsabilità  educative sui docenti e, più in generale, sul sistema scuola. Non tutti, ma tanti sì.

Invece, il vero toccasana di ogni scuola è la loro presenza attiva. Non è un caso che anche il "servizio pubblico" scolastico si debba ripensare in termini di "rendicontazione sociale". Con nuove attenzioni, nuova governance e nuove risorse. La vera priorità  di un Paese che investe sul proprio futuro. Mentre oggi, senza l'aiuto dei genitori, anche finanziario, le scuole potrebbero, quasi, chiudere i battenti, a livello di costi di gestione e di organizzazione. La loro partecipazione alla vita della scuola come "sistema educativo", quindi, è fondamentale, imprescindibile. Per questo motivo tutte le scuole dovrebbero rendere trasparente, nella forma del "bilancio sociale", il loro "servizio pubblico", in relazione alla richiesta di qualità  cioè del "servizio" agli studenti e al contesto sociale. Oltre la vecchia autoreferenza, difesa ancora oggi, purtroppo, a livello politico-sindacale: le scuole non sono dei presidi e dei docenti, ma per gli studenti, per il loro futuro.

Ciò che noto, però, soprattutto negli ultimi anni, è un certo cambio di sensibilità  verso questa complessità  della scuola. In altri termini, troppi genitori si limitano a fare i sindacalisti dei propri figli. Si limitano cioè a richiedere alla scuola una prestazione, più che apprezzare lo sfondo educativo, cioè cosa vuol dire "accompagnare" un giovane alla maturazione personale e sociale.

Lo sappiamo, le famiglie sono su tanti aspetti in crisi. Anzitutto come istituzione, cioè come autorità  e autorevolezza, poi come relazione educativa. Lo si vede da quell'aria, in troppi ragazzi e ragazze, di presunta autosufficienza, che preoccupa i loro "vecchi". E allora la scuola diventa l'ultima spiaggia, l'ultima possibilità  per un recupero di dialogo in casa.

Questo fa da pendant al fatto che, in troppi casi, prevale il modello del «genitore-chioccia», causa, ce lo dicono diversi studi, di tante ansie che vengono poi "scaricate" sui propri figli. Quanti genitori, con la propria auto, pretendono di "scaricare" i propri figli davanti al cancello della scuola, quanti protestano perché i figli devono attendere anche 20 minuti un bus, oppure fanno confronti esagerati tra le valutazioni del proprio figlio e quelle di un compagno, invocando la giustizia tradita? Quanti giustificano il ritardo con il traffico, mentre rimangono smarriti di fronte ad una semplice obiezione: "Basta alzarsi prima e partire da casa per tempo"? Non è per tutti così, ma sono sempre troppi.

In poche parole, le nuove generazioni di mamme e papà tendono ad essere iper-protettive: quanti ragazzi proprio per questo, non riescono ad affrontare e superare le situazioni di paura, di conflitto, di difficoltà? Ogni anno impegno intere giornate a spiegare ai genitori che una insufficienza, anche una bocciatura, non è un dramma infinito, ma un momento che richiede nuova convinzione ed energia positiva. “Nessuno nasce imparato”, ripeteva Totò.

Un recente studio australiano, pubblicato sul giornale scientifico PlosOne ha, per farla in breve, messo in evidenza come i bambini troppo controllati e difesi dai genitori hanno più possibilità di diventare ansiosi in futuro. In questo studio si parla di “genitori-elicottero”, in inglese “helicopter parenting”. Si tratta cioè di quei genitori che, proprio come gli elicotteri, “ronzano” di continuo sopra la testa, sopra la vita dei propri figli. Quindi una presenza, non solo fisica ma soprattutto psicologica, esagerata, tale da perdere il riferimento alle cose veramente essenziali della vita dei figli.

Proviamo a fare una verifica: chi sveglia ogni mattina i propri figli per andare a scuola, perché non arrivino in ritardo? Chi si è accorto che il telefonino è il “cordone ombelicale più lungo del mondo”, come l’ha definito Richard Mullendore? Tutti questi comportamenti, come è ovvio, hanno delle conseguenze. L’eccessivo protezionismo produce ansia, insicurezza, dipendenza; di converso, prima o poi, produce ribellione, ricerca del limite, anche trasgressione. La “giusta misura” invece si chiama “autonomia responsabile”, cammino, cioè, verso la maturazione, quindi il sano protagonismo, il coraggio dei propri talenti, la fiducia in se stessi e nelle mille relazioni.

Quanti genitori a scuola, ad esempio, intervengono oltre misura sui docenti, sulle loro valutazioni e programmazioni? Basterebbe chiedere se, al loro posto di lavoro, sarebbero disposti ad accettare volentieri non sempre giustificate e competenti intromissioni. Se certe cose non vanno, ovviamente, è giusto rilevarle. Ma educare i figli anche alla comprensione di queste complessità, anche alle contraddizioni, non è mai tempo perso.

I genitori sanno, o dovrebbero sapere, che è fondamentale tenere sempre un passo indietro nei confronti dei propri figli. Nel senso di una presenza discreta, non troppo distaccata, ma nemmeno troppo pressante. I ragazzi, cioè, vanno aiutati anche a sbagliare, perché è solo sbagliando, ce lo ripetiamo spesso a scuola, che si impara, che nasce la ricerca del perché dell’errore, e quindi della verità a partire dalla quale l’errore è errore. Vanno aiutati a non avere paura degli imprevisti, dell’ignoto, degli insuccessi. Così maturano più in fretta, nel senso di consapevolezza di sé e degli altri, dei “pari”, cioè delle infinite relazioni.

Ricordo bene, qualche tempo fa, il dibattito in terra americana sulle “mamme-tigri” che spingono i propri figli oltre il limite della competizione con se stessi e con gli altri. Da noi, invece, domina in alcune ricerche la figura del “papà-orsetto”, sempre pronto a lenire, con il proprio calore, la durezza del mondo reale, troppo competitivo.

 

 

 

 

Immaginiamo di essere nei panni di due genitori che in questi mesi abbiano scelto, o stiano per scegliere, il primo segmento obbligatorio di quella lunga strada conosciuta come “istruzione scolastica”; molto probabilmente dopo tre anni di scuola materna e magari anche una qualche esperienza di nido, si troveranno davanti otto anni fra scuola dell’infanzia e di primo ciclo (le “elementari e le medie”), a cui seguiranno, quasi per certo, cinque anni di scuola di secondo ciclo (“la scuola secondaria”). Un totale di 13 anni di istruzione scolastica, tutti interamente interessati dall’apprendimento di una lingua straniera, l’inglese, con un intervallo di tre anni in cui il loro pargoletto, o pargoletta, studierà anche un’altra lingua comunitaria, per poi, a meno di non farlo o farla decisamente virare nella direzione di uno studio specialistico e dedicato alle lingue, abbandonarla del tutto. E tutto ciò senza che ciò desti alcuna preoccupazione nei legislatori che, nelle nuove indicazioni nazionali del 4 settembre 2012, hanno riproposto il bilinguismo con molte motivazioni ben ragionate, di cui una mi pare debba essere sottolineata: “Accostandosi a più lingue, l’alunno impara a riconoscere che esistono differenti sistemi linguistici e culturali e diviene man mano consapevole della varietà di mezzi che ogni lingua offre per pensare, esprimersi e comunicare”.

Un obiettivo certamente corretto, ma “accostarsi” indica che si tratta di un primo approccio, e siamo sicuri che la piena consapevolezza qui descritta, sia pur da guadagnare “man mano”, si possa acquisire in soli tre anni di reale plurilinguismo? Al di là di ogni pur ragionevole dubbio sulle possibilità di imparare una seconda lingua straniera ad un livello oltre la semplice sopravvivenza, visto che è il legislatore stesso ad indicare come A1 – il primo “gradino” del Quadro Comune di Riferimento Europeo – il livello da raggiungere alla fine della scuola di primo ciclo? Visto che dopo questo iniziale “accostarsi” il plurilinguismo cessa semplicemente di esistere e rimane il bilinguismo, lingua madre e lingua inglese, a meno di non far parte di una minoranza linguistica o di vivere in qualche “zona di confine”?

Tenendo conto della giovane età del discente – il ragazzino o ragazzina che a 11 anni inizia il primo ciclo – e della sua flessibilità, qualche speranza che una tale coscienza maturi si può anche nutrirla, a patto che l’esperienza di apprendimento delle lingue straniere sia reale e significativa. Che prospettiva aprono in questo senso le indicazioni nazionali? C’è una qualche reale novità, oltre alla descrizione dell’apprendimento come didattica delle competenze, in continuità con quanto si è già proposto con le Linee Guida per la Riforma della scuola di secondo ciclo?

Considerando solo la lingua inglese, dove il livello da raggiungere è A2, per la lettura si propone una certa varietà nella tipologia dei testi (testi di uso quotidiano, lettere personali, istruzioni relative a uso di oggetti, giochi ed attività collaborative, brevi storie, semplici biografie, testi narrativi più ampi in edizioni graduate); che, ad occhio e croce, non è molto diverso da quanto si trova nei libri di testo finora presenti sul mercato. Non sfugga un accenno, ripetuto un paio di volte, a leggere testi di “altre discipline”; forse l’unica reale novità, anche se indubbiamente la lettura di testi descrittivi della cultura del paese di cui si studia la lingua, detta – illo tempore – “civiltà”, è pratica virtuosa di molti docenti da molti anni, e ricade nella categorie di storia, geografia, educazione alimentare o civica.

Anche le indicazioni relative a scrittura, ascolto, produzione ed interazione orale non sono molto diverse, nella loro essenzialità, da quanto è presente da anni nella scuola di primo ciclo; si tratta sostanzialmente di una programmazione per competenze distinta sulla quattro abilità più un’area, “riflessione sulla lingua e sull’apprendimento”, dove, per il primo punto, l’accento sembra andare nel senso della memorizzazione, pur non dichiarata, di “costrutti e funzioni comunicative” e “parole nei contesti di uso”. Come per tutte le discipline, si individuano in controluce, ad una lettura attenta, delle indicazioni relative ai contenuti da sviluppare, che rientrano nella sfera degli interessi personali del discente o perlomeno quelli che una certa tradizione ormai assodata assegna al livello linguistico individuato e alla fascia d’età.

Niente di fortemente innovativo, quindi. Nessun accenno, nemmeno indiretto, ad alcune delle problematiche nello studio della lingua inglese, di cui almeno due andrebbero osservate con maggiore attenzione. Il primo è la corretta articolazione dei suoni e la prosodia, magari attenendosi, in questa fase dell’apprendimento, ad una sola varietà della lingua inglese; una indicazione in tal senso compare per la scuola dell’infanzia, ma una corretta articolazione dei suoni, che costituisca un buon modello da imitare per chi non li conosce affatto, non è cosa che si improvvisa. Filastrocche, cantilene, canzoni, ma anche lettura ad alta voce di storie (analogamente a quanto si fa nella scuola primaria per la lingua madre, anche, come sottolinea il legislatore, “senza finalizzare”, per il “solo piacere dell’ascolto e della lettura”) andrebbero resi centrali all’ora di lezione, facendo “osservare”, come suggerisce il legislatore per altri aspetti, quanto di “diverso” si nota, nell’ambito di una riflessione che miri ad individuare non solo i suoni particolarmente problematici (e certo non si tratta solo del famigerato “th”), ma anche la prosodia. Qui gli ostacoli culturali sono notevoli, innanzitutto l’idea che si tratti di aspetti specialistici, non necessari al discente in questa fase. Ma se si ha mai avuto a che fare con una persona che ha un difetto di pronuncia, si ha ben chiaro quanto sia difficile correggere una abitudine scorretta ormai acquisita. Una mamma il cui bambino dica male una parola perché sta imparando a parlare non “lascia perdere” perché “l’importante è che comunichi”; certo lo fa parlare, ma ripete, continuamente ripete, la parola che il bimbo non sa dire, non pretendendo certo che la dica subito, a seguito delle sue altrimenti estenuanti ripetizioni, ma non demorde. Anche se non ha seguito nessun corso di fonetica e fonologia, la sua appartenenza culturale alla lingua madre le fa credere che il suo bimbo possieda, anche per quel campo, quella capacità imitativa che lo porterà a padroneggiare suoni, ritmi ed intonazioni.

Altro aspetto che è di fatto la Cenerentola della formazione linguistica, anche a livelli superiori di istruzione, è la sintassi, che in realtà è l’ostacolo maggiore nell’apprendimento della lingua inglese. Non la sintassi della frase complessa, ma quella della frase semplice, per cui un “I don’t like very much peaches” detto ad alta voce (con peaches che si confonde ovviamente con pitches, tanto per fare un esempio non imbarazzante di opposizione fra [i] e [i:], vocale breve e vocale lunga, ed una prosodia del tutto inadeguata alla intenzione della dichiarativa) ci identifica immediatamente come un parlante italiano. Visto che non esiste nulla di più facile per un inglese di allineare, come tanti bravi soldatini, gli elementi costituitivi della cosiddetta “frase minima”. Anche qui, una brava mamma si affiderebbe, senza nemmeno sapere che esista, a quella che Choamsky ha definito la “grammatica innata”, cioè la capacità naturale del bambino di astrarre la struttura linguistica corretta da molti esempi apparentemente dissimili e non solo riconoscere la loro identità ma anche, vero miracolo dell’umana intelligenza, produrne, in tempi sorprendentemente brevi per un atto così complesso quel è l’acquisizione di lingua, di nuovi.

L’analogia con l’apprendimento della lingua madre mette tuttavia a fuoco una difficoltà reale; esiste davvero, nelle nostre classi di lingua inglese, o di altra L2, questa immersione continuativa nella lingua, in un dialogo che non è solo fra madre e figlio/a, ma fra figlio/a e madre, padre, sorella, fratello, nonni, vicino, passante, televisione, radio….? Ovviamente no, e spesso non esiste, temo, anche nelle tre ore appositamente dedicate alla lingua straniera: dove di lingua non si sente nulla, o quasi nulla, complici mille fattori fra i quali tuttavia non posso non menzionare, a costo di suscitare qualche legittima protesta da parte di chi non si troverà affatto descritto dal mio J’accuse, la difficoltà del docente stesso ad usare la lingua, per mancanza, in lui o più spesso in lei, di frequentazione sul campo della lingua stessa (che ormai può essere praticata abbastanza bene anche dal computer di casa, anche se il mondo reale, con luoghi da visitare, persone da conoscere, cibi da assaggiare, suoni da udire ed abitudini da imparare, rimane per un docente la classe reale).

Inoltre un secondo fattore andrebbe tenuto in debito conto; nella scuola del primo ciclo non si insegna a dei bambini, ma a degli adolescenti, le cui capacità imitative sono sì ancora presenti, ma le cui resistenze alla ripetizione e poi memorizzazione sono decisamente più elevate. Un bambino ripete volentieri, canta volentieri, gioca anche più volentieri; un adolescente no. E siamo proprio sicuri che l’unica strategia possibile per attivarne l’iniziativa sia il ricorso alla digitalizzazione, che compare nelle indicazioni nazionali e che, a mio giudizio, non va assolutamente trascurata, non fosse altro che per il fatto che ha già cambiato la forma mentis degli adolescenti di oggi, e che si può solo camminare con loro su questa strada, guidandoli, e non pretendere che la abbandonino? Noi, generazione di cinquantenni, abbandoneremmo penna e foglio per piuma e pergamena? E cosa faremmo se qualcuno ce li volesse togliere “per il nostro bene”? Quale bene vedremmo in ciò?

Comunque io credo che la vera risorsa attivabile negli adolescenti sia l’intelligenza, che chiede di osservare, ma anche di riflettere e di astrarre anche nella lingua straniera, visto che questo passaggio di criticità è presente in tutte le discipline ed è indispensabile se si vuole educare il giovane. L’intelligenza, intendendo con ciò l’osservazione sistematica di un dato di realtà nella sua complessità, può e deve sopperire all’impossibilità di riprodurre le condizioni di apprendimento della lingua madre in età infantile, e vincere la resistenza dell’adolescente a fidarsi dell’adulto che lo può “interessare” al lavoro scolastico solo se ne stima la sua natura di “adulto in formazione”.

Per farlo, bisogna che nella lingua straniera il premio sia alto, e la pugna seria, e quindi che gli oggetti del lavoro scolastico, quali i due qui descritti (ma occorrerebbe parlare diffusamente anche del lessico, non lungo elenco di parole da imparare, ma una realtà fatta di famiglie di parole in derivazione fra loro, e spesso in collocazione fra loro), siano “difficili”, nella compagnia ragionevole, attenta e, si spera, avveduta del docente.