Il cavallo e la carrozza

di Franco De Anna ScuolaOggi 25.2.2013

Mi trovo sempre più spesso d’accordo con Stefanel (c’è qualche cosa che non va in me?) e mi limito ad aggiungere solo alcune considerazioni alle sue, che condivido pienamente.

Sono diversi i dispositivi normativi che segnalano “contraddizioni reali” tra alcune misure (dall’inquadramento dei dirigenti pubblici, alla valutazione della performance, alla spendig review, alle prospettive del VALES, o comunqe del Sistema Nazionale di Valutazione) e la realtà operativa, produttiva, quotidiana, dei “Presidi” o Dirigenti Scolastici che dir si voglia.

Il Dirigente Scolastico è l’unico “dirigente pubblico” che nella sua attività debba tenere conto di “organi collegiali” rappresentativi non dell’interesse dei cittadini ma di sottosegmenti di appartenenze o di raggruppamenti professionali (dai genitori ai docenti al personale della scuola).

L’equivoco tra “collegialità” e “democrazia” data fin dall’origine degli Organi Collegiali. Come già rileva Stefanel tale equivoco fu in parte superato nella prassi nella fase nascente di grande e diffuso impegno nella partecipazione scolastica.

Ma oggi? A parte la distinzione di principio tra democrazia come attributo di cittadinanza e “pratiche elettorali” come strumenti di rappresentanze più o meno corporative (docenti, genitori…), pensiamo alle forme “disintermedianti” che progressivamente assume la partecipazione (la rete, le discussioni on line, i rapporti diretti tra cittadini e amministrazione..).

Un dirigente pubblico è responsabile di una “politica pubblica” e dunque non può che avere i cittadini e l’interesse generale come riferimenti forti, sia per la sua attività, sia per la valutazione che si possa dare sulla sua azione.

Alla uscita del “Brunetta”, proposi, al di là del giudizio politico sul dispositivo normativo, una alternativa secca: o annulliamo l’autonomia scolastica, o sottraiamo i “Presidi” dalla comune appartenenza tassonomica ai “dirigenti pubblici”, reperendo inquadramenti e classificazione specifica.

In subordine: rivediamo radicalmente il sistema di governo delle scuole.

Non saranno mai gli sforzi ermeneutici su norme contraddittorie a superare le contraddizioni reali, né bastano le congiunzioni o gli avverbi ad armonizzare i riferimenti.

Su questo piano l’amico Valentino e Maranzana si ritrovano ad usare (diversamente) i medesimi costrutti. (Anche se Valentino non userebbe mai espressioni come “le pustole che infettano..” per indicare elaborazioni divergenti dalle proprie. Aristarco Ammazzacaffè e il suo approccio ironico avrebbero forse qualche cosa di assennato da dire in proposito).

Due notazioni. La prima riguarda la distinzione tra funzioni, responsabilità ed organismi di indirizzo politico e funzioni, responsabilità e organismi di gestione.

Concettualmente nulla di più chiaro. Ma nella traduzione reale, e soprattutto in contesti “produttivi” di dimensioni ridotte (quantitativamente e per le potenzialità di intervento) questa “distinzione concettuale” cosa diventa?

Potrà l’idea del cavallo trainare l’idea della carrozza?

Non è solo il caso della scuola: quella distinzione vale per esempio nel caso dell’assetto dell’impresa, come distinzione tra proprietà (gli azionisti che danno linee di indirizzo confacenti ai loro interessi) e il management (che da attuazione concreta alle linee di indirizzo organizzando la realtà dei processi; con la condizione che, in ultima analisi, saranno gli azionisti a scegliere quest’ultimo). Anzi, storicamente quella distinzione nasce proprio sul piano della organizzazione moderna di impresa, e poi viene trasferita sul piano della organizzazione pubblica-

Nella Pubblica Amministrazione fu infatti introdotta agli albori del processo di riforma amministrativa le cui “cadenze” potrebbero essere segnate da nomi illustri come Massimo Severo Giannini, Sabino Cassese, Franco Bassanini.

Il suo fondamento era la preoccupazione di distinguere, a livello macro della attività pubblica, tra politica ed amministrazione, la cui commistione stava alla base di molte delle disfunzioni del sistema amministrativo italiano.

Quella distinzione, per altro, lasciava ancora senza risposte la pluralità contraddittoria dei riferimenti Costituzionali rispetto alla Pubblica Amministrazione e ai suoi operatori. Nella Costituzione per esempio il Ministro (espressione politica) è “responsabile del suo dicastero” (funzionalità amministrativa). Epperò la Pubblica Amministrazione risponde alla Legge e “rende conto ai cittadini”, dunque si configurerebbe come “neutra ed imparziale”.

Ma ancora chi è investito di funzioni pubbliche ne rende conto “con disciplina e con onore”. Disciplina secondo la legge? Disciplina verso i superiori? Onore professionale? “onore contrattuale”?

Lascio ai lettori il compito di recuperare tutti i riferimenti costituzionali e le loro intime contraddizioni (storicamente fondate: i padri costituenti si trovavano a cavallo tra la ripresa dello “stato liberale” quale molti avevano conosciuto prima del fascismo, e le esperienze di riorganizzazione e innovazione del potere pubblico che avevano caratterizzato il fascismo stesso. Si pensi all’intervento dello Stato nell’economia).

E’ del tutto evidente (con buona pace di Maranzana) che il conforto di qualche slide usata in qualche corso di formazione che interpreti la norma non sia un grande strumento di trasformazione della realtà… Ci si può certo consolare con le “proprie” verità.

Ma gli effetti si vedono nel tentativo di trasferire quel concetto (così chiaro nelle slides) di distinzione tra indirizzo politico e gestione, dai grandi aggregati macro a quelli micro e di “produzione finale” del servizio, come sono appunto le scuole.

Dove risiederebbero le prerogative dell’indirizzo politico? Nel Collegio? (una rappresentanza di ceto professionale, sulle cui dinamiche interne sorvolo); nel Consiglio di Istituto (non indico neppure di cosa e di chi sia rappresentante: basterebbe analizzare da vicino le procedure e i risultati elettorali)? E dove risiederebbero le responsabilità (i poteri dice giustamente Stefanel) gestionali? Quale padronanza sui fattori produttivi esercita il DS?

Ma non è questione che viva solo nella scuola, in relazione alle sue norme; quel concetto così “chiaro”, nella applicazione concreta si appanna anche nell’impresa. Provate a declinare la distinzione tra proprietà (poteri di indirizzo) e management (poteri gestionali) nel caso di una piccola o media impresa di un qualche distretto nelle regioni come la mia, o quella di Stefanel. Non sono esempi minoritari: si riferiscono al nerbo manifatturiero del Paese.

La dimensione concreta operativa dell’organizzazione cui ci si riferisce rende più o meno adeguata la formalizzazione di quel concetto

Il cavallo e la carrozza da un lato, e l’idea del cavallo e l’idea della carrozza dall’altro. Aspetto le slides chiarificatrici di Maranzana.

All’amico Valentino vorrei proporre una affermazione netta riguardo ai problemi della leadership che lo vedono così sensibile e attento. Tutto vero (forse) ciò che si auspica Antonio sulla leadership diffusa, sulla leadership pedagogica, ecc...

Ma, anche in tale caso, se provassimo a mettere “il mondo sui piedi e non sulla testa”?

La leadership (anche nell’etimo guidare la flotta, l’equipaggio) ha sempre a che fare con il potere de il suo esercizio. I modi e le condizioni di questo esercizio del potere costituiscono le ricchezze e le miserie delle concrete interpretazioni della leadership. Ricordo solo che saper dividere e distribuire le responsabilità è il “massimo” del potere. Solo chi lo padroneggia interamente può distribuirlo assennatamente.

Quali che siano le definizioni normative, istituzionali messe in campo per assegnare, validare, controllare l’esercizio del potere, la leadership corrisponde a tale esercizio.

I pudori, in questo campo, rischiano proprio di validare le ambiguità nelle definizioni formali di ruolo.

Certo molte di queste contraddizioni sono radicate proprio nella scelta di annullare o attenuare le “specificità” operative e professionali dei Dirigenti Scolastici riportandoli nel grande alveo della dirigenza pubblica.

Qui le responsabilità sono plurime, anche interne alla categoria ed alle sue rappresentanze: storicamente quella scelta si accompagnò a molti vantaggi di carattere economico e di immaginario di status. Ma alla lunga certi errori si pagano (Simile fu quello fatto dagli ispettori quando divennero anch’essi dirigenti pubblici e perdettero la connessione con le specificità di ruolo nella scuola, solo che degli ispettori si può fare a meno come dimostrano questi ultimi anni).

Seconda notazione: i “modelli” hanno una loro logica e coerenza interna.

Se scegliamo quello dell’autonomia scolastica pienamente realizzata, il Dirigente Scolastico si avvia, sia pure progressivamente, ad una pienezza innegabile di potere e responsabilità gestionale e amministrativa. (Discuteremo, su tale base, sulla diversa classificazione dei profili di leadership. Ma è cosa da convegni e da formazione, non di regole di gestione. Esse vanno rese coerenti con il modello. Vedi conclamata esigenza di rivedere il “governo” delle scuole).

Se decidiamo che ha ragione Brunetta (ma anche i dispositivi della spendig review) allora azzeriamo l’autonomia, e ci limitiamo a indicare strettamente le responsabilità gestionali ed economiche (alla faccia della leadership pedagogica, qualunque cosa essa voglia dire).

In questo secondo caso la questione della elettività del Preside potrebbe tornare fuori (è discussione antica, tutt’altro che nuova).

In quel modello infatti sarebbe sufficiente un responsabile amministrativo (non necessariamente dirigente: non a caso i DSGA “tirano” alla “vice dirigenza”) e un “insegnante in capo” (head teacher come da esperienze anglosassoni) che rappresenti di docenti (e dunque sia elettivo, si spera in funzione proprio delle sue capacità riconosciute di leadership pedagogica, che, come Antonio dovrebbe sapere, è una leadership “informale”, non si dà per contratto o per concorso).

Ciò che non si può fare con “i modelli” è mescolarli, nell’ipotesi che si sommino le qualità dell’uno e le convenienze dell’altro. La verità è che l’indebita mescolanza di modelli somma spesso i difetti dell’uno e dell’altro.

Per quale io mi schieri è quasi inutile riaffermare.

Colgo solo come un sintomo preoccupante che la questione “preside elettivo”, tramontata almeno da due generazioni, si riaffacci oggi, in un contesto di attenuazione (è un eufemismo) della problematica e delle condizioni operative dell’autonomia.

Ma la sfida, per tutti