La valutazione delle scuole e lo sterco del diavolo
Risorse economiche e “risultato”
di Franco De Anna
Pavone Risorse,
25.2.2013
In altri interventi sul tema della valutazione delle scuole (su
questo ed altri siti on line) ho cercato di dipanare una riflessione
critica che si misurasse con il problema, e non con le reazioni più
o meno polemiche che alcune prospettive di soluzione di esso
proponevano al dibattito sulla e nella scuola, scontando inevitabili
semplificazioni e riduzionismi.
In un mio recente contributo (“La valutazione delle scuole: una voce
di agenda o un impegno?”,
www.educationduepuntozero.it) ho proposto un approccio critico
ad una di queste semplificazioni contenuta nella legge di stabilità
che connette meccanicisticamente finanziamento alle scuole e loro
“risultati”. Provo ora, a sviluppare ulteriormente, anche al di là
del contesto polemico verso la legge citata.
Il nesso “deterministico” risorse-risultati ha una forza
argomentativa che proviene interamente dalla semplicità del
costrutto, fino ad alimentare una rudimentalità del ragionamento
che, come sempre accade, costituisce il terreno comune che abilita
tesi anche diametralmente opposte (l’assenza di pensiero è purtroppo
spesso un elemento unificante).
Sulla base di tale semplificato assunto, infatti, si riesce ad
affermare da un lato “basta finanziamenti a pioggia… incentiviamo i
migliori” e dall’altro ”bisogna investire (spendere) di più
nell’istruzione se si vogliono ottenere risultati”.
L’apparente forza argomentativa del costrutto risorse-risultati è in
realtà fondato sul criterio della “scatola nera”. Risorse in
ingresso, risultati in uscita, e semmai un (problematico) meccanismo
di sensato feed-back tra input e output.
L’approccio meccanico (funzionalismo) sembra esentare tutti (vedi le
posizioni contrapposte citate) dal chiedersi (e a misurarsi con la
fatica scientifica di tale interrogazione) cosa ci sia nella black
box, quale sistema di variabili interagiscano nel produrre i
risultati, e quale dinamica di sviluppo presieda a quella
combinazione di variabili.
Commentando la bozza di regolamento per il sistema nazionale di
valutazione (vedi qui) proponevo un approccio alla valutazione di
sistema per la scuola, che tenesse conto della sua “complessità” e
esplorasse i cinque livelli gerarchicamente (concettualmente e
operativamente) connessi per valutare una “politica pubblica”.
Rimando a quel contributo.
Ma facciamo una sorta di esperimento ideale. Poniamoci dal punto di
vista di un finanziatore pubblico che distribuisce le risorse
necessarie ad un “produttore autonomo” per produrre un servizio
“universale” come la fruizione di un diritto fondamentale di
cittadinanza come l’istruzione. Collegare finanziamento a risultati
è un “dovere” del finanziatore pubblico: le risorse provengono dai
cittadini stessi (fiscalità) e il loro rendimento costituisce
(dovrebbe costituire) un criterio di valutazione differenziale nei
confronti del decisore pubblico e della sua capacità di rispondere
del bene pubblico (esercizio fondamentale della deliberazione di
cittadinanza: il feed back democratico).
Ma, proprio per questo, il protocollo di valutazione che il decisore
pubblico applica (dovrebbe), deve misurarsi con la “composizione
specifica” che l’input di risorse realizza con l’insieme delle
variabili che operano nella black box. Insomma il protocollo
valutativo “ deve” aprire la scatola se vuole misurare davvero i
rapporto tra risorse e risultati. Non sono ammessi, proprio per le
responsabilità della politica pubblica, semplicismi, approssimazioni
rudimentali, o al peggio, opportunismi e indebite connivenze,
rispetto alla complessità delle variabili che presiedono alla
“combinazione” specifica delle risorse e dunque ai risultati.
Nel nostro “esperimento ideale” prescindiamo qui da altre importanti
considerazioni problematiche (prima tra tutte: come misurare e
valutare i risultati; ma anche: quale padronanza dei fattori di
produzione come il personale, lo sviluppo organizzativo, le regole
di funzionamento, ha il produttore). Potremmo tornarci in altri
contributi, se la pazienza ci sorregge. Qui ci esercitiamo sulla
variabile “risorse” finanziarie. (Da qui il titolo provocatorio).
Una scuola è una organizzazione complessa. E’ certo descrivibile in
termini di organigrammi, distribuzione di incarichi, ruoli
assegnati, progetti formalizzati e dichiarati. Ma anche (o
sopratutto secondo alcune scuole di pensiero) in termini di
significati comuni scambiati nel collettivo, attese speranze e ansie
comuni, linguaggi e forme della comunicazione, leadership formali e
informali, riconosciute e non.
Non sono gli organigrammi (le forme esterne di un architettura) a
reggere l’edificio organizzativo; sono gli impliciti, le latenze
(lateres… mattoni). Guai se la valutazione si fermasse al livello
della forma dell’edificio: darebbe esiti assolutamente
inconsistenti. Deve al contrario misurarsi con quell’insieme di
variabili che, per sintetizzare, indico con il termine “cultura
organizzativa” (l’insieme dei significati assegnati e scambiati
collettivamente)
La complessità reale, esplicita e latente, di una organizzazione si
“rivela” in particolare sulla superficie di separazione con il mondo
(il contesto) esterno. La composizione specifica delle variabili che
presiedono alla vita reale di una organizzazione (quelle evidenti e
quelle latenti) influisce direttamente sulla “permeabilità
specifica” della membrana di confine interno/esterno.
Le risorse economiche (lo sterco del diavolo) sono uno degli oggetti
(essenziali) di tale scambio attraverso la membrana.
Il significato che ad esse viene assegnato dalla “cultura
organizzativa” della singola e specifica scuola ne determina
grandemente sia l’uso che i risultati del loro uso.
Per esemplificare ricorro a due (tra le tante) esperienze sul campo.
Primo esempio.
Progetto cl@ssi 2.0 nella scuola Media. Il finanziatore pubblico
eroga 30mila euro a scuola da destinarsi all’investimento in
strumentazione digitale in una classe selezionata. Le risorse sono
distribuite secondo specifiche esplicite per selezionare le scuole
candidate. La distribuzione reale è affidata alle strutture
territoriali dell’amministrazione (USR).
Ho monitorato un campione di scuole (40 dal Friuli alla Sicilia)
visitandole direttamente, osservando le attività in classe e
interloquendo con i protagonisti. L’esito dell’osservazione mi
consente di individuare almeno tre gruppi di significati diversi
assegnati al finanziamento ottenuto e impegnato: per alcune scuole
si tratta di uno “start up” (l’innesco di un progetto innovativo);
per un altro gruppo si tratta di un contributo in termini di
“ricerca e sviluppo” di quanto già hanno autonomamente sperimentato
da tempo con autonome scelte di investimento; per un terzo gruppo si
tratta di “remunerazione” di uno “stereotipo progettale” (lo
sviluppo di una “retorica progettuale” è stato un sottoprodotto,
certo non desiderato in partenza, di alcune interpretazioni
dell’autonomia).
Non cito la distribuzione tra i tre gruppi, ma sono sostanzialmente
equivalenti. Si tratta evidentemente di una “valutazione”
qualitativa (esito dell’osservazione diretta e della interpretazione
dell’osservatore) ma ha riscontri quantitativi. Nel campione
osservato quel finanziamento uguale (30mila euro) corrispondeva per
alcune scuole a meno del 5% delle entrate, per altre arrivava a
rappresentare oltre il 20%. (qui il dato è desunto direttamente
dalla analisi del Bilancio effettuata dall’osservatore). Non occorre
grande fantasia interpretativa per considerare che il “significato”
assegnato a quelle risorse finanziarie sia non solo soggettivamente
diverso, ma che tale diversità abbia anche un fondamento
“oggettivo”.
Il riflesso di tali differenze sulle interpretazioni reali assegnate
all’uso di quelle risorse e sui risultati perseguiti e raggiunti è
altrettanto evidente: dai livelli di coinvolgimento del collettivo
attorno al progetto, al rapporto dentro/fuori con il territorio e
l’utenza, al livello di “saturazione” raggiunto rispetto alle
attrezzature tecniche, fino alle condizioni di “riproducibilità”
dell’innovazione a regime. Come sostenuto in termini generali: il
rapporto tra investimento e sua redditività è profondamente
condizionato dalla cultura organizzativa e dai significati assegnati
alle risorse economiche fruite.
Secondo esempio. Scuola Media di una regione PON. Con finanziamento
europeo un docente di grande professionalità ed inventiva
progettuale ha acquistato una piccola fresa a controllo numerico (di
quelle usate da odontotecnici o da orafi). In laboratorio di
informatica gli studenti (scuola media!) progettano “pezzi”,
geometrie, ma anche sculture, bassorilievi, utilizzando applicazioni
software. Esercitano capacità di calcolo, disegno, fantasia
creativa. Comandano da PC la fresa che trasforma i loro progetti in
oggetti. Bellissimo.
Ma il docente è l’unico che sappia fare tutto ciò con la sua classe.
Il laboratorio è una sorta di sanctasantorum cui si accede
attraverso cancelli di ferro scrupolosamente controllati. La scuola
è al confine tra un quartiere di ceto medio ed un quartiere di
sottoproletariato presidiato da famiglie mafiose. Poche settimane
prima della mia visita, alla scuola (edificio nuovo) sono stati
rubati gli infissi. Operazione notturna ma avvenuta evidentemente
sotto gli occhi di tutti (entrambi i quartieri di riferimento): ci
vuole un camion per trasferire gli infissi e qualche lavoro non
silenzioso e non rapido per estrarli dai loro alloggiamenti senza
deteriorarli.
L’investimento di risorse europee (che altre scuole invidierebbero),
aggiunto a quello del MIUR per lo sviluppo digitale, è servito in
questo caso per costruire “una cattedrale nel deserto”. Il risultato
immediato è di altissima qualità. La sua redditività “di sistema” e
la riproducibilità del risultato sono quasi nulle. Come dovrei
valutare, secondo il paradigma semplificato del rapporto meccanico
tra risorse e risultati?
Ho scelto volutamente esempi di impiego delle risorse in
strumentazione tecnica. Ma anni di impegno nella valutazione di
progetti PON hanno messo gli osservatori (almeno chi si è misurato
con l’analisi delle risorse economiche in un protocollo valutativo
dell’INVALSI che su questo è particolarmente debole e insufficiente.
E il motivo è istruttivo: il Ministero arrogò a sé questo oggetto di
analisi) di fronte a destinazioni di risorse prevalentemente
indirizzate a remunerare lavoro, quello interno dei docenti e quello
esterno di consulenti e figure specialistiche.
Nulla di riprovevole, ovviamente. Ma un evidente rischio di
autoreferenzialità tra chi progetta, il motivo per cui lo fa, la
distribuzione delle risorse ed i risultati. Autoreferenzialità (e
qualche tentazione di opportunismo) che deformano sia le strategie
di investimento (la scelta tra diverse alternative) sia gli esiti,
sia la pertinenza di protocolli valutativi “esterni”. Qui davvero
“lo sterco del diavolo”.
Naturalmente vi è una sorta di “retropensiero” che giustifica, sul
fronte ministeriale, il paradigma della black box. Non si pensa
necessario ”aprire la scatola” perchè si ritiene, o si auspica, che
il suo contenuto sia sempre il medesimo e corrisponda al “modello
ministeriale” presidiato da circolari, regolamenti, direttive e
quant’altro animi (?!) la linea di comando che parte da Viale
Trastevere.
L’autonomia non è mai stata (tranne che a parole e per scaricare
responsabilità) un must per il Ministero. A ciascuno le sue ipotesi
politiche; ma il problema è, in questo caso, la perdita di realtà
(grave difetto per un valutatore).
Al di là dei due esempi concreti, come utilizzarli per estrarne
argomentazioni di carattere generale, circa la determinazione di
sensati protocolli di valutazione di sistema, sia pure sull’oggetto
parziale assunto nel nostro “esperimento ideale”, come il nesso
risorse-risultati?
Un assennato protocollo di valutazione che sappia rintracciare il
senso del rapporto risorse-risultati, non accontentandosi del
paradigma della black box, guardando cioè “dentro” la scatola,
dovrebbe prima di tutto misurarsi con l’apprezzamento della autonoma
“propensione all’investimento” della organizzazione specifica
sottoposta a valutazione.
La domanda è semplicissima “Cosa farebbe l’organizzazione se avesse
a disposizione 30mila euro (ma la quantità potrebbe essere diversa)
da impiegare senza vincoli?” (si diverta il lettore a qualificare
meglio la domanda arricchendola di specificazioni, ma senza
esagerare. Ci importa l’interpretazione “autonoma”
dell’organizzazione).
Le risposte, la loro distribuzione, unità, diversificazione,
costituirebbero un repertorio sintomatico rivelatore sia della
“cultura organizzativa” specifica, sia dei modelli interpretativi
delle strategie, delle priorità, sia delle consapevolezze dei ruoli,
della missione, delle funzioni pubbliche esercitate.
Ma tale esplorazione preliminare della “propensione
all’investimento” dovrebbe esercitarsi sia sul “dichiarato” (le
significazioni esplicite che corredano la cultura organizzativa) sia
sulla struttura.
E dunque dovrebbe accompagnarsi anche con una analisi (questa tutta
quantitativa) condotta su una indicizzazione opportuna dei Bilanci
delle scuole. La destinazione e composizione della spesa, sia sui
grandi aggregati, sia sulle singole attività.
Ma anche tale compito quantitativo non è risolto dalla semplice
compilazione di tabelle o questionari. E’ sempre necessaria la
lettura analitica dell’ osservatore ed la sua responsabilità
interpretativa e diagnostica per affrontare il compito di
ricostruire le correlazioni sensate tra il livello delle
dichiarazioni e la struttura delle politiche di spesa.
La considerazione della funzione di “mediazione” che la cultura
organizzativa elaborata da una organizzazione esercita sul rapporto
risorse-risultati è particolarmente rilevante (decisiva per la
valutazione e per i suoi effetti) quando si eserciti sulla
“membrana” di confine tra l’organizzazione stessa ed il contesto di
azione.
Sul confine dentro-fuori si determinano infatti le condizioni di
redditività nel tempo degli investimenti e di riproducibilità dei
risultati (la possibilità di evitare le “cattedrali nel deserto”
dell’esempio riportato).
La ricerca in altri campi (per esempio la salute) dimostra
ampiamente che la correlazione tra investimenti intensivi e
risultati è tutt’altro che lineare. L’indice medio di salute di una
popolazione cresce, per esempio, al crescere di risorse impegnate in
dispositivi diagnostici o in farmaci. Ma oltre un certo limite la
curva si appiattisce (potete moltiplicare le apparecchiature di
risonanza magnetica, ma l’indice di salute non muta). Diviene più
“redditizio” l’investimento diffuso e a bassa intensità in “cultura
della salute”, per esempio in cultura della prevenzione. I risultati
non sono immediati e immediatamente misurabili, la correlazione si
fa più lasca, ma gli effetti si rivelano e consolidano nel tempo.
In una “impresa” ad alta intensità di lavoro e a mercato diffuso (il
“mercato” di riferimento è l’intero contesto sociale), come è la
scuola, la “composizione” delle risorse investite è fondamentale per
determinarne la redditività e dunque i risultati. Occorre cioè
calibrare un doppio obiettivo: aumentare la “composizione tecnica”
dell’offerta (strumentazioni, impianti) e fare leva sulla
composizione della domanda (cultura, professionalità, domanda
sociale). Vedi il secondo esempio commentato più sopra.
L’appropriatezza della “cultura organizzativa” dell’organizzazione
scolastica che si vorrebbe valutare, nel determinare il rapporto
risorse risultati, è a sua volta correlata ad alcune variabili di
inevitabile portata “soggettiva”.
Innanzi tutto le caratteristiche della direzione. Sotto il duplice
(e distinto) profilo del management e della leadership (troppo
semplicisticamente rese “sinonimi” in molte elaborazioni, spesso “di
comodo”). Un dirigente, se è un buon organizzatore, potrebbe non
avere nulla da fare materialmente lungo la sua giornata (è
ovviamente un paradosso) se non “presiedere” con accuratezza e
costanza alla costruzione ed allo scambio di significati collettivi
che formano la “cultura organizzativa”, non “determinandone” i
contenuti, ma presidiando discretamente gli scambi e gli incroci
comunicativi. La “conversazione” organizzativa, in altre parole.
Sia detto per inciso, sotto tale profilo, molte elaborazioni su
“leadership pedagogica”, leadership diffusa, “collegialità” ecc…
meriterebbero qualche falsificazione critica (fino alla “giustizia
sommaria”. Ma questa è una impertinenza personale).
Sul fronte della docenza la mediazione operativa tra esperienza,
motivazioni, professionalità individuali nel determinare il rapporto
risorse-risultati è più che evidente.
L’aggregato complesso che ho chiamato “cultura organizzativa” sembra
essere il fattore determinante nel produrre la variabilità
inaccettabile che caratterizza le condizioni operative (e i
risultati nelle rilevazioni sui livelli di apprendimento) del nostro
sistema di istruzione nelle diverse aree del Paese. (A meno di
ipotizzare improponibili differenze antropologiche).
Il suo effetto è ancora più significativo di quello dei
differenziali di risorse economiche messi in campo per superare le
differenze di contesto sociale (la storia delle risorse dei PON ma
anche quella degli impegni per lo sviluppo del Meridione lo sta a
dimostrare).
Dunque le “risorse umane” (orribile allocuzione) e la loro assennata
combinazione sono un fattore determinante di risultato.
E la “cultura organizzativa” elaborata e messa in opera costituisce
un insieme di variabili che, in correlazione complessa, operano la
diversificazione dei risultati a parità di ogni altra misura
amministrativa, compresa la politica di spesa, quali sono misurabili
nel confronto tra le diverse arre del Paese.
Investire in “risorse umane” (lo stereotipo usuale della
“formazione”)? Certo.
Ma perché non incentivarne lo scambio e la mobilità? Favorire una
“migrazione” di dirigenti e docenti in senso opposto. O una
migrazione ed un ritorno finalizzato? Perché non “copiare” nella
scuola il progetto “Angels” del Ministro Barca destinato
all’Università? (Migrazione incentivata di giovani ricercatori in
prestigiosi centri di ricerca internazionali con l’impegno al
ritorno ed al trasferimento in patria dei modelli organizzativi
appresi..) Investimento a bassa intensità come quelli ricordati in
campo sanitario.. Che poco si sia discusso di quel progetto, è
tristemente significativo della rudimentalità del confronto
sull’investimento in istruzione, anche quando venga invocato come
salvifico del nostro futuro.
Se occorre aprire la black box e guardarci dentro, un protocollo
valutativo che si basi su strumentazione “a distanza” come report,
questionari, fascicoli rielaborati dal Ministero, interrogazioni e
risposte date dal valutato al valutatore sono del tutto
insufficienti.
Sono strumenti di ricerca da utilizzare appropriatamente, ma
tutt’altro che esaurienti e esaustivi. Anzi contengono sempre un
doppio rischio.
In primo luogo la “stereotipia” delle risposte e la deformazione del
materiale diagnostico. In secondo luogo l’effetto della tentazione
di moltiplicare gli strumenti di rilevazione formale, i report
richiesti, i questionari da compilare. Una vera e propria “molestia
documentaria” che le scuole già conoscono, e che cercano di
neutralizzare.
Può sembrare che fondare un protocollo valutativo su tali strumenti
garantisca “oggettività” e comparabilità della rilevazione. E anche
semplificazione e minori costi. Ma a prezzo della insignificanza
diagnostica.
Nulla di tutto ciò sostituisce l’osservazione diretta sul campo
(neppure nell’analisi di un bilancio) e l’assunzione critica di
tutti i rischi che ciò comporta (i difetti intrinseci
dell’osservazione, la clinica della elaborazione del rapporto
asimmetrico tra valutato e valutatore).
Ma, delle tre colonne che dovrebbero fondare il sistema nazionale di
valutazione (autovalutazione, miglioramento, valutazione esterna),
quest’ultima è lasciata in completa assenza di sperimentazione. (e
l’andamento dell’ultimo concorso ispettivo sembra convalidare tale
insignificanza).
Le proposte in gioco (vedi anche VALES) sembrano esentare
dall’impegno in ricerca e formazione dei valutatori che sarebbero
ancor più necessari per un protocollo di osservazione sul campo.
E invece proprio il sistema della ricerca educativa è stato
smontato. (Vedi l’ormai decennale processo di “riorganizzazione”, in
realtà destrutturazione, del sistema della ricerca educativa )
Ma allora, meno enfasi innovativa, per favore.