Biancaneve e i quattro nani di Maurizio Chatel, Insegnare stanca 17.12.2013 L’editoria digitale scolastica, “sponsorizzata” dal MIUR nel triennio 2010-2013 attraverso le gare MEPA per la produzione di testi multimediali – iniziativa giunta alla sua seconda tappa importante nel convegno di Roma del 12 dicembre 2013, in cui venivano presentati i prototipi vincitori dei bandi scolastici – non gode di ottima salute. Per esser più chiari, ha le gambe gracili e poco senso dell’orientamento. Come ha fatto notare anche Gino Roncaglia in un video-intervento, malgrado l’Italia vanti un’editoria scolastica tra le migliori d’Europa, a raccogliere la sfida del ministero – ma soprattutto dei tempi – è stato un pugno di piccoli editori indipendenti dotati di tutt’altro che grandi mezzi. Sulle ragioni di questo “gran rifiuto” del digitale da parte delle major scolastiche si è dibattuto e litigato a lungo, e non voglio farne questione qui; quel che è certo è il senso di fragilità che ti coglie in questi eventi pubblici in cui i piccoli e volenterosi editori cercano la propria sacrosanta visibilità. Questa fragilità ha delle ragioni che vorrei cercare di comprendere, per fare della consapevolezza un punto di forza da cui prendere slancio. Oggi chiunque sia dotato di dispositivi elettronici non fa fatica a immaginare il peso economico che hanno la ricerca e la produzione di software per le innumerevoli applicazioni in uso nel WEB. I grandi marchi del settore hanno quotazioni di borsa vertiginose, e la loro reciproca concorrenza produce innovazioni fondamentali a ritmi mensili. Gli strumenti di creazione, stoccaggio e condivisione di documenti on-line – con tutte le applicazioni annesse e connesse – creati da Google e Microsoft, per fare solo due nomi, investono ormai anche il settore educativo con funzionalità inimmaginabili due anni fa. Con un’accessibilità totalmente gratuita, il lavoratore intellettuale ha a propria disposizione una rete globale di documenti che può rielaborare e personalizzare classificandoli in un proprio repository condivisibile gratuitamente con chiunque egli voglia. Per farla breve: come insegnante, posso oggi generare una, dieci, cento classi virtuali all’interno delle quali gestire la produzione e lo scambio di una gigantesca quantità di dati – dai file ai video agli eserciziari – senza praticamente far sborsare un centesimo ai miei allievi… perché dovrei far loro pagare un prodotto editoriale che, molto più in piccolo, fa praticamente le stesse cose? Attenzione, “molto più in piccolo” non vuol dire che le fa male, ma che le fa senza quel background tecnologico in grado di reggere la potenza di fuoco dei colossi sopra citati. Gambe gracili, appunto. In questa situazione, i piccoli editori hanno le idee chiare su come distinguersi? Perché, a mio parere, il problema è tutto qui. Saper cogliere le novità e le tendenze è una qualità fondamentale, ma scimmiottarle conduce solo a dei disastri. E qui mi viene da porre una domanda molto provocatoria: è davvero un’esigenza DIDATTICA quella di poter personalizzare un documento (storico, scientifico, filologico), o è un effetto di IMITAZIONE indotto dalle più recenti innovazioni informatiche? In altri termini: lo voglio fare perché mi serve o semplicemente perché si può fare? E dunque: che cosa distingue un prodotto editoriale da un dispositivo di digitalizzazione dei dati? Ovviamente: piegare la tecnologia alle autentiche esigenze di una pedagogia innovativa. Un prodotto editoriale non può limitarsi a offrire dei servizi – per quanto innovativi e à la page – ma ha la responsabilità di proporre delle soluzioni metodologiche ad ampio raggio. La consapevolezza di un editore digitale dev’essere quella di comprendere che non sta solo mutando il panorama dei canali di comunicazione – dei MEDIA – ma che con esso vanno destrutturandosi-ristrutturandosi anche i codici; insomma, siamo in una fase di trasformazione del paradigma, come è stata l’invenzione della stampa nel 1500. Senso dell’orientamento, quindi. Chi non ha le strutture per competere sul mercato globale dei servizi digitali può anche offrire degli ottimi prodotti, che tuttavia finiranno per rimanere relegati nella nicchia di una domanda che non sta cercando il meglio, ma semplicemente “qualcosa”, non avendo tutte le competenze necessarie a raggiungere gli strumenti più avanzati. A fronte delle 20 scuole partecipanti al Piano per l’editoria digitale, ci sono centinaia e forse migliaia di docenti che da anni scambiano dati e documenti in rete coi loro allievi senza aver bisogno di prodotti strutturati piuttosto rigidamente (e che comunque sono costati). È vero che per due anni la sperimentazione prevede l’utilizzo gratuito dei prototipi vincitori, ma poi? Chi non ha la forza di una multinazionale deve quindi cercare altre strade, che sono quelle dei contenuti e di un confronto metodologico ad ampio raggio con la prima delle due categorie interessate all’acquisto di testi digitali: quella degli insegnanti. Ma qui torniamo al discorso sui libri di testo. Che cosa cercano i docenti nel mondo dell’editoria digitale: testi o piattaforme? Credo, allo stato delle cose, che molti (non ancora moltissimi) cerchino testi (libri di testo) senza ancora aver ben metabolizzato il concetto di piattaforma editoriale. Come si è evinto anche a Roma da alcuni interventi significativi, la proposta di tre su quattro degli editori, centrata sul libro digitale “fai da te”, ha trovato spiazzati proprio quei docenti che, non avendo sofisticate capacità di navigazione, più che di “costruire” un libro hanno bisogno di “usarlo”. A questo dato inequivocabile aggiungerei un’ulteriore considerazione: se si vogliono portare gli insegnanti (e non sempre gli stessi avventurosi aficionados) verso l’innovazione digitale, occorrerebbe prendere di petto non le loro carenze (tecnico digitali) ma le loro competenze, occorrerebbe cioè parlare loro di insegnamento-apprendimento, e non di scorciatoie buone per apparire all’altezza dei loro allevi. Occorrerebbe cioè destrutturare il testo usufruendo delle grandi opportunità del digitale – ipertestualità, condivisione, liquidità e granularità, pianificazione concettuale dei percorsi (non VS ma a fianco della linearità), sinossi semantica dei contenuti, accessibilità e inclusione delle disabilità, rimodulazione graduale dei metodi didattici, continuità e permeabilità tra gli ordini di scuola e le fasce di età – senza privilegiare sempre e solo chi è già “dalla nostra parte”. Pensare a piattaforme editoriali che “accendono la curiosità” dei ragazzi senza fare i conti con la responsabilità e le esigenze di chi quelle piattaforme deve rimodellarle giorno per giorno secondo precise esigenze didattiche, è assurdamente miope. Il primo fruitore dei libri di testo digitali è il docente, che da essi deve ricavare lo spunto per una nuova possibile impostazione dell’intero processo formativo, e non solo per un’unità di lavoro sulla cellula o il medioevo. Se, come (piccoli) editori non tendiamo a questo, allora – come si suol dire – non c’è proprio partita. |