Tra cefalea e decapitazione
di Franco De Anna,
ScuolaOggi 31.12.2013
Da diversi commentatori, di diverse vicende nazionali, si sottolinea
la "vocazione all'emergenza" che sembra segno distintivo della
nostra politica-politicata. Un carattere che viene da lontano e che
rimescola cause diverse con medesimo effetto: una politica pubblica
inerte e in ritardo, incapace di cogliere l'innovazione e di
governarla; ma anche eterne e irrisolte transizioni che muovono da
riforme apprezzabili (a volte guizzi innovativi dei legislatori,
pochi) affidate però per la realizzazione a esecutivi amministrativi
(tanti e nascosti) che, non condividendole, procurano di
rallentarne, complicarne, annullarne gli effetti innovativi.
Tra ritardi inerziali e transizioni mai risolte, quando i problemi
si presentano con la loro densità non aggirabile, scatta
l'emergenza. E, questa porta con sé, inevitabilmente,
approssimazioni, sprechi, inefficienze: quando occorre fare in
fretta cose non fatte per tempo, non c'è spazio per approfondimenti,
scelta misurata tra alternative, confronti esaustivi tra ipotesi
diverse. Insomma il cuore della politica.
La sostituzione del Presidente INVALSI sembra in certo modo afflitta
da tale inclinazione della politica pubblica nazionale.
In una situazione "normale" e non emergenziale, tale avvicendamento
dovrebbe ubbidire a procedure sensate e consolidate. Semmai
accompagnarsi a riflessioni critiche sul "già fatto e sul da farsi",
sulle qualità espresse e sui difetti da correggere.
La norma (dlgs 213/2010) prevede bensì che le proposte giungano al
Ministro da parte un "Comitato di esperti" che istruisce la
procedura selettiva e che dovrebbe fornire al decisore una rosa di
candidati entro la quale il Ministro decide. E così si è fatto.
E tuttavia la medesima norma prevede che l'Istituto (tutti gli
Istituti di ricerca) elaborino un Documento di Visione Strategica (DVS)
di cadenza decennale ed una sua traduzione in Piani Triennali di
Attività (PTA), aggiornati annualmente e oggetto di rendicontazione.
Tra le tante cose discutibili di quella norma, il fatto che un
Istituto di Ricerca si dia un orizzonte programmatico almeno
decennale appare assolutamente sensato.
Ma la procedura di selezione adottata dal gruppo di "esperti"
nominato dal Ministro sembra chiedere, ai candidati stessi, una
sorta di "programma personale" (non più di 12000 battute da
consegnarsi entro il 7 Gennaio...).
Il messaggio indiretto è stato dunque che, per l'occasione, si
mettesse in discussione gli orientamenti, i programmi, i caratteri,
le esperienze fin qui condotte ed il loro sviluppo futuro non solo
dell'Istituto ma dello stesso sistema di valutazione nazionale.
Da tale interpretazione vengono probabilmente le prese di posizione,
petizioni, raccomandazioni, rivendicazioni... (si veda in rete in
vari siti, e il mio commento "Pulpiti, prediche e chierici" su
questo stesso sito).
Si badi: la procedura singolare dei "selezionatori" si innesta su un
retroterra costituito dagli assetti dell'INVALSI segnato da una
lunghissima ed irrisolta transizione, con anni di gestione
commissariale, incertezza di strutture e norme. Basti pensare che
l'autonomia statutaria riconosciuta all'Istituto è surrogata da uno
statuto adottato dal Ministero "vigilante" in assenza di
elaborazione propria. L'autonomia statutaria non ha trovato autonoma
interpretazione...
Un cortocircuito che rischia di rendere evanescente l'affermazione
dell'autonomia scientifica, organizzativa, regolamentare,
amministrativa, finanziaria, contabile e patrimoniale, assegnata
all'INVALSI e dunque la sua effettiva "terzietà" (sempre nei limiti
che essa può assumere per un Ente Pubblico per il quale istituti,
organi, strutture, finanziamenti, vigilanza dipendono in modo quasi
totale dall'Esecutivo). Non meraviglia dunque che si chieda una
sorta di programma personale ad un aspirante Presidente di un
Istituto di Ricerca che dovrebbe avere un Documento di Visione
Strategica decennale ed anche un Piano Triennale di Attività....
Ormai siamo a compimento dell'itinerario ed è possibile riassumere
almeno tre "categorie" di prese di posizione (gruppi di pressione?)
tendenti ad assicurarsi certi caratteri della "successione" alla
Presidenza, come se si trattasse di "riscrivere" il ruolo
dell'INVALSI.
Mi permetto, per ciascuna, di metterne in rilievo quelle che
considero significative parzialità.
Il primo gruppo si esprime, con motivazioni ed argomentazioni certo
diverse ma convergenti, nel richiedere e rinforzare le esperienze di
rilevazione e valutazione standard degli apprendimenti consolidate
in questi anni, nonché le prospettive di valutazione delle
Istituzioni scolastiche, dei Dirigenti scolastici e, perché no? Del
personale scolastico.
Sotto il profilo delle "scuole di pensiero" nel gruppo di opinione
sono aggregati gli "economisti", gli "statistici", i "quantitativi",
i cultori della valutazione come strumento di selezione, di merito,
di premialità, di razionalizzazione di sistema.
Ho sempre sostenuto la distinzione tra la "ricerca pedagogica", che
ha per oggetto la relazione educativa, e la "ricerca educativa" che
ha come oggetto il "sistema" di istruzione. A quest'ultima
appartiene la ricerca valutativa messa in capo all'INVALSI e che si
è espressa in questi anni (soprattutto) attraverso le rilevazioni
dei livelli di apprendimento.
In questo senso ho sempre sostenuto che gli strumenti della "ricerca
sociale" sono appropriati al compito e non rappresentano invece,
come sostiene un'altra impostazione, una "deviazione" rispetto alla
pedagogia.
Vorrei però segnalare in estrema sintesi due notazioni che mi pare
vengano sorvolate nelle prese di posizione di questo "gruppo" di
opinione.
Un buon economista è colui che non si limita a "calcolare".
Manipolare in modo raffinato e rigoroso numeri e dati non esenta dal
percorso inferenziale necessario a interpretare la realtà: i dati
sono "regole vuote", se non vengono aggregati a costruire
"informazioni" e se queste ultime non vengono a loro volta correlate
a costituire "sintomi" e se questi ultimi non vengono sensatamente
interpolati a costruire "ipotesi diagnostiche" e se queste ultime
non vengono sottoposte a opportune falsificazioni... Insomma il
procedere scientifico alla valutazione deve portare sempre dai dati
e misure alla "elaborazione del giudizio". Cattivo economista chi si
limita a "calcolare" (ne abbiamo purtroppo esempi in altri ambiti).
Del resto il percorso inferenziale descritto è quello proprio di
ogni "impresa scientifica". (E' il metodo)
Nella ricerca sociale il paradigma della "variabile indipendente"
non è applicabile come invece avviene in un laboratorio di scienze
naturali. La ricerca sociale ha sempre come oggetto sistemi
multivariabili complessi che sfuggono ad ipotesi di causalità
lineare.
Per le medesime ragioni, impostazioni valutative di tipo "controfattuale"
sono sempre a rischio di semplificazioni inaccettabili. Non è, per
intenderci, un problema di "quantitativo" versus "qualitativo", ma
di metodologia scientifica di ricerca
Per fare solo un esempio: in questi anni si sono sviluppati progetti
di rapporto valutazione-miglioramento-premialità economica (VSQ,
Qualità e merito, ecc..) contrassegnati da ipotesi di Automatismo
tra miglioramento e premialità. Chi vi ha partecipato ha verificato
strada facendo i limiti di tale riduzionismo deterministico. Ma quei
progetti attendono (forse non per caso..) di essere oggetto di una
vera valutazione/falsificazione.
A questo raggruppamento di opinioni vorrei solamente ricordare che
non c'è miglior alleato degli avversari della valutazione di chi ne
proponga una immagine meccanicistica e riduzionista.
Il secondo raggruppamento, esattamente opposto al primo, è quello
rappresentato da tante prese di posizione che rivendicano la natura
pedagogica della funzione valutativa, la sua irriducibilità allo
standard, allo strumento impersonale dei test (e rivendicano un
Presidente INVALSI che provenga dalla cultura pedagogica).
Anche in tale caso siamo in presenza di "parti" di verità che,
utilizzate come "interi" producono esattamente il contrario di
quanto vorrebbero sostenere. (E lasciano trasparire altre più
autentiche pulsioni)
La valutazione, nella sua dimensione clinica, personalistica,
promozionale, differenziale che anima (lo dovrebbe...) gran parte
della relazione educativa (la valutazione espressa dai docenti nel
loro rapporto con i discenti) è cosa affatto diversa dalla
rilevazione dei livelli di apprendimento realizzata dall'INVALSI.
"Deve" essere cosa diversa. Interpreta valori, metodi, approcci
diversi e "produce" esiti diversi.
Il confine è nettissimo e separa in modo inequivocabile i due campi.
E tuttavia il confine non è solo linea di separazione ma anche
"frontiera" di scambio. Scambi di "cultura", di competenze, di
metodologie, di strumenti che si adattano reciprocamente a funzioni
diverse.
La valutazione dei docenti si misura con i soggetti, la loro
evoluzione, i loro percorsi. Ha come riferimento la "molecolarità"
della relazione educativa. La rilevazione dei livelli di
apprendimento rielabora, invece, "indicatori", cioè "segnali" di
fenomeni complessivi, di "sistema", di aggregati macro, impersonali.
Purtroppo l'attenzione di molti (senz'altro i media, ma purtroppo
anche molti appartenenti al mondo della scuola) è sempre catturata
dai valori medi, da confronti e graduatorie per grandi aggregati.
(Così non legge e spreca gli esiti stessi della rilevazioni, ma
rimprovera i suoi limiti all'INVALSI. Anche questo è un curioso
costrutto)
Ma chi è autenticamente sensibile alla dimensione educativa della
valutazione entro la processualità e molecolarità della relazione
educativa dovrebbe soprattutto interrogarsi sulla variabilità degli
esiti della rilevazione, non sulle medie e tanto meno su ipotetici
"standard".
La variabilità dei dati complessivi, la variabilità interna ai
diversi aggregati territoriali, la variabilità tra scuole, la
variabilità all'interno della stessa scuola tra le classi, ci
presentano un preoccupante panorama di disomogeneità e di non-equità
interna del sistema. Ciò pone problemi fondamentali di politica
pubblica dell'istruzione, ma anche di significazione sociale che non
può che coinvolgere un intero ceto professionale. Per quale scuola
stiamo lavorando?
La domanda che proviene da questi "dati" ha un riflesso
inequivocabilmente "pedagogico", interroga la professionalità dei
docenti e l'appropriatezza delle metodologie usate dagli stessi
docenti (prima ancora o non solo di quelle dell'INVALSI) . Ha una
fondamentale funzione di "rispecchiamento". Certo il
rispecchiamento, si sa, a volte è doloroso, ma è la precondizione
per un effettivo miglioramento.
Si paventa l'opportunismo dei fenomeni di teaching to test connesso
a certe metodologie di rilevazione; ne siamo tutti avvertiti... Ma
la realtà non narra forse di tanti e diversi "opportunismi
valutativi" (teaching to compito-in-classe, teaching
to-interrogazione-quadrimestrale) che nulla hanno a che fare con la
"superiorità pedagogica" che si rivendica?
Mi importa poco delle "graduatorie": di quelle internazionali, ma
anche di quelle regionali o di quelle tra istituti scolastici e
francamente trovo ridicolo agitare tale spauracchio a fronte della
realtà ineguale e ingista del nostro sistema: la sua dis-equità
interna tra regione e regione, tra scuola e scuola, tra classe e
classe rappresenta una pericolosa smentita al ruolo sociale che
vorremmo assegnare all'istruzione pubblica come leva di promozione,
eguaglianza, sviluppo. Questo è il problema; il resto è autodifesa
di ceto professionale (non censuro ovviamente e anzi comprendo: ma
occorre "dare il nome alle cose")
Voglio solo ricordare che la grande variabilità dei dati relativi
alle rilevazioni dei livelli degli apprendimenti non è cosa di oggi
e non è particolarmente legata a questa stagione storica di
limitazione delle risorse dedicate alla scuola.(Non è colpa della
Gelmini... per intenderci, alla quale si può imputare ben altro..).
Oggi è posta in rilievo dalle rilevazioni sistematiche dell'INVALSI;
ma è cosa antica.
Le ricerche IEA ci raccontano da decenni (circa tre) una situazione
nazionale per la quale a valori medi molto bassi nel confronto
internazionale (penso all'istruzione secondaria) corrispondevano
valori più alti confrontabili con i migliori, per esempio nel primo
quartile... Per anni e anni ci siamo accontentati di considerare che
i nostri migliori erano "migliori come i migliori degli altri".
Abbiamo sorvolato sui dati di diseguaglianza e lasciato che la
situazione progressivamente peggiorasse..
Non posso fare a meno di richiamare il fatto che, in quegli anni,
l'Istituto nazionale che si occupava di tali rilevazioni (allora era
il CEDE, il "padre" dell'INVALSI) era saldamente diretto da
autorevoli esponenti della cultura pedagogica...La politica
"sorvolava".
C'è un terzo gruppo che sembra mediare tra i due estremi, proponendo
una "ragionevole" composizione di approcci. In sostanza: manteniamo
l'impegno faticosamente costruito in questi anni con le rilevazioni,
ma ricollochiamo il tutto entro una "cultura valutativa" capace di
coinvolgere le scuole, i docenti, la cultura diffusa nella scuola.
Come potrei non essere d'accordo, soprattutto se fossero chiare le
distinzioni di fondo precisate nei punti precedenti? Ma temo che
tale "irenismo della ragione" si scontri duramente con un possibile
"ottimismo della volontà". Per molte ragioni, ma sottolineo solo le
due principali
Il fronteggiamento delle posizioni opposte richiamate in precedenza
non è solo "confronto di opinioni" tra le quali rintracciare
mediazioni "ragionevoli".
Si tratta invece di un intreccio di "scuole di pensiero", culture,
ma anche "interessi" diversi. Il pensiero sulla "valutazione" è in
realtà solo l'emersione di ipotesi e significati diversi assegnati
alla scuola, al lavoro dei docenti, alla "politica scolastica" e,
non ultimo, di corporazioni accademiche e non.
Lo stesso atteggiamento verso le rilevazioni INVALSI è profondamente
differenziato e diversamente distribuito tra i diversi ordini di
scuola e le "culture" corrispondenti. Nessun docente è felice di
affrontare il carico aggiuntivo del lavoro che le rilevazioni
comportano, ma i docenti della scuola elementare (che hanno iniziato
per primi) in questi anni si sono non solo adattati, ma hanno anche
imparato a guardare con qualche attenzione ai risultati. Il livello
di sopportazione/partecipazione/ condivisione decresce drasticamente
nel passaggio alla secondaria. L'opposizione aperta fino a fenomeni
di luddismo è concentrata nella secondaria superiore e in
particolare nei Licei..
La posizione di mediazione proposta vorrebbe fare leva su una
"cultura della valutazione" espressa dal mondo della scuola, da
potenziare, favorire, promuovere.
La realtà ci racconta invece che proprio tale fattore è un "fattore
di debolezza", un "problema" non la sua "soluzione".
Alla disomogeneità dei dati relativi agli esiti delle rilevazioni
(la dis-equità sistemica); alle fenomenologie di cui sarebbe bello
tacere e che riguardano direttamente non le rilevazioni INVALSI, ma
proprio la valutazione dei docenti, corrisponde invece una "cultura
della valutazione" attraversata da dislocazioni e faglie
professionali tra i diversi ordini di scuola.
Che dire del livello di selezione nei primi anni della superiore?
Dei programmi di recpero che si limitano spesso ad abbassare
l'asticella, del gradiente della distribuzione territoriale dei voti
di maturità esattamente opposto al gradiente della distribuzione
territoriale dei test di ingresso all'università?
Non una ricchezza cui riferirsi ma una debolezza da superare.
Affermare che in tale modo si porrebbe rimedio alla forzatura di una
valutazione "omologante" rispetto alla qualità "singolare" delle
esperienze della scuola appare francamente in contraddizione palese
con la frammentazione della realtà.
Pur stigmatizzando l'approccio "emergenziale" che si finisce per
dare ad una occasione che dovrebbe essere "normale", come
argomentato in apertura, è un fatto che il cambio di presidenza
sembra riaprire i termini e problemi di una lunga e contraddittoria
transizione nella organizzazione del sistema della Ricerca Educativa
in generale, ed in particolare dell'INVALSI. Il confronto politico
sotteso è dunque "duro" e non credo risolvibile dalla mediazione
proposta, né credo che la dimensione "irenica" della proposta aiuti
nella battaglia politico culturale necessaria.
Nel confronto politico non ci si può infatti esimere dall'affrontare
almeno gli elementi salienti di quella problematica: l'INVALSI è
davvero una struttura "incompiuta".
Provo, in estrema sintesi ad elencare quelli che ritengo gli
elementi salienti di quella incompiutezza
L'assetto istituzionale dell'INVALSI mantiene elementi problematici:
Ente pubblico con rapporto strumentale con il MIUR, il quale
esercita vigilanza, ma fornisce anche linee guida, le risorse
prevalenti, le regole di funzionamento assimilate alla gestione
della Pubblica Amministrazione...
Contemporaneamente una definizione formale di autonomia che sembra
configurare un rapporto ausiliario con il Ministero (quindi con
margini di definizioni finalistiche "proprie").
Non voglio riaprire una questione "di principio"; ma la
consapevolezza anche di tale dimensione problematica va assunta come
stimolo a curare la costruzione di una "costituzione materiale"
capace di dare risposte anche a tali aspetti (esercizi di
interpretazione dell'autonomia.. Della definizione statutaria "in
deroga", p. es. si è detto..)
Il sistema della Ricerca Educativa è oggi "presidiato" dai due
Istituti nazionali (INVALSI e INDIRE). E' possibile delineare un
quadro di collaborazione (personalmente giocherei la carta della
unificazione, ma non è il caso al momento..) che non sia
semplicemente rinvio a buone volontà, creando per esempio strutture
miste?
Il problema (transizione incompiuta) è quello del come costruire un
sistema di "services" (formazione, ricerca, consulenza, assistenza,
valutazione) che sappia sostituire il tradizionale modello di
"comando amministrativo" in un sistema che l'autonomia scolastica ha
comunque reso policentrico (ovviamente il problema irrisolto spinge
per "tornare indietro" rispetto all'autonomia. Ma qui sta una scelta
"politica" vera, sottostante a tanti strumentali dibattiti sulla
valutazione..)
Gli Istituti della Ricerca Educativa dovrebbero configurarsi come
"tecnostruttura" del sistema di governance del sistema di istruzione
(Ministero, Regioni, Istituzioni Scolastiche autonome). Come
superare l'immagine e la condizione convalidata di strutture al
servizio esclusivo di "un" soggetto della governance (il MIUR)?
Servizi, commesse, finanziamenti, assetti...
Un confronto con il Servizio Sanitario Nazionale con le sue
tecnostrutture (Istituto Superiore di Sanità, AGENAS ecc..) in
rapporto agli altri soggetti di governance potrebbe fornire qualche
suggerimento utile criticamente anche per l'istruzione.
la stessa esigenza di "terzietà", potrebbe trovare qualche sensata
risposta proprio nella pluralità dei soggetti di riferimento e di
committenza.
Lo sviluppo del "sistema di valutazione di sistema" (sviluppo e
diffusione della cultura della valutazione, rilevazioni dei livelli
di apprendimento, sistema di valutazione/autovalutazione delle
scuole, valutazione dei Dirigenti Scolastici...) non può reggere un
modello fondato su un "Quartier generale" che si rapporta con un
sistema policentrico e diffuso sul territorio. Il "centro" deve
dotarsi di "terminali intelligenti" se vuole rapportarsi con tale
dimensione. La ricerca valutativa deve configurarsi come "service",
come consulenza, come "interlocutore e promotore dell'innovazione",
capace di "fidelizzare" le scuole.
La cosiddetta "terza gamba" del sistema (gli ispettori) è, per ora,
una semplice "affermazione" cui non corrisponde... nulla. A parte lo
stato dell'arte del numero di ispettori attualmente in servizio, se
si considera l'impostazione del concorso, per altro ancora inevaso,
la valutazione è tutt'altro che un fulcro del profilo professionale.
Il reclutamento, la formazione, la selezione del personale esperto
che operi in rapporto con le scuole è un problema apertissimo e che
chiede intervento immediato. E' però operazione necessariamente
lenta e mirata: si tratta di figure professionali inedite e che
vanno costruite sul campo e attraverso attenta selezione. Ma più
tardi si comincia (o si ri-comincia) più lontana è la soluzione.
Insomma, al di là degli "schieramenti" è necessario un robusto input
di pensiero, e superare le schematizzazioni di comodo.
Pensare ha sempre una dimensione di stretching: ti trascina fuori da
dove stazioni con comodità. Come lo stretching provoca qualche
doloretto, ma poi stai meglio.
Anche se c'è sempre qualcuno che pensa che il rimedio alla cefalea
sia la decapitazione.