Non volevo fare la prof
La scuola, l’ascensore sociale bloccato, di Mariangela Galatea Vaglio L'Espresso Blog, 13.2.2013 L’ultima rilevazione dell’OCSE citata dal Luca de Biase riporta un dato sconsolante: l’Italia ha sempre meno laureati. Ci ha superato anche il Portogallo, e sotto di noi in classifica ci sta solo la Turchia: ma datele tempo un paio d’anni, e probabilmente diventeremo il fanalino di cosa. La cosa triste è che quando si discute con persone non del settore di questi dati invece di una sana preoccupazione si rileva quasi un malcelato sollievo: «Era ora – si sente dire – che la smettessero di iscriversi tutti all’università. Sforniamo troppi laureati che dopo non trovano posto!» L’impressione a livello epidermico infatti è questa: che l’italia sforni decine di laureati alle volte poco preparati (sia nel loro ambito di competenza sia nel bagaglio culturale generale) e che questi laureati, persino se bravi e competenti, poi si ritrovino a doversi accontentare di lavori ben al di sotto delle loro aspettative: finiscono a rispondere al telefono in un call center, fanno i commessi nei negozi e così via. Nella mente dell’uomo comune, quindi, la soluzione al problema è quella di ridurre il numero dei laureati, tanto non servono. In realtà il ragionamento parte da premesse in gran parte sbagliate. La prima è che in Italia per troppi anni la laurea, da molti genitori, è stata vista come una specie di status symbol da raggiungere a prescindere (il figlio, anche se poco portato per lo studio, doveva andare all’università e prendere il pezzo di carta che mancava a mamma e papà o per prendere quel pezzo di carta che mamma e papà avevano e lui quindi, per una questione di prestigio sociale, non poteva non avere). Questa idea comunque partiva dal presupposto giusto che la laurea – o il titolo di studio in generale – in tutti i paesi evoluti è un ascensore sociale formidabile: apre le porte ai lavori meglio retribuiti, indipendentemente dalla classe sociale della famiglia d’orgine. In italia, però, questo non è vero, o è vero solo in minima parte. Il sistema, infatti, si è ingrippato: non solo per colpa della scuola, ma per colpa di come esso è stato “usato” dalla società. Negli altri paesi la laurea apre effettivamente le porte alla scalata sociale: ma si tratta di lauree che vengono date con una selezione altissima, qualche volta bruta. Chi ascende socialmente è perché ha una laurea in mano che viene data a pochi, ed a prezzo di grandi sacrifici. La via italiana, invece, è stata quella della laurea di massa, soprattutto in alcune facoltà: un diploma in pratica garantito a tutti quelli che avevano la pazienza o la costanza di rimanere all’Università per un tot numero di anni, e che ad un certo punto venivano laureati anche con voti irrisori o in età da pensionamento, perché dopo tanto tempo di “parcheggio” non gli si poteva più negare un pezzo di carta. Questo sistema era già diventato la norma negli istituti superiori, e si è formata una intera classe di istituti (va detto, soprattutto privati) che questo assicurano: un diploma facile per chi non riesce a garantire lo standar minino, e poi una laurea chiavi in mano, in atenei secondari o addirittura telematici. Questo sistema non ha creato una base di laureati veramente qualificata, ma soprattutto è stato deleterio proprio per i più “bravi”: gli studenti motivati si sono ritrovati a fare lezioni in atenei ingorgati da grandi numeri, gli esami sono simili ad assalti di massa, i voti una cabala perché dati su test fatti a batteria; i docenti, costretti a correggere centinaia di compiti a botta, lo fanno con difficoltà, sono meno disponibili al confronto e alla discussione, non possono tenere lezioni seminariali, e faticano persino a riconoscere i volti dei loro iscritti, figuriamoci a capire quali fra loro hanno i numeri per una futura carriera accademica o il talento per riuscire. Il livello generale si è così abbassato: su 100 laureati quelli davvero pronti a svolgere il lavoro per cui si sarebbero preparati sono molti meno, e spesso devono la loro preparazione più alla tigna personale che alle possibilità offerte dall’istituzione: gli altri hanno un titolo, sì, ma è un titolo che serve solo ad essere incorniciato e messo in mostra nell’atrio di casa, per la felicità dei genitori adoranti il figlio neodottore. Questa laurea alla fine data a tutti dopo un certo numero di anni di “calvario” è stata anche un alibi per non creare politiche di sostegno per gli studenti di famiglia modesta o lavoratori: se tanto ti danno la laurea comunque anche se ci metti dieci anni, non è il caso di distinguere fra chi ci mette tanto perché magari lavora e studia nei ritagli di tempo e chi invece ci mette secoli perché proprio è inadatto, fra chi deve fare enormi sacrifici economici per studiare e chi invece può vegetare tranquillo, perché i genitori finanziano i suoi studi a prescindere e gli consentono di preparare gli esami con calma e senza alcuna preoccupazione. Alla fine si dà un pezzo di carta a tutti, non importa se vale poco, invece che garantire i mezzi a chi lo vuole davvero per costruirsi una preparazione decente. Il problema però ancora più serio è che, una volta laureati, la laurea anche per quelli bravi ha perso il suo ruolo di ascensore sociale: questo perché nel sistema chiuso italiano, purtroppo, lo studente bravo che ha preso una ottima laurea non viene automaticamente assunto dalle aziende, perché si privilegia invece lo studente, anche mediocre, alle volte anche mediocrissimo, che però può vantare una rete di conoscenze familiari adatta a metterlo in contatto con i futuri possibili datori di lavoro. Detta in soldoni, fra due laureati, uno bravo ma sconosciuto e uno così così ma figlio di amici o parenti, il secondo ha molte più possibilità di venire assunto, anche nel settore privato. Le famiglie più povere (o comunque tagliate fuori dal sistema di conoscenze familiari di cui si parla sopra) hanno quindi capito subito che investire nella laurea come “ascensore sociale” è una fregatura: i loro figli, anche se bravi, continuano a finire precari in un call center o operai in fabbrica anche se laureati, mentre i figli dei ricchi o coloro che, pure non brillanti nello studio, riescono a crearsi una rete di conoscenze e di appoggi, vengono assunti e fanno carriera. Logico quindi che le famiglie invitino sempre più i figli (anche quelli bravi) a non andare all’Università: per finire comunque alla pressa, il diploma è pure troppo. Ma così si è creata una spirale negativa: l’istruzione universitaria e la laurea, infatti, non sono solo – anzi, non sono proprio – un viatico certo per entrare nel mondo del lavoro. Il fatto che un laureato nella materia X nella vita non sempre vada a fare poi un lavoro connesso strettamente con ciò che ha studiato non è uno scandalo: è fisiologico. Il fatto è che l’università dovrebbe dare delle conoscenze avanzate e teoriche che poi possono essere spese in una serie di ambiti diversi, non solo in quelli in cui sei laureato. Un laureato, oltre che un tecnico del proprio settore, dovrebbe avere una visione d’insieme ed una cultura più vasta, che gli consente con più facilità, eventualmente, di “riciclarsi” in altri lavori, o di inventarsene di nuovi se non ne trova di pronti. Per questo meno laureati vuol dire meno persone, in questo paese, con un bagaglio di conoscenze “alte” e spendibili in più campi, in un mondo che sempre più richiede, invece, gente di questo tipo, con conoscenze vaste e trasversali. Il problema è che la laurea per molti anni in Italia è stata pensata come un punto di arrivo, mentre è un punto di partenza. E l’altro problema è che però può essere un punto di partenza reale e utile solo se il sistema non è ingrippato e bloccato da una selezione che privilegia altri tipi di caratteristiche: finché i laureati saranno pochi, e di quei pochi quelli competenti saranno costretti a fuggire all’estero o accontentarsi di lavori precari e miserrimi perché il sistema assume invece i cretini raccomandati a prescindere dalle loro competenze, la laurea perderà sempre più attrattiva, e la percezione della società sarà che si sfornino “troppi” laureati che poi non vengono assunti. Mentre il problema è che sono pochi, e, soprattutto, che spesso sono assunti quelli sbagliati. |