INCHIESTA SCUOLA/4

I soldi non c'entrano. Servono meno prof ma più bravi

Enrico Gori, Raffaella Marin il Sussidiario 26.2.2013

Ultimo articolo dell'inchiesta di Enrico Gori e Raffaella Marin sullo scarso livello degli studenti italiani in ingresso all'università . Leggi qui la primala seconda e la terza puntata.
 

4. Rapporto studenti/docenti nei vari gradi di istruzione - Un colpo d'occhio generale ai grafici suggerisce che il numero di studenti per docente si sta riducendo in tutti i paesi, per quanto riguarda l'istruzione pre-primaria, primaria e secondaria; invece nell'istruzione terziaria, tale rapporto appare stabile o leggermente in aumento nell'arco dei 40 anni considerati. La variabilità  tra paesi è molto accentuata. A questo riguardo vale proprio la pena di evidenziare la situazione italiana in rapporto alla distribuzione mondiale e a quella della Korea. Già  dai primi anni 90 numerosi studi evidenziarono che l'Italia era caratterizzata da una stridente dicotomia: un rapporto studenti/docenti estremamente basso nella scuola primaria, ed un analogo rapporto estremamente alto per l'università . Dall'analisi dei dati della Banca Mondiale adesso è possibile affermare che: a) tale dicotomia non è cambiata nei 40 anni tra il 1971 ed il 2010; b) la situazione dell'Italia è di carattere eccezionale rispetto all'universo di riferimento; c) la Korea si trova in situazione diametralmente opposta alla nostra nei livelli di istruzione pre terziaria: quindi poche risorse umane in rapporto agli studenti iscritti; per l'istruzione terziaria invece, Italia e Korea presentano valori molto vicini anche se la Korea gode di un rapporto studenti/docenti inferiore e quindi di un maggior numero di risorse umane in rapporto agli iscritti.

Molti studi scientifici hanno ormai evidenziato l'impossibilità  di stabilire un nesso di causa-effetto tra risorse e risultati di apprendimento, in tutti i gradi di istruzione. Tale nesso presunto sopravvive oggi solo nell'immaginifico dei giornalisti, dei politici, dei sindacalisti e di qualche ricercatore poco informato: il confronto Italia-Korea sotto questo punto di vista è una conferma se non una prova di questa assenza di relazione. La scuola primaria italiana presenta risultati "soltanto" di livello medio nelle indagini IEA-TIMSS sulle conoscenze di matematica nel 4° grado di istruzione, a fronte di una dotazione di risorse umane estremamente abbondante, e di un vantaggio relativo rispetto ad altri paesi dovuto ad una scuola dell'infanzia, altrettanto ben dotata di risorse, che ormai abbraccia la quasi totalità  dei bimbi in età  pre-scolare. Ma la Korea riesce ad ottenere risultati di gran lunga superiori a quelli dell'Italia con quasi la metà  delle risorse umane in rapporto agli studenti, sia nella scuola primaria che nella scuola dell'infanzia!

E' ovvio che in assenza di chiari nessi di causa-effetto tra risorse e risultati, ogni paese tenderà  a valutare l'indicatore in questione con riferimento agli altri paesi: quelli sovra-dimensionati avranno uno stimolo alla riduzione delle risorse osservando quelli meno dotati, che comunque garantiscono un'istruzione di qualità  ai propri studenti (vedi Korea), mentre per quelli sotto-dimensionati accadrà  esattamente l'opposto. Da qui, probabilmente, la parvenza di "convergenza verso un valore medio" che si evince dai grafici nell'arco di 40 anni. 

Va da sé che in ambito scolastico sono in atto forze inerziali difficilmente contrastabili: un aumento di insegnanti, a fronte di un improvviso aumento delle nascite, produrrà inevitabilmente un esubero di risorse umane in rapporto alle future generazioni se le nascite iniziano a calare sensibilmente. E questo è in parte il caso dell’Italia, ma anche di altre nazioni. La domanda è: come utilizzare un eventuale “esubero” di risorse umane per tentare di accrescere la qualità degli apprendimenti di coorti di giovani in diminuzione? Altre possibili domande sono: forse sarebbe meglio puntare ad un minor numero di insegnanti, ma più qualificati e meglio remunerati? 

Conclusioni − Si spera che i dati qui riportati possano costituire uno stimolo alla riflessione sull’istruzione, non limitata all’università, ma estesa a tutti i livelli. Dall’analisi dei dati emerge che gran parte degli squilibri del nostro paese rispetto alla realtà OCSE, che hanno motivato la stagione delle riforme iniziata a metà degli anni 90, sono tuttora in atto e sotto questo profilo le politiche applicate appaiono poco efficaci. A nostro parere un punto cruciale è costituito dal livello degli apprendimenti nei diversi gradi di istruzione che risulta troppo basso in rapporto agli elevati standard dei più virtuosi paesi OCSE: in particolare il nostro sistema non è in grado di portare quote consistenti di studenti a livelli di eccellenza e produce una sorta di mediocrità che probabilmente è anche alla base del rallentato sviluppo dell’accesso all’istruzione terziaria. 

Ovviamente il dibattito su cosa sia in grado di accrescere il livello degli apprendimenti è del tutto aperto, ma una delle condizioni fondamentali è quella che gli studenti che investono in istruzione e le loro famiglie siano in grado di capire finalmente che non è il “pezzo di carta” che conta, ma è il livello di conoscenze-competenze raggiunto nelle discipline fondamentali, nell’istruzione primaria e secondaria, e in quelle specialistiche per quella terziaria, che è veramente importante. Gli economisti dell’istruzione hanno scoperto questo fatto solo di recente (si veda Gori E. (2004), L'investimento in Capitale Umano attraverso l'Istruzione, in G. Vittadini (a cura di) (2004) “Capitale Umano. La ricchezza dell'Europa”. Guerini ed.). 

Altro fatto fondamentale di cui bisogna diffondere la consapevolezza è che le conoscenze-competenze non sono misurate dal voto assegnato dagli insegnanti che spesso, per il quieto vivere, attribuiscono più sufficienze di quello che sarebbe naturale. Livelli di eccellenza e altri livelli inferiori, oggettivi, possono essere esattamente definiti attraverso scale di misura analoghe a quelle usate nelle indagini internazionali. Gli studenti e le famiglie devono essere resi consapevoli del loro diritto a conoscere il livello raggiunto rispetto a tali scale oggettive, in un qualsiasi momento dell’anno scolastico, e questo a livello individuale. Non è più sufficiente che siano resi noti i livelli medi di scuola: tale informazione, oltre a poter risultare inaffidabile poiché non tiene conto del valore aggiunto (ovvero della composizione degli studenti), non consente allo studente e alla famiglia di poter svolgere un’azione di sussidiarietà all’azione di valutazione formativa, spesso carente a livello scolastico, volta a recuperare per tempo eventuali carenze nel percorso di sviluppo. 

Un dato per tutti deve essere divulgato al pubblico: l’Italia sta sotto gli Stati Uniti in ogni livello di istruzione analizzato dalle indagini internazionali, ma gli Stati Uniti hanno varato nel 2001 una legge che va sotto il nome di “No Child Left Behind Act”, la quale sancisce il principio che nessun ragazzo debba essere lasciato indietro nella crescita verso il raggiungimento di elevati standard di conoscenza. Non siamo qui a raccomandare l’impiego degli strumenti previsti da tale legge (voucher, chiusura delle scuole inefficaci, privatizzazione ecc.) ma a consigliare che le non poche risorse umane presenti nella scuola italiana (anche se forse sotto pagate, ma oggi avere un lavoro è già qualcosa!) siano in parte impiegate nel controllare che la crescita di ogni studente risulti adeguata a standard sempre più elevati e che si provveda ad azioni di recupero in maniera sufficientemente frequente da rendere possibile il recupero medesimo: un debito nell’ambito della conoscenza diventa spesso una voragine incolmabile se non la si recupera in tempo. 

Gli istituti nazionali di valutazione, ovviamente impossibilitati a giungere al livello del singolo studente (purtroppo l’unico livello che conta veramente), dovrebbero limitarsi a 5 azioni fondamentali:

1.  sensibilizzare le famiglie riguardo al valore degli apprendimenti e all’importanza di una sua misura oggettiva e sistematica;

2.  costruire la scala di misura oggettiva per le discipline fondamentali;

3. costruire su un campione nazionale di studenti curve di crescita degli apprendimenti, dal primo anno delle elementari all’ultimo anno delle superiori, in modo da ottenere carte di controllo (analoghe a quelle del peso per i neonati) rispetto alle quali poter collocare in ogni momento, attraverso un test, il livello di un qualsiasi studente;

4. costruire un’interfaccia web che consenta ad ogni studente, ad ogni famiglia, ad ogni insegnante di conoscere il livello del singolo, o di un gruppo di studenti, in ogni momento dell’anno; 

5. aiutare le scuole ad organizzare con cadenza frequente azioni di recupero individuali e di gruppo, anche “rompendo” il concetto di classe ed introducendo quello di “gruppo di livello” almeno per il tempo necessario al recupero.

Si tratta di una strategia che risulta ben sperimentata da parte di organizzazioni quali la NWEA, valida sia per scuole pubbliche  che private, ed è una delle poche azioni di “accountability” in grado di favorire l’unica attività che ha qualche speranza di ottenere qualche risultato di miglioramento dei livelli di conoscenza, ovvero una azione di “valutazione formativa” continua e costante nel tempo. Per inciso, ma si fa per dire, questa impostazione sarebbe l’unica in grado di mettere in contrasto gli interessi degli stakeholders (le famiglie) e quelli dei produttori (le scuole), rendendo inutili strategie di cheating che, purtroppo − risultati INVALSI docunt −, sono state ben apprese ed implementate nelle scuole italiane.

(4/4 - fine)