EDITORIALE

La società che prepara il collasso

Alessandro D’Avenia La Stampa, 16.2.2013

Ho 35 anni, sono fortunato ed orgoglioso di essere nato e cresciuto in questo Paese, per il quale nutro ancora qualche speranza, che ricevo e alimento facendo l’insegnante.

Ma mi preparo al voto rileggendo il bel saggio di J. Diamond «Collasso: come le società scelgono di vivere e di morire», relativo alla singolare sparizione di società fiorenti che più o meno consapevolmente si «suicidano», dagli abitanti dell’Isola di Pasqua, che tagliarono tutti gli alberi dai quali traevano il loro sostentamento, ai coloni dell’Australia che importarono, con calcolo e sforzo, animali che distrussero la ricchezza del nuovo ecosistema. Rischiamo il «collasso» anche noi? Abbiamo già tagliato l’ultimo albero che poteva tenerci in vita? Abbiamo apportato correttivi più nocivi dei benefici?

L’antropologo spiega che sono quattro i motivi per cui una società determina il suo declino: non riesce a prevedere il sopraggiungere del problema, non si accorge che il problema è già in atto, se ne accorge ma non prova a risolverlo, cerca di risolverlo ma non ci riesce. Nel primo caso il gruppo prende decisioni disastrose perché il problema è talmente nuovo e imprevisto che non si sa come affrontarlo (spesso l’evento si era già verificato, ma è stato dimenticato per carenza di memoria storica...). Il secondo caso colpisce i popoli che scivolano gradualmente nel problema, che però ad un tratto supera la soglia di non ritorno e si fa evidente quando è ormai troppo tardi. Il quarto caso è quello che si verifica quando la soluzione è chiara, ma i costi e i modi di realizzazione sono troppo alti per le capacità del gruppo.

Lascio per ultimo il terzo caso perché penso sia quello che ci riguarda più da vicino. É il più frequente e sorprendente, per la paradossale non volontà di risolvere un problema evidente. Due sono gli ordini di motivi secondo Diamond: razionali e irrazionali. I primi si mascherano di una finta razionalità, ridotta in realtà a calcolo utilitaristico, e puntano a false soluzioni immediate, senza pensare alle conseguenze per il futuro. Nella maggior parte dei casi è un ristretto gruppo, al potere, ad operare queste scelte «razionali», presentate come tali, pur di mantenere lo status quo. Le conseguenze di preteso e immediato beneficio, sono in realtà devastanti sul lungo periodo (penso alla mia generazione: io dovrò insegnare a sedicenni fino a quando avrò 75 anni, prima di poter andare in pensione). I motivi che nutrono la non volontà di soluzione possono essere anche «irrazionali». I modi di vivere e vedere la realtà sono talmente radicati che il gruppo non riesce ad aprirsi a valori nuovi e si esaurisce, pur di non lasciare tradizioni rassicuranti, e questo avviene soprattutto in periodi di crisi, per paura che nuovi paradigmi aggiungano ulteriori elementi critici. E in un’Italia che invecchia, descritta dai sociologi come una «piramide rovesciata», i molti anziani gravano sui pochi giovani, non solo economicamente ma anche per la difficoltà ad aprirsi a nuove prospettive.

Per queste ragioni credo che l’Italia sia pericolosamente sedotta dal collasso del terzo tipo. Lo vedo a partire dalla Scuola, già collassata da un pezzo se non fosse per gli insegnanti che fanno più di quello che è a loro chiesto per amore del lavoro e dei ragazzi. Ma nessuno se ne occupa: ti pare che il collasso dell’educazione in uno Stato sia segno di crisi? Lo stesso dicasi per la famiglia, vera risorsa e leva economica in un Paese come il nostro. Nell’azione politica appare prioritario lo spread sul fattore umano, l’Imu sulla Scuola, le unioni civili sulle famiglie già esistenti. Mi riferisco alla mera «quantità» delle parole usate durante la campagna elettorale. Di certi argomenti invece non si parla, perché sono tali le pastoie e gli interessi in gioco che non se ne può parlare: tanto si sa già che nulla cambierà, perché nulla può cambiare a meno di non perdere consensi.

I problemi sono evidenti ma gli interessi ristretti di gruppi di potere ne frenano la soluzione, o perché occupati a mantenere il proprio potere e quello delle clientele che li sostengono, o perché incapaci di un pensiero che vada oltre l’immediato, basato su un bene comune che sappia valicare i confini della propria legislatura (se durasse più di quei due anni e mezzo necessari a garantirsi un vitalizio). Un esempio: chi avrà il coraggio di scardinare nel sistema scolastico il criterio di anzianità come unico criterio di merito (non è un caso che l’età media degli insegnanti supera i 50 anni nella Scuola statale (la più alta dei 34 Paesi dell’Ocse)? Chi avrà il coraggio di fondare l’insegnamento sul merito indipendentemente dall’età di chi insegna? Chi lo farà subirà contestazioni e perderà tutti i voti del mondo, ma fra 10-20 anni la scuola italiana forse si riprenderà, come qualsiasi sistema basato sulla socializzazione delle risorse e non delle perdite. Nessuno lo farà. Troppi gli interessi in gioco e i freni di gruppi che gravitano attorno alla Scuola parassitariamente. Per Diamond nella storia sono stati solo leader coraggiosi e perspicaci a salvare un popolo intero, perché capaci di prendere decisioni, anche contro se stessi e i gruppi dominanti, decisioni i cui frutti sarebbero stati goduti dai loro successori.

Leader che condividevano la sorte della gente allo stesso modo di uno che non arriva a fine mese: il loro fallimento era in primo luogo «il loro» fallimento. I nostri leader invece falliscono indisturbati e restano lì. Per questo non nutro molta speranza sulle prossime elezioni: i discorsi dei politici, tranne qualche rara eccezione tutta da verificare, non mirano alla soluzione del collasso, ma al mantenimento della tifoseria basata su un generalizzato conflitto di interessi. Però non smetto di sperare, grazie al fatto che il giorno dopo aver votato torno in classe, per preparare i ragazzi al collasso che gli stiamo preparando.