Si può ancora fare ricerca in Italia?
di Tito Boeri,
La Voce.info 13.12.2013
Intervista al
ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza. Si è svolta
all’Università Bocconi al convegno “La
ricerca in Italia. Come distruggere, come ricostruire”. Ecco
un’ampia sintesi.
Boeri
– Grazie ministro, per aver accettato il nostro invito a
rispondere a una serie di domande sulla ricerca in Italia. Partiamo
dalla valutazione della ricerca accademica. Non possiamo permetterci
un altro Civr, una valutazione della ricerca rimasta nel cassetto,
finita nel nulla. Il Governo doveva presentare un decreto per
decidere come distribuire la quota premiale dell’Ffo utlizzando i
risultati della cosiddetta Vqr (valutazione della qualità della
ricerca) ma il decreto non è ancora stato presentato. In questo lei
sta facendo peggio del ministro Gelmini che aveva presentato il
decreto solo il 15 dicembre dell’anno in questione. Peraltro, in una
situazione in cui i tagli alle Ffo sono mediamente del 4,6 per cento
e in cui c’è una clausola di salvaguardia del 5 per cento, il
margine per ridistribuire sembra praticamente nullo. Come pensa il
Governo di rispettare l’impegno preso nel decreto del Fare ad
attribuire non meno del 16 per cento nel 2014, del 18 per cento nel
2015, del 20 per cento nel 2016, e così via, fino ad arrivare
progressivamente al 30 per cento di finanziamenti all’università
basati sulla quota premiale?
Carrozza – Abbiamo preso
l’impegno sull’utilizzo della Vqr dal 2014. Dall’anno prossimo
avremo 840 milioni ripartiti per la sola Vqr su poco più di un
miliardo disponibile per il premiale (quest’anno la Vqr impegna meno
di 500 milioni) e andremo al 16 per cento dell’Ffo come quota
premiale. Concordo sul fatto che il 2013 sia stato una gara a chi
perde meno: ci sono una serie di tagli che si sono sovrapposti negli
anni e il 2013 è stato il punto più basso. Dall’anno prossimo avremo
150 milioni in più e abbiamo recuperato altri circa 41 milioni di
fondi che destineremo alla premialità. Stiamo cercando di aumentare
le risorse dell’Ffo e queste risorse aggiuntive andranno proprio
alla parte premiale.
B. - Prendiamo
atto di questo suo impegno.
C. - Non è un impegno, è una
legge dello Stato.
B. -
La valutazione ha messo in luce un’alta percentuale di inattivi che
non fanno ricerca nelle università al di sopra di standard minimi di
qualità. Cosa pensa di fare per affrontare queste criticità? La
quota di inattivi tende ad aumentare con l’età in tutte le
discipline, in parte perché invecchiando si fa meno ricerca. Ma c’è
anche un effetto di coorte molto forte, con generazioni che cambiano
e che tendono a produrre di più. Col turnover si può migliorare
molto la qualità della ricerca. Che strumenti diamo a chi gestisce
le università per accelerare il ricambio generazionale?
C. – Credo che si possa accettare l’idea
che alcuni professori non dedichino il 100 per cento del loro tempo
alla ricerca o che con l’età producano meno, ma in ogni caso non si
può accettare la totale inattività. Penso però che concentrare la
valutazione solo sull’attività della ricerca sia un errore e che
dovremmo valutare di più la didattica. In un professore non conta
solo la produttività nell’attività scientifica, ma anche la qualità
della didattica. Questo non toglie che l’attività di ricerca sia
importante e che vada bandita l’inattività. Riguardo agli strumenti
per gestire il turnover, bisogna muoversi verso l’autonomia degli
atenei. È impensabile gestire il ricambio dal centro con norme che
sarebbero continuamente sottoposte al Tar e a un’infinità di
ricorsi. A questo proposito, dovremmo sviluppare un diritto più
robusto contro i possibili ricorsi. Tornando alla ricerca, dovremmo
pensare a piani di pensionamento per i docenti inattivi e in ogni
caso non si dovrebbe stare all’università senza essere impegnati in
didattica e ricerca. Dobbiamo entrare nella logica che queste
valutazioni servono anche a questo anche se -è importante
precisarlo- la Vqr non nasce con questa funzione perché non si
occupa di valutazione dei singoli. C’è stato un ampio dibattito
sulla proposta di rendere pubblici i dati sui singoli ricercatori e
io sono contraria. L’obiettivo della Vqr era diverso e alla base
c’era un patto di fiducia sulla valutazione delle strutture che oggi
sarebbe scorretto rompere.
Vorrei che aumentasse la percentuale dei docenti e dei ricercatori
che stanno nella parte alta della distribuzione della produttività.
Uno dei motivi per cui dobbiamo finanziare la ricerca. Dobbiamo
irrobustire maggiormente docenti e professori con programmi di
ricerca che consentano loro di essere più produttivi.
B. -
C’è una forte correlazione tra qualità della ricerca e qualità della
didattica. Convengo che quest’ultima sia molto importante. Ci sono
molti dipartimenti e non pochi atenei che fanno fatica a raggiungere
livelli di ricerca vicini a standard internazionali. Perché non
spingere queste realtà a concentrarsi sulla formazione tecnica
avanzata, venendo incontro a una forte domanda di qualifiche
intermedie da parte delle nostre imprese, sul modello delle
Fachhochschule tedesche?
C. – Credo che uno dei problemi della
nostra scuola secondaria sia considerare gli insegnanti solo dei
trasmettitori di sapere e non persone che devono continuare a fare
ricerca per approfondire il loro bagaglio culturale. Vedo male una
ghettizzazione in cui la scuola è soltanto trasmissione del sapere
mentre l’università è solo ricerca avanzata. Un tempo c’era più
mobilità tra i due mondi e sarebbe bene riattivarla perché la sua
assenza è uno dei mali della scuola. Per quanto riguarda
l’istruzione tecnica, sarà una delle priorità del mio governo darle
una dignità pari a quella del mondo universitario. E per mia
formazione sono contraria a una dicotomia tra formazione tecnica e
formazione “superiore”. Con questo mi riallaccio a quello che è uno
dei principali mali della nostro sistema universitario, vale a dire
l’incapacità di elaborare piani strategici: prima di eleggere un
rettore deve essere obbligatorio che chi lo diventerà dovrà
presentarsi con un piano che comporti delle scelte: quali
dipartimenti potenziare, quali dipartimenti fare evolvere.
B. -
Qual è la sua visione sull’università italiana tra dieci anni?
Bisogna puntare su alcuni centri d’eccellenza oppure distribuire le
risorse a macchia di leopardo? E in questo contesto, come possiamo
affrontare la questione del divario territoriale? Prevedendo delle
quote per delle macroaree? E come sfruttare realtà come quelle
dell’Istituto italiano di tecnologia per cercare di aumentare le
esternalità positive per l’intero sistema della ricerca?
C. – Bisogna distinguere due aspetti. Se
noi spendiamo il 90 per cento dell’Ffo in stipendi è inutile pensare
che questo possa diventare uno strumento di finanziamento
dell’eccellenza e di potenziamento delle aree o quant’altro, perché
dobbiamo pagare gli stipendi. Negli ultimi cinque o sei anni abbiamo
ridotto all’osso stipendi e funzionamento, per cui aumentare la
quota premiale… Io la aumenterei ma lo farei con dotazioni diverse,
non con la stessa dotazione con cui paghiamo gli stipendi perché
altrimenti comprimiamo le possibilità e non otteniamo niente,
nemmeno la crescita. Sarebbe come assediare un castello, seccare i
pozzi e prenderlo per morte di sete, ma noi non vogliamo questo. Noi
vogliamo utilizzare le politiche pubbliche per incentivare la
strategia, la differenziazione, la crescita. E incentivare il
sistema a fare quello che deve fare, vale a dire aumentare il numero
di diplomati e laureati. Non è necessario che tutti abbiano un
dottorato, ma un titolo di studio adeguato per entrare in un mondo
del lavoro che richiederà sempre più competenze e che richiederà di
studiare più volte nel corso della vita lavorativa. Spero di
riuscire a ottenere la possibilità di avere piani straordinari di
finanziamento con obiettivi specifici, aggiuntivi rispetto al
normale funzionamento che è il pagamento degli stipendi e delle
strutture. Servono però strategie ricettive che tengano conto di
quelle che devono essere le strategie di un ateneo, del contesto,
delle prestazioni nella ricerca, della didattica, della qualità dei
laureati.
B. -
Converrà però che in Italia ci sono delle realtà che, non solo hanno
un livello molto basso nella ricerca, ma che anche assumono
addirittura al di sotto di questi livelli, per cui abbassano
ulteriormente il livello medio della ricerca. La valutazione
dovrebbe servire come deterrente a una gestione clientelare del
reclutamento, nessuno si augura di arrivare a licenziamenti o
esuberi, ma non si può continuare a destinare le poche risorse
disponibili per la ricerca a realtà di questo tipo.
C. – Secondo me uno dei lati positivi
della Vqr è di avere offerto una valutazione della politica di
reclutamento. Queste assunzioni vengono fatte con fondi pubblici e
quindi è giusto che si rendiconti ai cittadini come vengono spesi i
soldi. Questa è una delle prossime sfide per l’università: rendere
pubblici i bilanci e più trasparenti le politiche di reclutamento.
Al momento il bilancio di un ateneo è di difficile interpretazione e
leggibilità. Infatti noi stiamo pensando a un premio per l’ateneo
col bilancio più leggibile chiamando degli studenti di scienze delle
finanze a far parte della giuria.
B. -
Molti ritengono che il Prin (Progetti di ricerca di interesse
nazionale), il principale programma italiano di finanziamento della
ricerca di base, sia morto. Quest’anno gli sono stati destinati 38
milioni a fronte dei 175 degli anni precedenti. L’impressione è che
si voglia puntare tutto sui finanziamenti europei dell’Erc (European
research council). È questa davvero la sua intenzione?
C. – Il Prin non è morto. Ho trovato una
situazione in cui il bilancio disponibile per la ricerca era molto
basso, poco più di 50 milioni che ho pensato di anticipare a un
bando per giovani ricercatori in modello Erc – starting grant,
quindi ricerca fondamentale basata sui settori previsti dall’Erc.
Ciò permette ai giovani ricercatori di ottenere finanziamenti
indipendenti e di innescare un meccanismo positivo da diffondere in
Italia. Il prossimo anno cercheremo di riservare dei punti organico
per le chiamate dirette di vincitori dell’Erc non in settori
specifici. Ci sarà anche una parte per la ricerca umanistica.
Piuttosto che frazionare un bando di soli 50 milioni, abbiamo
pensato di destinare quest’anno le risorse ai giovani ricercatori.
In ogni caso il Piano Nazionale della Ricerca servirà anche a
questo: ottenere impegni per la ricerca libera.
B. -
Prendiamo atto di questo impegno. Bene il programma per portare i
vincitori di Erc in Italia. Mi sembra però di capire che nel
programma Montalcini II ci sia un difetto che è proprio di tutti i
programmi per il rientro dei cervelli: vale a dire che studiosi che
hanno posizioni di rilievo nelle università straniere, sicurezza
nell’impiego, ottime prospettive di carriera, possano venire da noi
con contratti a tempo determinato e per di più in un contesto, come
l’università italiana, che non è sempre molto accogliente per chi
viene da fuori. Come sa poi nei contesti in cui ci sono poche
risorse e posizioni da difendere coi denti, la vita degli outsider
non è la più semplice. Per esperienza personale, l’unico modo per
attrarre i cervelli è offrire posizioni “tenured” e quindi contratti
a tempo indeterminato. Si può cercare di fare meglio? Magari
prendendo l’esempio della Catalogna, una regione in difficoltà
economica come noi, che ha creato un’agenzia che è riuscita a fare
arrivare 300 persone di altissimo livello da tutto il mondo, in
tutti i campi, offrendo dei contratti a tempo indeterminato e con
una selezione non fatta dai docenti dell’università, ma da esterni.
Perché non proviamo a replicare questa esperienza?
C. – Penso anch’io che un programma per
il rientro dei cervelli che non preveda il tempo indeterminato non
abbia senso. Noi possiamo cercare di spingere riservando dei punti
organico a questo tipo di chiamata poi però sono gli atenei che si
devono muovere. Ci sono atenei italiani, anche nel Sud, che hanno
l’autorizzazione a utilizzare punti organico però non lo fanno. Gli
atenei dovrebbero ricongiungere la capacità di assumere con le
risorse disponibili e rendere più trasparente anche questo
passaggio.
B. -
Quello che sembra mancare molto nel nostro sistema universitario e
nella ricerca è il fatto di avere persone con capacità di management
e che al contempo conoscano a fondo il mondo della ricerca. Questo
vale anche per i centri di spesa dei ministeri che spesso hanno un
rapporto difficile con chi è coinvolto nella ricerca. Cosa
pensa di fare per migliorare la governance delle università? Qual è
il suo giudizio sui piani strategici degli atenei? È utile, secondo
lei, creare una sorta di cabina di regia che funga da interfaccia
tra centri di spesa dei ministeri e le università?
C. - Sicuramente c’è un problema di
gestione e di formazione della classe dirigente, dei direttori
generali, dei rettori. Il tema di governance è importante e non so
se sia stato risolto semplicemente con la regola che il rettore non
viene rinnovato perché il fatto che non debba più confrontarsi con
chi lo ha eletto lo rende solo più forte rispetto a prima e meno
attento agli equilibri interni. Secondo me, il rapporto con gli
organi accademici, il consiglio di amministrazione o il senato
accademico, è fondamentale. Non deve esserci un uomo solo al comando
anche perché spesso si tratta di persone che non hanno perfetta
conoscenza del bilancio dell’ateneo o di tutte le regole del gioco.
Per quanto riguarda l’altro problema della governance, la
burocrazia, bisogna capirne le origini. C’è una burocrazia
autogenerata per controllare dal centro e porre dei limiti
all’autonomia degli atenei e una burocrazia che viene da una
stratificazione normativa, da eccessivi meccanismi di controllo che
io ho sempre contestato perché rende più difficile la vita di chi
opera in un’università. Se, per fare un esempio, il Politecnico di
Milano ha una mole di burocrazia molto maggiore rispetto al
Politecnico di Vienna non potremo mai chiedere al Politecnico di
Milano di competere ad armi pari, perché il fattore tempo nella
didattica e nella ricerca è fondamentale. Per quanto riguarda infine
la nostra capacità manageriale, credo che i progetti europei abbiano
fatto molto bene ai nostri atenei: la mescolanza di chi gestiva i
fondi europei con l’amministrazione nazionale classica ha portato a
una crescita collettiva. Probabilmente dovremmo fare questo sforzo
utilizzando il programma Horizon 2020 della Commissione europea e
l’occasione offerta dalla presidenza italiana della Ue come
opportunità di crescita anche nel nostro ministero.
B. - E
sulla questione della cabina di regia dei ministeri cosa ne pensa?
C. – È una cosa che mi sta molto a
cuore. Penso che la ricerca, così come la scuola, debba essere una
delle priorità del presidente del Consiglio. Spesso glielo dico
ricordandogli che io dovrei essere un esecutore delle decisioni del
Governo in materia. Ritengo che la frammentazione della ricerca in
vari ministeri abbia fatto male alla ricerca italiana. Nel caso del
Piano nazionale della ricerca conto di riuscire a coinvolgere il
ministero della Salute. Spero di riuscire a fare anche un
coordinamento interministeriale che dovrebbe rappresentare la
sperimentazione di una cabina di regia.