Rivalutiamo l'istruzione tecnica Carlo Barone Il Sole 24 Ore, 31.1.2013
ROMA Non stupisce quindi che molti genitori laureati, che spesso hanno frequentato un liceo, diano quasi per scontato che i figli faranno altrettanto. Non c'è nulla di più sbagliato. Proiettare sui figli le proprie esperienze e aspirazioni li espone al rischio di un passo falso. Se i figli non hanno capacità e motivazioni adeguate, la bocciatura è dietro l'angolo. E alla fine il ragazzo dovrà ripiegare su una scuola meno impegnativa e portarsi dietro il vissuto di un fallimento. Non va dimenticato poi che molti istituti tecnici offrono comunque una buona preparazione di base e che molti loro studenti frequentano l'università con successo. Inoltre i diplomati dei tecnici che non proseguono gli studi sono richiesti dalle imprese, trovano lavoro più facilmente degli altri e nel 53% dei casi svolgono lavori congruenti con i propri studi, come emerge dall'ultima indagine Istat sui diplomati. E' un valore che può sembrare basso, ma è il migliore tra tutti gli indirizzi secondari. Il problema di fondo, che non risparmia nessun indirizzo, è il forte scollamento tra sistema formativo e mondo del lavoro. Gli istituti professionali sono forse l'anello più debole dell'offerta formativa. Quando i loro diplomati cercano lavoro, vanno meglio dei liceali, ma non degli studenti dei tecnici. E quando proseguono all'università, vanno peggio di tutti. Le scuole professionali reclutano studenti mediamente meno brillanti negli studi e si trovano sospese a metà tra l'obiettivo di insegnare un mestiere e quello di lasciare aperte le porte dell'università. Per queste scuole il rischio è non riuscire a fare bene nessuna delle due cose. I corsi triennali di istruzione e formazione professionale organizzati dalle Regioni offrono un'alternativa più coerente rispetto all'obiettivo della professionalizzazione. Questi corsi sono ancora visti in Italia come un canale residuale, dove parcheggiare i ragazzi più problematici. Spesso rappresentano una seconda scelta dopo una bocciatura a una scuola professionale, oppure una scelta forzata quando la famiglia cerca un percorso breve perché è in difficoltà economica. Quando però si chiede ai ragazzi che frequentano questi corsi cosa ne pensano, il giudizio è molto positivo. I loro allievi incontrano quella dimensione pratica e applicativa del sapere che manca altrove e si riconciliano con la scuola. Viene da chiedersi se non si potrebbe risparmiare loro la perdita di tempo e la frustrazione di una o più bocciature, facendoli iscrivere subito a questi corsi. Basterebbe guardare la formazione professionale non come un ripiego, ma come un'opzione formativa con lo stesso valore delle altre. Ma questa sarebbe una rivoluzione culturale per un paese abituato da sempre a guardare con diffidenza i saperi tecnici e applicativi. Il punto di forza di questi corsi sono le forti sinergie con il sistema produttivo, a partire dal ricorso sistematico a stage in azienda che aiutano i ragazzi a sperimentarsi subito con il mondo del lavoro e a farsi conoscere dalle imprese. Infatti questi giovani si dichiarano piuttosto soddisfatti del proprio inserimento lavorativo, anche in tempi di crisi, come è emerso da una recente ricerca Isfol. Il quadro però è complicato dal fatto che in diverse regioni meridionali questi corsi sono di qualità scadente. Così come esistono invece istituti professionali che funzionano molto bene. Del resto questo è un punto molto importante che vale per tutti i tipi di scuola: con l'autonomia scolastica le differenze tra i singoli istituti sono sempre più rilevanti. Inoltre ciascun istituto può prevedere al proprio interno indirizzi di qualità e selettività molto diversa. Oggi quindi non basta più dire "liceo scientifico" per sapere cosa studierà vostro figlio: dovete collegarvi al sito di ciascun istituto, cercare il piano dell'offerta formativa e verificare le differenze tra i suoi indirizzi. Inoltre sulla qualità dell'insegnamento in ogni istituto purtroppo è molto difficile avere informazioni trasparenti e affidabili in Italia. Il paradosso è che i dati ci sono: Invalsi ormai è in grado di misurare la capacità delle singole scuole di migliorare le competenze di base dei loro alunni. Ma questi dati non possono essere resi pubblici per le resistenze di alcune forze sociali e politiche. A rimetterci, inutile dirlo, sono le famiglie e i ragazzi. carlo.barone@unitn.it. |