Classi hi-tech, libri gratis e nessun bocciato Viaggio nell’istituto superiore Meilahden Yläaste, modello di istruzione personalizzata e in cima alle classifiche Ocse Qui i ragazzi studiano tre lingue straniere, hanno risultati eccellenti nelle materie scientifiche e non fanno esami Andrea Tarquini la Repubblica, 3.4.2013
DAL NOSTRO INVIATO «Primo, una breve riunione », mi spiega la preside in rosso. «Prepariamo la consulenza individuale settimanale a ogni ragazza e ragazzo, per aiutarlo a scegliere il suo programma di studi da noi e dopo ». La struttura del sistema, in breve: la Meilahden Yläaste è una scuola media superiore, educa cioè i giovani tra i 14 e i 16 anni, il triennio conclusivo della scuola dell’obbligo, prima della scelta tra liceo o scuola professionale, triennali entrambi, che abilitano a università o politecnici. Tutto gratuito, rette universitarie o di politecnico 80 euro annuali e aiuti statali ai giovani dai 7.200 ai 9.000 l’anno, per fitto e altro, libri a disposizione. «Non bocciamo, non lasciamo cadere nessuno», dice la gentile Rouva Doktori (dottoressa) Riitta. «Niente esami veri prima dell’ammissione a università o politecnico, gli esami duri sono all’ateneo per gli aspiranti insegnanti». Dopo la riunione, la preside procede con una breve ispezione nelle classi. Si affaccia, i ragazzi salutano in inglese, «Good morning, mrs Principal », vedendo l’ospite straniero. Studiano sodo, concentrati. Lingua e letteratura finlandese, lo svedese (lingua della minoranza qui) e l’inglese d’obbligo, la terza lingua straniera facoltativa ma chiesta da tutti, «scelgono soprattutto tedesco, spagnolo, ora decolla il cinese», materie scientifiche. Musi lunghi a matematica, i ragazzi si somigliano in tutto il mondo. Nell’ora d’inglese invece si divertono da pazzi: ognuno svolge un tema navigando in rete con uno dei computer portatili della scuola. Computer anche ai corsi di design, arti visuali e scultura: ragazze in maggioranza, mostrano fiere sculture in stile moderno o bozzetti di moda. Le classi sono gruppi d’amici ma non chiuse: ogni ragazza o ragazzo ha un programma di studio individuale, scelto con lui secondo la sua personalità e vocazione, con colloqui continui, quasi un abito su misura del sapere, per lanciarsi domani nel mondo del lavoro. Ai muri, né crocifissi né emblemi nazionali. Solo un piccolo busto del maresciallo Mannerheim, padre della patria, in sala professori. Tra i ragazzi,parecchi figli di migranti, vestono come vogliono, niente divieto del velo: docenti, giochi online e classi li aiutano nei corsi accelerati per imparare il finlandese. Computer online e connessione wireless gratuita ovunque, anche nella fornitissima biblioteca al pianterreno. Nessun lusso: pareti imbiancate quando proprio è necessario. Rigore come nel duro dopoguerra, quando un nyet di Stalin vietò alla Finlandia di accettare il Piano Marshall. Ma sul digitale non si risparmia. «E cerchiamo sempre di insegnare in contatto col concreto, col mondo reale», dice la giovane Eeva Haapanen, insegnante di educazione fisica, in un italiano perfetto. Rapido sguardo di Riitta alla contabilità. «Le scuole», spiega, «sono autonome dal ministero, scelgono da sole gli insegnanti con un bando, possono tenerli quanto vogliono. Per fortuna la spesa pubblica per l’istruzione è il 7,2 per cento del prodotto interno lordo, sui bilanci delle famiglie carichiamo una spesa sola: cartella o zaino. Libri e tutto il resto, fino ai computer, lo forniamo noi». Ore 11,45, suona di nuovo la campanella: pausa mensa. Rouva Doktori Erkinjuntti e Sarmia sono in coda con i ragazzi, che parlano dei voli più economici per i prossimi concerti di Justin Bieber, dei Biffy Clyro o dei Depeche Mode. Insalate, poca carne, acqua, latte o kefir da bere, menu concordato con genitori e studenti. Herra Sarmia si confessa: «Stamane ho ripescato due ragazzi dell’ultima classe, forse avevano alzato il gomito, avevano saltato il compito d’inglese. L’abbiamo finito insieme, ma in classe, non ghettizzandoli. Scusi, ora corro a casa del giovane rom. Ha una storia di vita violenta ma cerco di salvarlo. Corsi a casa per lui, magari a 16 anni o alla peggio un anno dopo passerà il titolo intermedio, troverà una scuola professionale. È una loro tradizione non mandare i figli a scuola, dobbiamo adattarci». «Meglio per i contribuenti», interviene la preside, «se finisce emarginato sarà infelice e costerà a tutti, se studia troverà un lavoro dignitoso». La campana suona di nuovo, pausa finita. Un quindicenne si avvicina timido, mi prega di ascoltarlo cantare, intona “O sole mio” come un tenore. «Puntiamo a mandarlo al conservatorio», mi sussurra Rouva Doktori Herkinjuntti. Il lavoro di “mrs Principal” continua, frenetico: telefonate per ordinare nuovi libri, visite alle classi più avanzate in biologia e storia, briefing con la psicologa, l’infermiera, il cuoco e l’operatore sociale della scuola. Corso di musica, ultima tappa: ragazze e ragazzi preparano un concerto rock di tarda primavera, vale nel punteggio. «Lo stress del rapporto di fine anno scolastico viene dopo, a giugno, poi gli studenti e noi stacchiamo la spina della tensione», dice la preside. Ore 15,30, suona l’ultima campana. La preside mi saluta sulla porta, i ragazzi escono sorridenti, salutano cortesi, gli occhi sugli smartphone: cercano voli per i concerti rock Gran Bretagna ma anche offerte di lavoro e apprendistato nelle multinazionali finlandesi, asiatiche o tedesche. O ascoltano musica col Nokia a tutto volume, coppiette o amici camminano sottobraccio verso la fermata del bus o la stazione del metrò. |