Usa, guerra sulle università online:
"Democratiche? No, solo un bluff"

Dall'Esquire al New York Times inchieste e servizi dall'interno dopo che la California ha avviato un progetto per parificare i crediti con i corsi "fisici" in quelle pubbliche. Si supera la barriera di censo, ma i corsi si trasformano in show, non c'è rete culturale e per la futura professione, e il 97% abbandona prima della conclusione

dal nostro corrispondente Federico Rampini la Repubblica, 22.4.2013

NEW YORK - Sono il non plus ultra della democrazia, o sono una gigantesca impostura? L'America si spacca sulle università online. La battaglia imperversa, spacca in due soprattutto il fronte progressista. E un giornalista di Esquire che ha provato a frequentarli per un intero ciclo accademico gli dà i voti: i corsi online se la cavano con una dignitosa sufficienza, ma non reggono il confronto con l'insegnamento "di persona".

E' una controversia di grande attualità perché qui i corsi universitari su Internet stanno dilagando. E non siamo più agli esperimenti "preistorici" che videro come protagoniste delle facoltà un po' marginali dalla fama perfino truffaldina (University of Arizona). No, ormai nel business dell'insegnamento online si sono lanciati dei colossi di primissima levatura, grandi nomi dell'Ivy League, le più prestigiose università del mondo da Harvard a Stanford. Alcune in joint venture tra loro, hanno creato delle società apposite che si chiamano Coursera, Udacity, edX. Ma queste università che per i loro corsi "fisici", con frequenza in aula e contatto diretto col docente, ti chiedono delle rette dai 40.000 dollari annui in su, online ti danno dei corsi di ottimo livello e praticamente gratuiti. Col rischio di canibalizzarsi?

Fino a ieri, un confine ben preciso delimitava i due tipi di insegnamento. Anche se in America non esiste il "valore legale della laurea" come in Italia, tuttavia i corsi online si distinguevano perché non danno "crediti", cioè quei punteggi che servono a conseguire la laurea "reale". Insomma era ben chiaro che c'è un'istruzione di serie A (carissima, salvo per gli studenti meritevoli che ottengono borse di studio) e una di serie B alla portata di tutti, accessibile nel mondo intero, ma certo non altrettanto spendibile sul mercato del lavoro. Un'azienda, nel colloqui d'assunzione, evidentemente sa fare la differenza tra chi ha frequentato le aule di Harvard per quattro anni e chi invece si è iscritto ai corsi seguendoli sul proprio computer da casa.

Ma quel confine è stato improvvisamente messo in discussione, il mese scorso, dallo Stato della California. Con l'avvio di una riforma che porterebbe a estendere per i corsi online lo stesso riconoscimento di crediti che viene ottenuto frequentando in aula. Le motivazioni: ideali, ed economiche. Da una parte un'aspirazione all'istruzione gratuita per tutti. Dall'altra, più prosaicamente, la necessità di far fronte a una scarsità di fondi pubblici per le università. "Vogliamo essere il primo Stato Usa che realizza questa promessa: nessuno studente universitario in California deve vedersi negato il diritto allo studio solo perché non c'è una sedia libera per lui in un'aula", così il presidente del Senato californiano, Darrel Steinberg, ha avviato l'iter legislativo della riforma che innalza lo status dei corsi online. Ha l'appoggio del governatore Jerry Brown che vede nel boom delle università online un aiuto insperato: gli può consentire di perseguire la democratizzazione dell'accesso all'università, in una fase in cui i fondi pubblici scarseggiano e le università "fisiche" sono colpite da dolorosi tagli (quelle del settore pubblico ovviamente, non le private).

Per quelle migliaia di aspiranti studenti, che oggi rischiano di non trovare posto nei community college o nelle superfacoltà statali del sistema University of California (che ha i campus di Berkeley, Santa Cruz, Santa Barbara, Los Angeles, San Diego), lo Stato offrirebbe in alternativa i "Massive Open Online Courses" (Mooc), gratis. Oggi i 112 community college della California hanno in media 7.000 studenti ciascuno su "liste d'attesa".

Ma l'insegnamento online è davvero una soluzione, o invece è una scorciatoia illusoria? A conferma che si tratta di una disputa rovente, sul tema è intervenuto il New York Times con un editoriale della direzione, dai toni durissimi. Il New York Times accusa la California di "inseguire soluzioni magiche". Definisce i corsi online "inadatti" per questo compito. "Quei corsi funzionano per degli studenti già preparati e fortemente motivati, ma sono potenzialmente disastrosi per masse di studenti in difficoltà a cui mancano delle cognizioni di base". Soprattutto per le matricole, in arrivo da un sistema liceale pieno di problemi, i primi anni del college fungono da scuola di recupero per compensare lacune di matematica, lingua, capacità analitica.

Meraviglie e delusioni dei corsi online sono raccontati dal giornalista di Esquire, A. J. Jacobs, la cui testimonianza viene ospitata sul supplemento domenicale del New York Times (leggi sul sito web). In questo articolo, dopo aver seguito dall'inizio alla fine (esami inclusi) diversi corsi online, emerge un quadro molto problematico. I prof si trasformano in "pop star", i loro corsi sono conferenze spesso interessanti, talvolta entusiasmanti, ma senza alcuna interazione con gli studenti. Com'è noto nell'apprendimento è fondamentale ripetere ciò che il prof ha detto, farsi correggere, misurarsi in pubblico con gli altri studenti. Questa formula di insegnamento è atomizzata, ciascuno "consuma" il corso da solo. Oltre alla democraticità (costi zero, o quasi) ha il pregio della flessibilità: puoi studiare la sera dopo il lavoro, sul treno dei pendolari, negli intervalli del tuo lavoro. Puoi farti ripetere a oltranza la lezione che non hai capito. Puoi seguire un premio Nobel di Harvard anche se tu abiti nel Senegal. Ma il tasso di abbandono è altissimo: il 97% degli iscritti lasciano il corso prima della conclusione.  Il punto più debole è l'assenza di networking, l'università fatta in questo modo non ti consente di farti quelle conoscenze che spesso sono preziose nella ricerca di un lavoro. Di certo, se questo dovesse diventare il futuro dell'università, la prima categoria minacciata sono i docenti. Emergerebbe una élite di superstar, docenti in grado di vendere i propri corsi a milioni di studenti nel mondo intero.