Puglisi (Pd): precari, reclutamento, autonomia, il Sussidiario 8.2.2013
Dopo il Pdl e Rivoluzione civile, è la
responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi, a
parlare di programmi con ilsussidiario.net. Va
così avanti il confronto a più voci, realizzato
sulla base delle stesse domande, che questo
giornale ha proposto alle principali formazioni
politiche candidate alle elezioni del 24 e 25
febbraio. Dai precari all’autonomia, dalla
spinosa questione della valutazione di docenti e
scuole al reclutamento dei nuovi docenti fino ad
autonomia e parità: ecco le proposte del partito
che candida Pier Luigi Bersani alla presidenza
del Consiglio.
L’idea chiave è, prima di tutto, di metodo
politico: la scuola ha subìto tagli, insulti e
riforme calate dall’alto. Se vogliamo restituire
centralità al sistema nazionale di istruzione,
allora non possiamo che ripartire dalla
condivisione. Qualsiasi legge, prima di divenire
tale, dovrà essere una proposta discussa e
condivisa dalla più larga parte del mondo della
scuola. I partiti devono fare un passo indietro
per poterne fare uno avanti: più umiltà nel
confronto con i vari soggetti che lavorano e
vivono nella scuola, più capacità di ascolto, e
anche più lungimiranza, più capacità di guardare
oltre. Questa restituzione di fiducia deve
essere accompagnata da una restituzione delle
risorse e per farlo dovremo agire sul bilancio
dello Stato. Non vogliamo raccontare favole,
quindi niente promesse mirabolanti, ma l’impegno
concreto a riportare gradualmente l’investimento
almeno al livello medio dei Paesi Ocse.
Taglieremo altrove, poiché consideriamo
l’istruzione un investimento e non una spesa, e
le prime tre urgenze che affronteremo
riguarderanno l’edilizia scolastica, la
dispersione e l’organico funzionale.
Abbiamo esaminato il regolamento del Governo sui
Tfa speciali e crediamo che sia una soluzione
ragionevole, e comunque parziale, al problema
che riguarda decine di migliaia di docenti che
da tempo attendevano un riconoscimento del
lavoro che da anni svolgevano nelle scuole.
Sappiamo che questa soluzione non accontenta
tutti, sappiamo che non è certo risolutrice del
precariato, ma sappiamo anche che si tratta di
una giusta risposta a giuste esigenze. Dopo di
che, ben altra è la strada che intendiamo
percorrere se dovesse toccare a noi governare il
paese. Dobbiamo metter mano al più presto a un
nuovo modello di reclutamento, equo e
trasparente, che dia certezze ai precari delle
graduatorie e un percorso che offra ragionevoli
speranze ai giovani che desiderano dedicare la
propria vita professionale all’insegnamento.
Senza rifare la storia del reclutamento del
personale docente nella scuola italiana,
sappiamo bene come dagli anni 80 in poi, per la
formazione e il reclutamento, siano state
approvate continue riforme, che non hanno fatto
altro che stratificare diritti, troppo spesso
lesi, e sistemi ingarbugliati di punteggi, che
di fatto hanno alimentato lo sfruttamento e la
precarizzazione di una categoria importante,
fondamentale per la vita del Paese, quale quella
dei docenti.
Si
pensi ai “sissini” (coloro che hanno frequentato
le Ssis, ndr) contro i precari delle
graduatorie, e poi ai precari favorevoli
all’inserimento “a pettine” contro quelli
favorevoli all’inserimento “a coda”, e oggi ai
Tfa ordinari contrari ai Tfa speciali: tutto
questo fa male alle persone e al sistema
dell’istruzione, perché alla precarietà del
vivere degli insegnanti, va aggiunto il danno
della precarietà dell’apprendere. Migliaia di
studenti ogni anno salutano maestri e professori
a giugno, nella quasi certezza di non ritrovarli
a settembre, dovendo quindi iniziare il proprio
lavoro daccapo. La nostra proposta prevede un
piano pluriennale di esaurimento delle
graduatorie per eliminare la precarietà dalla
scuola (non costa un euro in più stabilizzare
chi lavora su posti vacanti) e offrire la
necessaria continuità didattica agli studenti.
Occorre, poi, un nuovo sistema che leghi la
formazione iniziale al reclutamento,
selezionando tramite concorso i migliori
laureati per l’accesso alla formazione iniziale,
secondo numeri programmati al fabbisogno; anno
di prova attraverso tirocinio e supplenze brevi
accompagnati da un insegnante esperto, firma del
contratto a tempo indeterminato. Se tocca a noi,
questo sarà il nostro impegno.
Siamo contrari all’assunzione diretta, poiché
inevitabilmente porterebbe a favoritismi, a un
crescente nepotismo, soprattutto in un paese
come il nostro dove, e lo si è visto spesso
purtroppo, già si fa fatica a rispettare le
regole che ci sono. Un meccanismo di assunzione
diretta non premierebbe gli insegnanti migliori,
ma quelli che hanno più santi in paradiso o
magari una certa tessera di partito o sindacale
o associativa in tasca o quelli residenti in una
zona piuttosto che in un’altra. Basta ricordare
gli appelli leghisti per avere insegnanti
“padani” nelle scuole del nord, per immaginare
ciò che potrebbe accadere.
La
valutazione non può essere il “premio o la
punizione” per il singolo docente, e il
fallimento di Valorizza, il progetto del
ministro Gelmini basato sulla “reputazione”
individuale è lì a dimostrare come altri debbano
essere i metodi. Crediamo che nella scuola non
serva maggiore competizione tra docenti, ma una
migliore collaborazione. Lo testimonia la scuola
primaria, la scuola eccellente prima dei tagli,
dove il lavoro e la cooperazione di quei team
didattici che la Gelmini ha rottamato permetteva
ai bambini e alle bambine italiane di avere
livelli di apprendimento tra i più alti
d’Europa. Quella cooperazione tra docenti
andrebbe incentivata nella scuola secondaria di
primo e secondo grado.
Gli
scatti di anzianità non sono l’unica strada
possibile per differenziare le carriere degli
insegnanti. A quelli si possono aggiungere
percorsi di valorizzazione delle competenze dei
docenti, svolgendo appieno quella libertà di
organizzazione della didattica che è stata già
da noi introdotta con la legge dell’autonomia.
Questa discussione deve essere affrontata con il
nuovo contratto nazionale, che deve permettere
una approfondita e aperta discussione per
restituire prestigio alla professione di
insegnante.
Dal
Regio Decreto Casati del 1859 a oggi, qualche
passo nello stato giuridico degli insegnanti è
stato fatto, e quando è avvenuto un cambiamento
giuridico, esso è sempre stato collegato a una
profonda riforma del mondo della scuola. Anche
in questa legislatura, il centrodestra ha
provato a far passare un nuovo stato giuridico,
mentre Tremonti stava portando alla scuola il
più feroce attacco della storia repubblicana.
Verrebbe da chiedersi, allora, se la modifica
dello status non sia direttamente collegata al
tentativo di modificare il dna della scuola
italiana, trasformandola da istituzione
eminentemente pubblica a istituzione privata.
Un
sistema di valutazione è indispensabile, perché
è il giusto contraltare all’autonomia
scolastica. La valutazione deve essere uno
strumento di lavoro utile agli insegnanti e alle
scuole per permettere di guidare i ragazzi e le
ragazze ad avere livelli di apprendimento,
abilità e competenza paragonabili ai loro
coetanei europei. Più che il meccanismo
premio/punizione, ci sembra utile una
valutazione efficace che indichi e imponga
percorsi di miglioramento (formazione, risorse
tecnologiche e finanziarie) alle scuole che
mostrano gravi deficit nell’offerta formativa.
Siamo convinti che nessuna misura singola può
cogliere tutti gli aspetti del lavoro educativo:
occorre quindi combinare osservazioni da punti
di vista diversi. Inoltre, nessun sistema di
valutazione esterno è in grado di individuare il
contributo del singolo docente: quello che conta
è il risultato del lavoro di squadra di tutto il
personale della scuola. La valutazione deve
servire a far raggiungere a ciascuna scuola il
massimo del proprio potenziale, accompagnandola
verso il miglioramento, con l’istituzione di un
unico Istituto Nazionale per la Valutazione e la
Ricerca Educativa. Quindi la valutazione deve
essere riferita alla scuola nel suo insieme e
basarsi su indicatori di apprendimento degli
studenti, osservazione diretta di esperti,
analisi dell’efficacia della scuola per gli
sbocchi educativi o lavorativi successivi: il
tutto ovviamente depurando dalle condizioni di
partenza degli studenti e dal contesto
socio-economico in cui opera la scuola.
Non
è con l’Invalsi che si alza il livello di
apprendimento, ma le rilevazioni debbono essere
uno strumento dato in mano agli insegnanti per
capire se ciò che stanno facendo può essere
migliorato. Crediamo anche che sia stato un
errore utilizzare le prove Invalsi per dare voti
ai ragazzi, e non si è investito abbastanza per
aiutare il dialogo tra l’istituto e gli
insegnanti, dialogo che va ripreso, sostenuto e
migliorato.
La
legge di parità è stata votata da tutto il
centrosinistra di governo, dai Comunisti
italiani all’Udeur, ed è stata emanata perché in
precedenza i fondi alle scuole private erano
erogati senza alcun criterio. Ora possono
ricevere fondi dallo Stato solo le scuole che
svolgono una funzione di pubblica utilità.
Sappiamo che i tagli del governo di centrodestra
hanno danneggiato pesantemente sia le scuole
statali, sia le paritarie. Oggi una
contrapposizione non avrebbe senso: dobbiamo far
sì che l’intero sistema nazionale, rispettando
rigorosamente le leggi, faccia un passo avanti
per il bene del Paese.
L’autonomia scolastica è ancora tutta da
realizzare, e con i tagli dei governi di
centrodestra, con la concezione della scuola
come specchio della società, anziché come
ascensore sociale, ben difficilmente si sarebbe
potuta attuare. Autonomia non significa, però,
parcellizzare il sistema scolastico italiano in
tante scuole dotate ognuna di un proprio status
giuridico e finanziariamente lasciate ai propri
destini. Dobbiamo tornare a rileggere con
attenzione la nostra Carta Costituzionale: la
scuola non è un “servizio” che lo Stato eroga ai
cittadini, dobbiamo invece considerarla un vero
e proprio organo costituzionale, cui è affidato
il compito, dall’articolo 3 della Costituzione,
di rimuovere gli ostacoli di origine economica e
sociale che si frappongono fra i cittadini e la
loro piena partecipazione alla vita economica e
sociale del Paese. Pensare a una “scuola di
mercato” significherebbe ingessare per sempre le
differenze di censo e rinunciare a ogni
prospettiva di reale mobilità sociale. I livelli
di apprendimento che dobbiamo garantire
dovrebbero essere uguali da Aosta a Lampedusa,
dal centro di Milano alla sua periferia, e per
far questo dobbiamo mantenere forte un sistema
nazionale pubblico di istruzione. Autonomia
significa meno burocrazia, meno centralismo
verticistico ministeriale, più spazio alla
innovazione didattica, più responsabilità per i
vari attori della scuola, non significa che lo
Stato detta le regole e poi fa da arbitro,
significa anzi che lo Stato e gli enti locali,
secondo responsabilità ben definite, sostengono
le scuole, i docenti, gli studenti, i genitori,
gli Ata, le istituzioni pubbliche e private,
affinché il sistema funzioni meglio. Credo che sia necessaria una forte collaborazione tra scuole, enti locali e imprese per rilanciare l’istruzione e la formazione tecnica e professionale e sostenere il Made in Italy nel mondo. Siamo stati un grande Paese industriale quando abbiamo avuto eccellenti periti industriali. Vogliamo investire nella costituzione di poli dell’istruzione e formazione tecnica e professionale dove si possano innescare virtuose sinergie tra scuole, enti di formazione, mondo dell’università e della ricerca, imprese, enti locali. È necessaria una strategia nazionale che preveda la piena realizzazione di “tutti i tasselli” delle filiera professionalizzante − percorsi di IeFp, Ifts, Its; apprendistato – individuando anche nella nuova programmazione comunitaria le risorse finanziarie necessarie. |