PISA 2012. di Emiliana De Santis, mediapolitika 9.12.2013 Pubblicati qualche giorno fa, i risultati del test PISA 2012 (Program for International Student Assessment – Programma per la valutazione internazionale degli studenti) non hanno mancato di suscitare ampio dibattito e aspre polemiche. Promossa dall’ Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) su un campione di 510 mila quindicenni in rappresentanza di 28 milioni di coetanei in 65 Paesi aderenti, l’indagine ha avuto per l’Italia esiti non proprio scontati. Sembra infatti che il sistema scolastico sia nel suo complesso migliorato ma non così tanto da estinguere quel granitico distacco tra Regioni e sessi. PISA valuta la capacità dei giovani di usare le loro conoscenze e abilità per risolvere problemi reali cercando di non limitarsi alla semplice determinazione del grado di preparazione nelle singole discipline scolastiche. Il test tenta di analizzare infatti l’abilità degli studenti nel leggere testi di natura non specialistica, matematici e scientifici, verificando la capacità di capire concetti chiave, padroneggiare specifici processi e applicare conoscenze a situazioni diverse. L’inchiesta raccoglie inoltre informazioni sugli atteggiamenti degli studenti e sulle loro strategie di apprendimento. Il rapporto 2012 vede un’Italia ancora sotto la media dei Paesi Ocse: media italiana 485 punti, media Ocse 494, svetta Singapore in cima alla classifica con un media di punteggi pari a 613. Le migliori performance delle Penisola sono quelle degli adolescenti trentini e veneti con un punteggio medio rispettivamente di 524 e 523 punti mentre il Sud, in alcuni casi, sprofonda negli abissi della classifica. Gli studenti italiani vantano anche il triste primato di assenze ingiustificate. Eppure i risultati sono migliori sia rispetto a quando sono cominciate le rilevazioni, nel 2003, sia rispetto all’indagine del 2009. In gran parte perché il test è articolato in domande a risposta multipla a cui molti degli studenti italiani non erano abituati fino a qualche anno fa. In questo periodo di tempo le scuole e le università hanno fatto molto per adeguare le verifiche di apprendimento alle modalità del test PISA. Quindi, più che di una reale progressione della conoscenza matematico-scientifica potrebbe trattarsi di una maggiore familiarità dei ragazzi al test stesso. Un focus dell’Associazione Docenti e Dirigenti Scolastici Italiani (ADI) ha quindi dimostrato che una maggiore ricchezza nazionale e più elevate spese di istruzione non sono di per sé garanzia di migliori risultati degli studenti – come rende evidente il caso svedese, Paese che ha ottenuto nei test un punteggio inferiore a quello italiano pur avendo un Pil pro capite maggiore del nostro (Svezia, Pil pro capite nel 2012 pari a 40.304 dollari contro i 29.812 dollari italiani, a parità di potere d’acquisto). Ciò che conta è come le risorse sono utilizzate, la qualità degli insegnanti e la tendenza del sistema a credere nel successo di tutti dando le opportunità e gli strumenti per riuscirci. È evidente che alcuni sistemi scolastici valorizzano gli studenti più di altri, aiutati dal contesto sociale, politico e familiare. Identico si pone il problema quando il divario riguarda il sesso piuttosto che la residenza. Le ragazze hanno ottenuto nei test risultati inferiori – 11 punti è la media del divario nei Paesi Ocse, 18 in Italia – indipendentemente dalla regione di provenienza, risultati che diventano aspramente divergenti tanto più si sale nel livello di formazione. Paola Profeta, professoressa di Scienza delle Finanze presso la Bocconi, approccia la questione parlando di autostima: “[..] Autoesclusione delle ragazze che, in caso di incertezza, preferiscono non rispondere ai test: ed è un peccato” mentre Susanna Mantovani, ordinario di Pedagogia alla Bicocca, ne fa una questione di pregiudizio: “E’ vero che da noi prevale ancora lo stereotipo che la matematica è una cosa dura, da uomini. Quando si parla di incubi a scuola, si usa dire cattiva come la professoressa di matematica, non sarà un caso”. Il Ministro Carrozza, professore universitario di bioingegneria industriale, della materia se ne intende e non può non ammettere la presenza di una questione di genere che coinvolge il nostro Paese più di altri. Fiducia, motivazione e voglia di emergere, questo manca a molte delle nostre quindicenni che mollano la presa poiché si sentono inadeguate. L’Università di Bologna è andata anche più a fondo, provando con uno studio di settore che effettivamente il problema non è scolastico ma di natura culturale: le mamme convinte che la matematica non sia solo affare da uomini, garantiscono alla prole femminile un più ampio tasso di successo nelle materie scientifiche. Finché non saremo noi a cambiare, non possiamo pertanto aspettarci che sia un test a dirci cosa fare. |