Il nuovo Ministro e il traffico postale.
Una lettera per tutti gli altri.
Franco De Anna ScuolaOggi 21.2.2013
Buon segno il generale richiamo (sia pure deluso dalle risposte) a
verificare quanto spazio sia dedicato alla scuola ed alla cultura
nelle “agende” politiche del confronto elettorale.
Non aggiungo nulla a quei messaggi se non un invito a superare il
“mipiacenonmipiaccismo” alle cui semplificazioni sembra si
mortifichi anche “l’artiglio dell’opposizione”.
I dati della caduta delle iscrizioni universitarie sono utili come
rappresentazione paradigmatica di un “punto di flesso” nella curva
storica della generalizzazione dell’istruzione nel nostro Paese. (La
“sfida storica” della scolarizzazione di massa). I dati in quanto
tali sono ovviamente falsificabili (scontano p.es. l’effetto del
passaggio dell’onda anomala costituita dalla istituzione dei corsi
triennali e il loro sostanziale fallimento. Ma questo dovrebbe
costituire un elemento di attenta valutazione delle strategie
pubbliche attuate e sul come sono state implementate, e con quali
responsabilità, non solo ministeriali). Ma ciò che conta qui è il
fatto che essi segnalano un punto di rottura entro lo sviluppo
storico del “valore dell’istruzione”.
O meglio: la rottura della dialettica storica tra i “due valori” del
sapere e del loro riconoscimento sociale. Il “valore assoluto” come
valore universale (incondizionato) di eguaglianza. E il “valore
economico” del sapere che si incorpora (almeno dalla seconda
rivoluzione industriale in poi) nella stessa produzione della
ricchezza. Un valore “economico”, e dunque “condizionato”. Un
“valore di scambio”.
La dialettica tra i due valori (è la “pena filosofica” per chi si
occupa di formazione) declinata positivamente nel concreto farsi
della storia ha alimentato la scolarizzazione di massa coniugando
aspirazione sociali alla cultura e aspirazione a migliori condizioni
di lavoro e di reddito.
Se questa dialettica si rompe, non ci sarà richiamo appassionato al
“valore in sé” del sapere che possa alimentare un comportamento
sociale, quando esso non rintracci concretamente nell’istruzione le
convenienze per il proprio futuro e per quello dei propri figli.
In questo senso i dati delle iscrizioni universitarie calanti sono
solo una delle emergenze più recenti che segnalano quella potenziale
rottura e che, dunque, chiamano tutti ad una riflessione critica che
non può accontentarsi del richiamo alla necessità di investire in
istruzione. Quella che appare come una “soluzione” (investire) si
costituisce infatti come “il problema” (dove, come, in cosa).
Giusto dunque richiamare la politica alle responsabilità delle sue
scelte. Ma (a meno di considerare la politica puramente come
“delega”) nessuno è esentato dalla fatica di misurarsi con un
“flesso” della curva della storia che destabilizza e falsifica
antiche certezze e antiche categorie di interpretazione del “valore
dell’istruzione”. E, insisto, non tanto del “valore in sé”, quanto
di quella dialettica specifica tra i due valori che ho richiamato.
Dalla estensione e complessità delle argomentazioni possibili in
merito, estraggo solo alcuni elementi. Sono quelli sui quali sembra
appuntarsi la maggiore attenzione critica che alimenta lo scambio
postale virtuale con il prossimo ministro della Pubblica Istruzione.
Mi scuso anticipatamente se l’analisi si mescola alla memoria; ho
avuto la ventura storica di avere partecipato, con qualche ruolo di
protagonismo, allo sviluppo di quel processo: sono figlio degli
albori dell’università di massa, ho fatto il docente negli anni più
tumultuosi della scolarizzazione di massa, chiudo la mia vicenda
professionale contemplando il flesso di quella curva storica. E non
riesco a non interrogarmi sulle responsabilità (anche mie).
Spendere per la scuola e l’istruzione: come si fa a non essere
d’accordo, ma…
Un piccolo gruppo di amici con la mia storia (i nomi popolano ancora
il dibattito pubblico sulla scuola) ogni tanto se lo rimembrano
sogghignando: durante una trattativa per il rinnovo contrattuale
della scuola, il Ministro della Pubblica Istruzione dell’epoca
(trent’anni fa), prese da parte la delegazione della CGIL e ci
chiese “ma perché chiedete così poco?”. Eravamo, allora, formati ai
valori del riferimento al movimento dei lavoratori nella sua
interezza (il magistero di Di Vittorio, Lama, Trentin..) e una
controparte che “offriva di più” era peggio di una che resistesse
duramente.
Certo il Ministro giocava a rinforzare (anche attraverso
l’espansione delle retribuzioni e del consenso derivante) il suo
ruolo all’interno del suo Partito (indovinate quale?)
Ricordo l’aneddoto perché è buona testimonianza di come sia stata
utilizzata la spesa pubblica per anni. Il problema è che la spesa
pubblica, finanziata con il debito e la fiscalità, trasferisce
impegni per il futuro (le nuove generazioni), sulle quali si
caricano gli oneri relativi. Nulla quaestio se per quel futuro si ha
una strategia vincente; capace cioè di mettere a frutto la spesa
(questo è investimento). Altrimenti… (Ad aggravare le cose si veda
la struttura della fiscalità generale nel nostro Paese: il suo
gravare sul lavoro dipendente e le mance distribuite a tutti gli
altri).
In quegli anni si stava realizzando un traguardo storico (la
scolarizzazione di massa). Non ci si faceva grandi interrogativi in
merito: si ipotizzava di stare entro un processo che disegnava con
certezza le “convenienze” (almeno nei grandi numeri) dell’impegno di
risorse pubbliche.
Ma l’interrogativo, almeno teoricamente, era già disponibile. Tra il
trasferimento di risorse e i risultati dell’investimento, vi è
sempre la “mediazione” costituita dall’organizzazione entro la quale
le risorse si impegnano (il sistema di istruzione, in questo caso).
E’ da quest’ultima, dal suo concreto funzionamento, che dipendono
gli esiti dell’investimento e dunque, in ultima analisi, la sua
“convenienza sociale”.
La rilevanza di tale interrogativo è oggi non aggirabile: a risorse
vieppiù limitate l’attenzione a tutto ciò che da “attendibilità”
all’investimento in termini di “guadagno futuro” è tratto
discriminante delle scelte politiche. Nessuno è esentato dal
presentare un convincente “quanto, dove, per cosa, entro quale
organizzazione, con quali verifiche?” che accompagni una effettiva
politica di spesa.
Per favore: lasciamo l’invocazione “investire in cultura è
necessario e vitale!!”, al campo delle invocazioni (reclami,
scongiuri, giaculatorie…?). Dobbiamo avere il coraggio di misurarci
non tanto con “riforme della scuola”, ma con il concreto
funzionamento, con le strutture, gli ordinamenti, le regole,
l’organizzazione, il lavoro, i tempi, gli spazi, il controllo dei
risultati.
A partire proprio dal fatto che a trent’anni di distanza i risultati
di quella politica di spesa si stanno falsificando sotto i nostri
occhi. (Sia detto tra parentesi: limitarsi a dire che tutto è colpa
della Gelmini o del Ministro di turno – ed è pur vero - significa
dare loro troppa importanza e chiudere i nostri occhi critici su
processi che hanno le caratteristiche della “lunga durata”.
Altrimenti c’è solo “la congiura della reazione in agguato” a
spiegare il tutto).
La scuola e il suo valore sociale. In una fase storica di accentuata
dinamica sociale, della quale la crescente “domanda sociale” di
scuola fu una componente essenziale, si mise in opera una
innovazione istituzionale che ancora oggi viene indicata come “ i
decreti delegati, la gestione sociale, la gestione collegiale”.
L’ipotesi di fondo era di “aprire” la scuola (allora era di moda
parlarne come di “corpo separato) a quella dinamica stessa,
accompagnandola, favorendola, qualificandola (non è un caso che a
quella innovazione si abbinò la creazione di una abbozzo di “Sistema
di Ricerca Educativa”. Salvo esentarsi dal potenziarlo davvero.
INVALSI e INDIRE prendono vita da allora anche se con diverso nome.
Gli Istituti Regionali sono stati chiusi).
Una scommessa variamente declinata politicamente, ma costruita su
una condizione oggettiva (storica) e percezione soggettiva (politico
culturale) largamente comune.
Un uomo come Bruno Trentin in quegli anni propose che fosse lo
stesso Sindacato e finanche i Consigli di Fabbrica, a partecipare
alle elezioni negli organi collegiali nuovi (i Consigli di Istituto,
i Consigli di Distretto). Sbagliava, ma il suo errore proveniva da
una acuta preoccupazione che quella “democrazia dei collegi” non
corrispondesse alla “democrazia dei cittadini” (quella vera dunque).
E che tale limite avrebbe potuto emergere in un futuro nel quale la
dinamica sociale andasse incontro a stagioni meno attive e
dirompenti. (Non si parlava neppure di autonomia scolastica)
Oggi lo stato della “democrazia” nel sistema di istruzione è
falsificato nei fatti. Ma, purtroppo, anche nelle sensibilità
soggettive.
Gli organi di governo della singola scuola sono fermi alla
legislazione di 35 anni fa, e i tentativi di riforma si susseguono
di legislatura in legislatura. Neppure la svolta dell’autonomia è
stata interpretata (e ciò ne ha favorito indubbiamente il declino,
anche se esso ha anche ben altre ragioni). Gli organi del governo
territoriale sono scomparsi (il declino dei Distretti scolastici ha
privato le politiche territoriali degli Enti locali di uno strumento
tecnico e democratico insieme. Basterebbe guardare a come è stata
gestita la stagione del dimensionamento). E neppure l’innovazione
istituzionale dell’art. 117 della Costituzione ha determinato scelte
conseguenti (una transizione incompiuta da un decennio). La
“macchina” che dovrebbe filtrare l’investimento è la medesima.
Ma, e la cosa è, se possibile, ancora più grave, lo stesso confronto
culturale e politico sul come porre mano alla “democrazia
scolastica” è asfittico e compromesso da una attenzione esclusiva e
maniacale a definire profili di ruolo, perimetri di competenze,
salvaguardie di attribuzioni. Quasi si volesse ignorare che il
decadere della “domanda sociale” di istruzione e della sua
qualificazione interna non abbia a che fare (anche) con la
democrazia e la partecipazione dei cittadini al governo di quello
che è un “loro” bene pubblico (la democrazia è una “forza
produttiva”). E ciò segna anche molto del dibattito su queste stesse
pagine.
Solo un esempio: trent’anni fa si tentò di dare spazio alla
democrazia partecipativa moltiplicando le sedi dell’intermediazione.
Oggi, socialmente, la partecipazione prende la via della rete che,
per definizione è “disintermediante”. E prende anche la via della
crescita del terzo settore (il volontariato, l’associazionismo, la
cooperazione, le fondazioni, le “reti”, ecc..). Da oltre un decennio
ogni tentativo di “fare spazio” nella scuola a tali forme di
partecipazione sociale si scontra con la salvaguardia gelosa dei
“perimetri” di competenze, professionali e gestionali. La
“democrazia del Collegio” è, solo per esemplificare, una sorta di
totem intangibile.
Gli investimenti negli ambienti e nell’edilizia scolastica.
Richiamare il fatto che oltre il 60% delle scuole è “fuori norma” e
che dunque occorre “investire” rappresenta una ovvietà.
Ricordo che in piena stagione di crescita tumultuosa della scolarità
secondaria superiore, un illuminato assessore(a) provinciale di
Milano, invece di provvedere volta a volta ai bisogni di nuove
scuole, mise a punto un “repertorio di progetti” cui collaborarono i
migliori architetti, dal quale si potesse attingere misurando la
determinatezza e la specificità dei problemi, e le soluzioni più
adeguate. Ma il processo fu così tumultuoso che la ricerca di nuove
aule comprometteva anche alcune soluzioni innovative rispetto alla
definizione di novi ambienti di apprendimento.
Appunto: si cercavano “nuove aule” perché il modello organizzativo
tradizionale intangibile (classe, aula, ora di lezione, cattedra..)
filtrava ogni ricerca di innovazione nell’investimento edilizio.
Molti amici milanesi possono testimoniare di quante scuole costruite
in quegli anni, soprattutto nella fascia dell’obbligo, siano oggi
dismesse. Causa il decremento demografico e gli spostamenti della
popolazione sul territorio con una deurbanizzazione degli
insediamenti.
Ricordo questa “storia” per affermare che citare quel “60% fuori
norma” non costituisce alcun discrimine politico. Molto di più
dovrebbe essere contento in una “piattaforma politica”.
Per quanto attiene alla progettazione di “ambienti di apprendimento”
adeguati rinvio ad una buona documentazione in linea da parte di
INDIRE (a qualche cosa serve…si veda www. indire.it /aesse).
Sottolineo però che essi richiedono “altra organizzazione” dei
processi.
Ma più in generale rammento che una politica di investimenti in
“edilizia scolastica” (absit iniuria verbis) si declina in una
disomogeneità territoriale acuta e che, dunque, deve darsi strumenti
di attuazione diversificati, coinvolgendo Enti locali e la loro
gestione, la partecipazione del governo locale, la gestione
complessiva del territorio. Di nuovo anche tale questione richiama
quella più generale del “governo territoriale” del sistema di
istruzione, che per qualcuno sarebbe una questione
“sovrastrutturale” rispetto ai “ben altri problemi” che affliggono
la nostra scuola. Salvo trovarsi senza strumenti di fronte alle
esigenze del dimensionamento delle unità scolastiche rispetto al
quale né il sistema degli Enti Locali, né le Regioni, né
l’Amministrazione hanno saputo fornire “prestazioni” accettabili in
termini di rilocalizzazzione dell’insediamento scolastico
Il “tempo scuola”. E’ stato oggetto di una pura provocazione nella
fase discendente del “governo tecnico”. Si è risposto a giusto tono,
respingendo la provocazione. Ma la questione è stata posta, e
bisogna pure rispondere “politicamente”, e non solo negando o
“indignandosi”.
Il primo e “vero” contratto dei lavoratori della scuola, (siamo
sempre nella stagione tumultuosa della scolarizzazione di massa) con
il protagonismo del sindacalismo confederale (l’intero movimento
mobilitato per il contratto della scuola) affrontò deliberatamente
il problema del “tempo scuola”. In quel momento si trattò di dare
configurazione al “tempo di lavoro di non insegnamento” dei docenti,
formalizzando nel contratto stesso una parte di ore di lavoro
dedicate ad attività connesse alla didattica (programmazione,
partecipazione organi collegiali, ecc), ma non di docenza.
Certo si regolava un “sommerso” gestito (almeno in parte) dai
singoli docenti “privatamente”. Cioè fuori da ogni “ordinabilità” di
mansioni. L’incremento retributivo fu consistente.
Qui mi interessa sottolineare che quell’affermazione si realizzò
immettendo nella contrattazione una scelta di “generosità sociale”
(non saprei come altro definire la cosa). Un ceto professionale
“apriva” socialmente il perimetro dell’esercizio individuale della
propria professione e ne sottolineava così la rilevanza sociale che
diventava (iniziava a diventare…) palese e misurabile. Qualche anno
più tardi (di ciò forse portano memoria in pochi ormai), la CGIL
tentò di proseguire su quella strada. La parola d’ordine allora fu
proprio quella del “tempo scuola”.
Non si trattava più e solo di far emergere in dimensione sociale un
segmento di prestazioni offerte tradizionalmente in ambito
soggettivo, ma di porre al servizio stesso della scuola un ulteriore
segmento (differenziato) dello stesso tempo di lavoro “formativo”.
Certo si trattò di una “arrischiata politica”, e mancava allora una
condizione importante per dare realismo al disegno, come quello
costituito dalla Autonomia delle istituzioni scolastiche. (Oggi c’è
ma è in declino: a proposito, come rilanciarla?)
Ma l’ispirazione di “generosità sociale” finalizzata alla alleanza
con la domanda collettiva di istruzione, allo sviluppo della
democrazia partecipativa, alla innovazione “strutturale” del
servizio scolastico e della sua organizzazione era la medesima. (E
c’era anche una idea di “sindacalismo” che non si rassegnava a fare
da “copia carbone” alle regole dell’amministrazione).
Uscimmo perdenti dalle assemblee dei delegati per il contratto. E
prendemmo atto della sconfitta.
Altri tempi. Ma io non credo che nella situazione odierna si possa
rinunciare a quella ispirazione; non so esattamente in cosa si possa
concretizzare oggi la “generosità sociale”. Ma credo che in assenza
di tale impulso ci si troverà a giocare sempre una partita
contendendo palmo a palmo i tagli, ma non “cambiando le carte in
tavola”. E si sa, se non si spariglia, vince sempre chi tiene il
mazzo.
Invece la questione del “tempo scuola” vive, nelle agende politiche,
la dimensione del richiamo al “tempo pieno”, ma si esenta dal
misurarsi con parametri di organizzazione effettiva del servizio.
Il “tempo pieno”, nella fase storica alla quale mi richiamo lungo
tutto questo intervento, aveva due radici motivazionali profonde: in
primo luogo usare il tempo scuola come strumento di colmatura delle
disuguaglianze sociali, per una “promozione” reale del diritto
all’istruzione per tutti; in secondo luogo perseguire la qualità
dell’insegnamento e apprendimento stesso. E, storicamente, vi fu il
conforto di risultati. (alcuni anche “tradotti” istituzionalmente).
Ma chi oggi si limita a riproporre la “parola d’ordine” deve
misurarsi con almeno due dati di realtà. Il primo: la distribuzione
territoriale di “domanda” di tempo pieno è non solo fortemente
disomogenea, ma declina proprio nelle aree territoriali e sociali
più deprivate. E in quelle più avanzate seleziona invece il
“disagio” o la pura ricerca di servizi prolungati per famiglie che
lavorano. Il secondo (e più amaro): in molte realtà le valutazioni
dei livelli di apprendimento (sia quelle dei docenti, sia quelle
rilevate dall’INVALSI) vanno spesso in controgradiende, smentendo la
“qualità” del tempo pieno. Probabilmente per il contemporaneo
congiungersi del un carattere residuale della domanda e
dell’attenuarsi della portata innovativa della didattica. E comunque
l’obiettivo di colmatura delle disuguaglianze è abbondantemente
falsificato.
Quale sarebbe il “discrimine politico” contenuto nel semplice
ribadire la parola d’ordine, senza misurarsi con la ”valutazione
storica” di una strategia, e dei suoi esiti? Una “promessa”, forse…?
Non voglio evitare l’aspetto più critico di ogni approccio alla
questione del “tempo scuola”, costituito dai livelli retributivi dei
docenti. Ma anche in tal caso ricorro a memorie.
Alla fine degli anni ’70 lasciai la scuola per lavorare all’Ufficio
Studi Economici della Camera del Lavoro di Milano. La retribuzione
del Sindacato era parametrata a quella dell’operaio di “terzo
livello”. In quel momento era superiore all’ultima retribuzione
percepita come docente. Nel nuovo lavoro ci guadagnavo.
Quando lasciai l’incarico qualche anno dopo, tornando alla scuola,
la situazione era capovolta: la retribuzione da docente era
superiore.
Quella ispirazione che ho chiamato “generosità sociale” aveva
prodotto, attraverso la contrattazione, esiti positivi anche sotto
il profilo retributivo.
Il Sindacato è una grande “forza di mercato” (non si scandalizzino i
“puri”: che altro è la contrattazione?). Ma sarà tanto più forte nel
suo rappresentare l’offerta di lavoro, quanto più si impegnerà a
dare qualità ad essa, innanzi tutto per la sua capacità di
interpretare la domanda sociale e gli “interessi complessivi”, da
rappresentare oltre il perimetro di quelli del “ceto professionale”.