Norberto
Bottani
Questa scuola non è un parcheggio
di Enrico Lenzi
Avvenire, 22.2.2013
Un modello organizzativo giunto al capolinea. Ma anche un momento
storico nel quale non emergono alternative vere e valide. Lo
scenario che emerge dal libro di Norberto Bottani, esperto di
politiche scolastiche e già alto funzionario dell’Ocse, non lascia
certo tranquilli. E così Requiem per la scuola? (il Mulnino,
pagine 146, euro 13) offre al lettore una analisi dolorosa delle
condizioni in cui versa la scuola nel mondo.
Partiamo dalla domanda contenuta nel
titolo del suo libro. Esiste una risposta al quesito?
«Certo. Il requiem è per la scuola statale così come è ora: statale
e con un modello legato all’Ottocento. Il requiem di cui parlo è per
questo tipo di modello in agonia, che sarà dolorosa, combattuta e
lunga. Ma anche inevitabile. Del resto le premesse che hanno dato
vita al modello di scuola statale non esistono più, come quello di
una scuola centralista e statalista. Ovviamente la scuola ci sarà
sempre per trasmettere conoscenze e valori, ma probabilmente non
nella forma e nell’organizzazione che conosciamo».
Nel libro sostiene che l’unica ragione
di esistere per una scuola pubblica è che riesca a eliminare le
discriminazioni sociali davanti all’istruzione. Non le pare una tesi
molto forte?
«No. Tutti i dati concordano in questo. Dimostrano che alcuni
sistemi hanno in parte ridotto il divario nel successo scolastico
tra studenti di ceti sociali svantaggi rispetto a quelli di un
tenore economico superiore, ma nessun sistema è riuscito a
equilibrare significativamente il divario tra i due gruppi. Ci sono
sistemi scolastici che ci riescono meglio, ma il traguardo rimane
lontano. Le indagini internazionali dimostrano che si può ancora
migliorare, ma senza riuscire a eliminare il divario».
Ma non le sembra utopistico pensare
che la scuola possa davvero cancellare quelle che lei definisce
discriminazioni sociali di fronte all’istruzione?
«Un tempo tra le generazioni era possibile fare dei passaggi verso
l’alto, ma le condizioni attuali sono differenti e non lo permettono
più o molto meno. Chi governa il sistema scolastico deve avere
obiettivi chiari su quale strada intraprendere. Uso l’esempio del
sistema ferroviario: si tratta di decidere se investire solo in Alta
velocità trascurando il resto della rete, oppure privilegiare alcuni
tratti nazionali, oppure delle linee collegate a gruppi di utenti
specifici».
Efficienza, equità, eccellenza. Dal
suo osservatorio sono elementi davvero conciliabili tra loro?
«Assolutamente sì. Lo dimostrano con grande chiarezza le indagini
internazionali che hanno come focus i sistemi scolastici. Oggi si
può dire che è possibile conciliare queste tre dimensioni, non
limitando gli aspetti di eccellenza, senza trascurare, però,
nessuno, permettendo a tutti di padroneggiare strumenti e conoscenze
ritenute necessarie. E anche di poter gestire in modo efficiente e
senza sprechi i fondi destinati al sistema educativo».
Ma la crisi economica incide sui fondi
per la scuola. Quale scenario emerge dal suo libro e quale futuro
possiamo attenderci per il sistema formativo?
«Credo che si debba inventare qualcosa di nuovo. Un servizio statale
alternativo a quello attuale, che conceda una vera e piena autonomia
organizzativa alle scuole, superando centralismo e soprattutto lo
statalismo nella gestione degli istituti stessi. È una necessità,
anche se devo ammettere che attualmente non vedo un modello
differente capace di imporsi sugli altri. Non vedo apparire una
soluzione generalizzata, anche se le Charter Schools, che
ricevono denaro pubblico, ma hanno una ampia autonomia, potrebbero
essere una via. Insomma nei Paesi in cui il sistema non è
completamente bloccato qualche soluzione viene tentata, ma il più
delle volte appare come un accanimento terapeutico per mantenere in
vita il malato, piuttosto che proposte davvero innovative».
La scuola, scrive nel libro, non più
come luogo in cui apprendere, ma come parcheggio di giovani spesso
«dimenticati» dalle famiglie. Parole forti, non trova?
«Quando nel libro parlo di scuola come parcheggio, ammetto, di aver
pensato più all’aspetto della sicurezza fisica per i ragazzi, in uno
scenario familiare di nuclei disgregati o con entrambi i genitori
lavoratori. Ecco allora che la scuola, il servizio pubblico, diventa
un luogo nel quale lasciare in sicurezza i propri figli, anche se
non posso dimenticare i terribili episodi accaduti negli Stati
Uniti. Capisco che quest’idea di parcheggio propone una visione
minimalista della scuola, che sicuramente può dispiacere a quei
docenti che si impegnano nella loro professione. L’impressione,
però, che emerge dalle indagini internazionali è comunque che la
scuola non sia il centro della vita e degli interessi dei ragazzi».
In questo scenario quale posto hanno
le nuove tecnologie?
«Sono potenzialmente delle bombe atomiche, dirompenti nella scuola.
E non solo nella società occidentale, ma anche nei Paesi in via di
sviluppo. L’insieme delle nuove tecnologie è talmente diffuso da
offrire possibilità di apprendimento del tutto imprevedibili fino a
qualche anno fa. Segnano la fine di un modello di trasmissione dei
saperi, con un accesso alle conoscenze in ogni luogo e in ogni
momento. La scuola statale sotto questo profilo è in forte ritardo e
cerca di rincorrere la novità».
Come esce l’Italia dalla sua analisi?
«Nel libro faccio solo degli accenni all’Italia. Ma complessivamente
penso che il sistema scolastico italiano sia in ritardo,
profondamente ingiusto e immobile da 50 anni nonostante tutte le
riforme messe in campo e spesso mai attuate. Certo ha avuto una
espansione quantitativa nell’iscrizione e frequenza, ma appare in
forte ritardo rispetto al treno di altri Paesi».