L’Italia e il muro alle riforme Tra stagnazione e cambiamento, tra vecchie pratiche e riformismo: lo sguardo analitico dell’autore sulla situazione dell’educazione universitaria nel nostro paese. di Damiano De Rosa da Education 2.0, 8.4.2013
Il contesto italiano non è tra quelli che preferisco analizzare,
soprattutto per una caratteristica: la sua atavica propensione alla
conservazione.
È dunque estremamente difficile rilevare degli elementi che vadano
nel senso del policy change. Storicamente, tuttavia, il quadro che sembra delinearsi è quello di uno stallo e della presenza di un doppio livello nell’elaborazione delle proposte riformatrici: uno informale, ove ottime idee, spesso provenienti anche dalle best practices internazionali, si formulano e si propongono; e un altro più formale, che ha a che fare con la cristallizzazione di norme e assetti di potere immutabili da decenni, i quali rendono de facto molto faticosa una riforma del sistema di educazione universitaria. Si tratta di quello che è stato definito in diversi casi internazionali un “implementation gap”, che nella specificità italiana è sistematico e riguarda anche altri ambiti di policy. Le ragioni di questa situazione di stallo storico sono, a mio modo di vedere, individuabili in tre fattori: - innanzitutto la maggior parte degli attori del settore dell’higher education italiana è assai resiliente al cambiamento, e tradizionalmente votata a un mantenimento dello status quo; - in secondo luogo la società italiana percepisce ancora il mondo universitario come sostanzialmente irrilevante; - in ultimo, le politiche di higher education non sono mai state centrali nelle agende dei partiti politici, poiché non pagano in termini di consenso elettorale. Dunque quanto detto prima ha portato alla conseguenza storica che, prescindendo dai cambiamenti apportati al settore durante il regime fascista, per i quaranta anni successivi al sistema di higher education vennero apportate soltanto modifiche marginali e minime. In due casi questa continuità è stata rotta in modo deciso; si tratta delle due riforme di cui andrò ora a parlare.
La prima vera riforma di un certo peso ebbe luogo nel 1989, a opera
del ministro Antonio Ruberti che agì in modo innovativo per
iniziativa personale.
La seconda riforma fondamentale in questo difficile percorso è stata
quella messa in atto dal ministro Berlinguer nel 1999, in
applicazione degli accordi del processo di Bologna. L’importanza di queste due riforme non è mai stata abbastanza riconosciuta e apprezzata nel contesto italiano, ed è stata, e anzi è ancora oggi, soggetta a critiche e tentativi di controriforma.
Questa è un’ulteriore dimostrazione di quanto sia difficile
instaurare un percorso di cambiamento in un Paese che stenta ad
avere nel suo DNA un’autentica cultura riformista e che preferisce,
a tutti i livelli, il ritorno ai vecchi adagi e alle vecchie
pratiche, anche quando questa malsana abitudine rischia di isolarlo
sempre di più a livello internazionale; e di isolare di conseguenza
sempre di più gli studenti italiani.
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