La scuola nel dibattito elettorale.
Quali priorità

di Antonio Valentino ScuolaOggi 4.2.2013

È difficile se non impossibile “correggere” Maurizio Tiriticco. Che, prendendo spunto da alcune interviste - sull’importanza della cultura umanistica - ai candidati premier di queste elezioni (Il Sole 24 ore, di domenica 3), polemizza, da par suo, con le risposte che ne danno, perché generiche, inconsistenti, sbagliate. Provo, in prima battuta, a porre qualche domanda dull’iniziativa del quotidiano della Confindustria.

La prima riguarda il senso dell’oggetto di discussione, “valore intrinseco della cultura”.

Grande tema, come si sa, su cui si dibatte da sempre, rilanciato recentemente in Italia dagli ultimi due libri di Martha Nussbaum, pubblicati dal Mulino [1].

Ma, in una campagna elettorale, l’argomento delle interviste può essere quello lì proposto?

Era normale che, a fronte di domande su quel tema, le risposte fossero generiche e irrilevanti.

 

Allora la polemica va sollevata nei confronti dei vari candidati premier o di certo giornalismo che ripropone dibattiti, con questi candidati, decisamente iperuranici in clima elettorale?

 

Comunque un elemento di rilievo in una risposta c’è; e lo propone Bersani. Dice il segretario del PD: ““Va certamente irrobustita la presenza dell’arte e della musica nei programmi scolastici, ma è altrettanto importante che queste discipline siano proposte da insegnanti capaci …”.

È strettamente legato a questa considrazione il nodo che, penso, andrebbe proposto come prioritario in un dibattito elettorale sulla scuola: la centralità, in qualsiasi processo riformatore cui si voglia dare gambe, di insegnanti “all’altezza”, formati, motivati, “considerati”,valorizzati.

 

Allora le domande - se si è dentro a questo tipo di ragionamenti - diventano altre e molto più concrete.

Sono le domande intorno a cui ruota, ad esempio, una ricerca promossa dalla Editrice Pearson e dalla Rivista The Economist, il cui rapporto è stato pubblicato nello scorso novembre (c’è stata una qualche eco anche sulla stampa nazionale). Illuminante il titolo del capitolo principale: “Getting teachears who make a difference.

Vale la pena di riproporre le indicazioni di lavoro più importanti del Rapporto, in quanto emerse dall’osservazione e dai dati dei paesi collocati ai livelli più alti della classifica dei sistemi scolastici che, anche secondo altre rilevazioni, meglio funzionano.

Questi gli aspetti rilevanti su cui sarebbe importante che, anche da noi, si aprisse una riflessione in vista della prossima legislatura.

 

1. Attrarre alla professione le persone migliori

Si conferma nell’indagine – ma ce n’era bisogno – che, per avere buoni insegnanti, bisogna cominciare dal reclutamento.

Reclutare ‘persone di talento’ è la prima mossa.

Finlandia e Corea del Sud - i due Paesi in testa alla classifica dei migliori sistemi formativi - attingono per il loro fabbisogno annuale in misura, rispettivamente, del 10% e del 5% dal top dei laureati.

La chiave di successo per tale forma di reclutamento è da ricercare nella considerazione di cui gode l’insegnamento in questi stati.

La retribuzione - affermano gli studiosi che hanno curato la ricerca - può avere un qualche peso; ma non proprio come incentivo, quanto piuttosto come segnale distatus sociale.

 

2. Garantire una giusta formazione

Tre gli aspetti - che nei paesi meglio classificati sono particolarmente curati – a cui si annette importanza nel Rapporto conclusivo.

Il primo è che la formazione dei nuovi assunti deve essere appropriata alle situazioni in cui essi lavorano.

Il secondo: la formazione necessita di continuo sviluppo. Gli studiosi che hanno curato il Rapporto annotano al riguardo che è fattore di successo la cura dell’autoformazione durante l’intera vita professionale.

L’ultimo – esplosivo per il nostro paese, ma, comunque, leva fondamentale in qualsiasi progetto che voglia rilanciare la scuola pubblica – suona pressappoco così: uno sviluppo professionale efficace (“diventare sempre più bravi”) viene favorito dall’esistenza di percorsi appetibili per l’avanzamento di carriera.

 

3. Considerare / trattare gli insegnanti come professionisti e quindi l’insegnamento come una professione.

La ricerca mette anche in evidenza che aspetti come lo sviluppo professionale continuo e l’autonomia professionale possano essere incentivi potenti per risultati migliori; ma anche che politiche volte a ottenere buoni insegnanti devono puntare a considerarli come professionisti cui si riconosce autonomia di decisioni. Considerarli come meri esecutori di disposizioni e di provvedimenti impartiti dall’alto non motiva, né responsabilizza.

 

4. Definire traguardi chiari e effettuare supervisioni reali sul lavoro degli insegnanti; e lasciare che vadano avanti.

Al riguardo, il dato che appare significativo è che i sistemi scolastici che funzionano meglio

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hanno chiara consapevolezza della forte relazione tra risorse investite e miglioramento dei risultati

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combinano standard impegnativi, bassa tolleranza degli insuccessi e chiara articolazione delle aspettative, con una forte responsabilità professionale. E il tutto all’interno di una organizzazione di lavoro collaborativo, per docenti e scuole;

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puntano sulla combinazione di rendicontazione (accountability ) e di autonomia, correlate ai miglioramenti ottenuti;

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incentivano chi utilizza le risorse all’interno di procedure di accountability e sono in grado di agire in autonomia.

“Nessuno però dei precedenti quattro fattori - si dice a ragione nella conclusione del Rapporto -, preso a sé stante, è sufficiente. Al contrario essi si sovrappongono e si supportano a vicenda e vanno considerati come un insieme coordinato di strategie da mettere a disposizione degli insegnanti e da utilizzare nei modi più efficaci”.

 

Non penso ci sia bisogno di alcun commento.

Né può valere la pena di misurarsi con l’obiezione, di comodo in questo caso, secondo cui le trasposizioni acritiche di scelte che in alcuni paesi vanno bene, in altri, con culture differenti, possono non funzionare.

Forse però, a ridosso delle elezioni, potremmo riprorre in termini espliciti l’interrogativo sulla “questione insegnanti” (con quel che significa ai diversi livelli): dovrebbe o no essere centrale nei programmi - sulla scuola - dei partiti politici, per la prossima legislatura?

Ma, c’è anche da chiedersi: quanta consapevolezza c’è, all’interno dello stesso pianeta scuola, della rilevanza di questo problema, che ci portiamo dietro da più decenni?

E non solo della rilevanza (su cui la condivisione potrebbe essere elevata), ma della necessità di portarlo in primo piano e di imporlo (contro inerzie e pigrizie – e paure -), nelle forme e attraverso i canali di cui si dispone?

Per esempio, le associazioni professionali e le commissioni scuole dei partiti - dove ci sono -; le organizzazioni sindacali e il mondo dell’editoria scolastica, delle rivisteon line o cartacee che parlano di scuola; e, perché no, gli organi collegiali interni, a partire dai Consigli di Istituto.

Ecco, caro Maurizio, un vero terreno di interrogazione e di proposta su cui dovrebbe valer la pena di far sentire la nostra voce.

 

[1] Marta Nussbaum, “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica” (2011) e “Creare Capacità. Liberarsi della ditttaura del PIL” (2012)