INCHIESTA SCUOLA/3
Medie e superiori preparano Enrico Gori, Raffaella Marin il Sussidiario 25.2.2013 3. Tassi di accesso ai diversi gradi di istruzione - L'analisi dei tassi di accesso ai diversi livelli di istruzione riveste un interesse ovvio. Nei paesi in via di sviluppo, ad esempio, il tasso di accesso all'istruzione primaria è uno degli indicatori più importanti per valutare il raggiungimento degli obiettivi di alfabetizzazione di base. Nei paesi ricchi tale indicatore può risultare meno interessante poiché, in forza delle leggi sull'obbligo scolastico, nella maggioranza delle situazioni tale tasso raggiunge il livello del 100%. L'interesse si sposta allora verso la considerazione dei tassi di accesso all'istruzione secondaria e terziaria (sempre secondo le definizioni della Banca Mondiale). Anche il tasso di accesso all'istruzione pre-primaria (scuola dell'infanzia) riveste, tuttavia, un notevole interesse in tutti i paesi in quanto, data la non obbligatorietà dell'accesso, molti economisti dell'educazione e dello sviluppo guardano sempre più a tale forma di intervento come un mezzo efficace per contrastare le differenze e lo svantaggio sociale. Di recente ricerche OCSE hanno evidenziato che, al netto degli altri fattori sociali, si osserva un forte effetto positivo, sul livello di apprendimento di Matematica a 15 anni, derivante dall'avere frequentato la scuola dell'infanzia. La differenza tra tassi di accesso "gross" e "net" si riferisce al fatto che nel caso "net" il rapporto rappresenta la % di persone iscritte al grado di istruzione di interesse in età prevista per tale grado (quindi non può mai essere superiore a 100%), invece "gross", in particolare per l'istruzione Terziaria, è il rapporto tra il totale degli iscritti a tale grado di istruzione e il totale della coorte di persone nella classe quinquennale di età che segue la fine della scuola secondaria. Dall'analisi dei dati della Banca Mondiale si desume quanto segue. Tassi di accesso alla scuola dell'infanzia e primaria. I tassi di accesso alla scuola dell'infanzia sono ormai giunti nel nostro paese ai massimi livelli già da 20 anni, superando da tempo gran parte degli altri paesi OCSE. Se da un lato questo può rappresentare un fatto positivo, dall'altro significa che politiche educative volte al miglioramento dei risultati di apprendimento nei gradi di istruzione successivi non potranno sfruttare questa variabile, e dovranno invece porre con forza, per la prima volta, la questione della qualità ed efficacia delle strutture preposte all'educazione pre-primaria, indagando i livelli di apprendimento con i quali i giovani in uscita dalla scuola dell'infanzia si presentano al primo anno della scuola primaria. Gli elevati livelli di partecipazione alla scuola dell'infanzia, rispetto agli altri paesi OCSE e non OCSE, lasciano inoltre intuire che la scuola primaria italiana goda di un ovvio vantaggio rispetto agli altri sistemi educativi, proprio in ragione del maggior bagaglio conoscitivo dei giovani che vi fanno ingresso, e pertanto migliori risultati nelle indagini TIMSS sono in parte attesi. La scuola primaria ha, ormai da 40 anni, tassi di accesso che superano il 98%; fa comunque riflettere il fatto che ancora nel 2010 ci possa essere un 1-2% della popolazione dei giovani da 6 a 10 anni che sfuggono all'obbligo scolastico: in base a coorti medie di 500mila nati, questo significa che un numero di ragazzi tra 25 e 50mila non frequenta la scuola primaria. Tassi di accesso all’istruzione secondaria. Per quanto concerne l’accesso all’istruzione secondaria, nel 2010 si è raggiunta la punta massima del 94% (netto) che costituisce un livello medio tra i paesi considerati; tali elevati livelli sono tuttavia un fenomeno relativamente recente per l’Italia: ancora nel 1999 il tasso di accesso era solo dell’85%. Tenuto conto che il tasso di accesso riguarda la scuola media inferiore e quella superiore nel complesso, ipotizzando un 100% per i 3 anni della scuola media inferiore, risulta che l’accesso alla media superiore si ricava approssimativamente dalla seguente equazione (3*100+5*x)/8 = tasso osservato. Risolvendo la semplice equazione descritta, si desume che nel 2010 circa il 10% dei giovani in età risultano non avere accesso alla scuola secondaria, mentre tale dato era del 24% nel 1999; questo ha comportato una riduzione del numero potenziale di diplomati di circa 50mila studenti rispetto alle coorti di nati, e ciò ovviamente implica una riduzione del numero di matricole potenziali per l’università. Tuttavia, pur esistendo qualche leggero margine di recupero, sembra ormai raggiunto il limite fisiologico per l’espansione dell’istruzione secondaria; va comunque rilevato, in termini storici, che la crescita dell’istruzione secondaria in Korea era iniziata molti anni prima: intorno agli anni 80 il paese asiatico ci ha raggiunto e superato, pur provenendo da livelli di accesso tra i più bassi, mantenendo livelli di accesso di 10-15 punti percentuali superiori ai nostri per oltre vent’anni. In sostanza quindi, per quanto riguarda l’istruzione pre-universitaria, si può dire che la lunga marcia, durata oltre 40 anni, verso il raggiungimento dei livelli quantitativi (100% di accesso o quasi) dei paesi più avanzati è ormai giunta al termine: ipotizzando che il sistema sia in grado di mantenere tali livelli per il futuro, resta aperto il problema della qualità degli apprendimenti, questione rispetto alla quale, come si è visto nel paragrafo precedente, il nostro paese deve fare ancora molta strada, sia rispetto ai livelli medi mondiali, sia rispetto al livello dei paesi più virtuosi. E purtroppo si tratta della strada più difficile da percorre. Rilasciare un titolo di studio è relativamente facile, ma i livelli di eccellenza (rispetto a scale di misura oggettive) non si raggiungono per provvedimento amministrativo. Tassi di accesso all’istruzione terziaria. Per quanto riguarda l’accesso all’istruzione terziaria, nei primi anni 70 l’Italia si trovava nelle prime posizioni: d’altronde l’Universitas l’avevamo inventata noi a Bologna, poco dopo l’anno mille! Il declino è subentrato nei primi anni 80 quando il tasso di accesso si è stabilizzato attorno al 20% per tutto il decennio, con una lieve ripresa sul finire del decennio stesso: dall’analisi dei tassi di accesso alla secondaria viene immediato capire che tale stagnazione fu dovuta soprattutto al mancato accesso alla scuola secondaria. Dai primi anni 90 la crescita del tasso di accesso all’istruzione terziaria si è attestata sul livello mediano dei più ricchi paesi OCSE, giungendo intorno al 65% nel 2010: mentre i paesi più virtuosi raggiungono ormai livelli dell’80-90%, con la Korea che arriva al 100%. Se da un lato i livelli koreani possono risultare per certi versi eccessivi, dall’altro un aumento di una decina di punti percentuali nel tasso di accesso appare del tutto auspicabile: un aumento del 10% significherebbe in sostanza, per i livelli del 2010, un obiettivo di circa 50mila matricole in più, visto che le coorti di 19enni si attestano attorno alle 500mila unità. Tenuto conto di questi dati, desta quindi giusta preoccupazione la riduzione del numero di matricole registrata in questi anni, rispetto alla quale non ci si può esimere dalla ricerca delle possibili cause.
In questo senso si possono fare alcune ipotesi, anche se inevitabilmente grossolane. Tra i possibili fattori che spiegano la riduzione delle matricole possiamo annoverare i seguenti. a) Carenze di accesso alla secondaria − Da un lato, una parte del problema sta nella già osservata carenza di accesso all’istruzione secondaria: se nel 2010 circa il 10% dei giovani in età risultano non avere accesso alla scuola secondaria, questo implica un 50mila maturi in meno rispetto alle coorti di 500mila 19enni che caratterizzano il periodo considerato; ad un tasso di accesso medio all’università del 65% questo fattore spiega per i prossimi anni una carenza di 30-35mila matricole, rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare. b) Qualità dei diplomati − Uno dei fattori che maggiormente spiegano la variabilità nell’accesso al livello di studi successivo e nelle scelte di percorsi di studio impegnativi è, da sempre e in ogni luogo, il livello di conoscenze con il quale si esce dal livello di studi precedente. Questa, oltre a costituire una cosa del tutto ovvia, è anche un fatto empiricamente dimostrato da decine di studi longitudinali su micro-dati, e quindi non affetti dal rischio di correlazione spuria da dati aggregati; alcuni hanno validato tale ipotesi, correggendo gli effetti anche per la possibile selection-bias. La scarsa propensione all’accesso agli studi universitari da parte dei diplomati potrebbe dunque avere una spiegazione in livelli di apprendimento in uscita dalla medie superiori non sufficientemente elevati da stimolare la propensione alla prosecuzione degli studi. Tale propensione potrebbe inoltre risultare ulteriormente ridotta dallo spauracchio dei test di ammissione che, negli ultimi anni, hanno preso sempre più piede nelle università italiane. A favore di una tale ipotesi (livelli di conoscenza troppo bassi) stanno vari fattori: le esperienze sempre più deludenti che si vivono insegnando e facendo esami nell’università a coorti di studenti sempre più smarriti e privi di spirito critico, i bassi livelli ottenuti nei test di ammissione dalle matricole, le carenze nelle conoscenze OCSE-PISA a 15 anni (che inevitabilmente non vengono colmate entro i 19 anni, tanto meno con i corsi di recupero organizzati dalle università all’inizio del primo anno); la distribuzione dei maturi, per voto di maturità, in base a dati MIUR, mostra inoltre una riduzione dei maturi con voto di maturità alto, tra il 2004 ed il 2007, ed un aumento dei maturi con voto di maturità basso: rispettivamente meno e più 5% circa; a questo riguardo si noti che, nell’ipotesi che i maturi con voto basso abbiano una propensione all’accesso all’università del 25%, e quelli con voto alto del 75% (dato non troppo fuori della realtà), la variazione del 5% implica quanto segue: 5% su coorti di 400mila maturi significano 20mila individui, di questi, quelli con voto di maturità basso proseguono in 5mila in più, quelli con voto di maturità alto in 15mila in meno; ne risulta un calo di 10mila iscritti dovuto alla riduzione della qualità dei maturi! Sarebbe opportuno che il MIUR mettesse a disposizione dati adeguati a verificare tale ipotesi, che tuttavia appare altamente plausibile. Va qui osservato che il meccanismo causale qui descritto (propensione alla prosecuzione degli studi ridotta a causa della bassa qualità degli apprendimenti), vale purtroppo anche per il passaggio dalla media inferiore alla media superiore: in sostanza non si può puntare al recupero di quel 10% di accessi alla secondaria superiore, di cui al punto precedente, se non si accrescono i livelli di apprendimento nella scuola elementare e media inferiore. c) Altri fattori − Un’altra possibile spiegazione potrebbe risiedere nella scarsa appetibilità della laurea ai fini occupazionali, ma studi già citati sui rendimenti dell’istruzione terziaria escludono che possa trattarsi di questo e anche i dati sulla quota di forze di lavoro con titolo di studio terziario evidenziano che, anzi, vi è ancora ampio spazio per la valorizzazione della laurea in ambito lavorativo, anche se qui ovviamente si apre tutta la questione della ripresa economica e del futuro produttivo del nostro paese, sul quale gravano molte incognite. Un altro elemento che invece può spiegare la riduzione del numero di immatricolati è l’esaurimento delle coorti di “anziani” che negli anni precedenti la riforma lasciavano l’università con qualche esame sostenuto e che, dopo la riforma, si sono re-iscritti come “matricole”: molto probabilmente il fenomeno si va riducendo, come del tutto ovvio. Purtroppo, in passato, abbiamo vissuto anni “drogati” sotto questo punto di vista. Adesso, e sempre più in futuro, si dovranno fare i conti con le sole coorti di 19enni. Per quanto riguarda l’università permane comunque un dubbio di fondo, che solo nei prossimi anni, attraverso ricerche del tipo PISA estese anche ai primi anni di università si potranno fugare: la qualità dei laureati. Vista la situazione al 4°, 8° grado di istruzione e a 15 anni, a meno di miracoli compiuti nei primi anni di università, c’è da attendersi un ovvio “in media”. Questo già sarebbe un buon risultato, visto che le regole di finanziamento presenti da quasi 20 anni nell’università italiana hanno da sempre incentivato la quantità più che la qualità, spesso confusa con i giudizi espressi nei confronti dei docenti, che alcuni studi mostrano avere una correlazione addirittura inversa rispetto alla qualità degli apprendimenti e al successo negli studi. |