Scuola e educazione perduta: di Monica Lanfranco Il Fatto Quotidiano, 5.4.2013 La frase dell’insegnante di matematica romana pronunciata verso una alunna di origine ebraica, (rea di essere poco attenta alla sua lezione) “ad Auschwitz saresti stata più attenta”, presenta molti lati interessanti e utili per capire svariati aspetti della crisi sociale, culturale e politica italiana. Ancora di più è stimolante la motivazione addotta dalla docente per giustificare e spiegare la presunta motivazione educativa della frase stessa. L’insegnante, infatti, avrebbe detto, dopo l’apertura di una indagine ministeriale sull’accaduto di averlo fatto per “indicare un posto organizzato”. E quanto a questo non c’è dubbio: i campi di sterminio sono un paradigma eccellente di ordine, pulizia (finale) e organizzazione, nella storia dell’abominio umano, e hanno fatto pure scuola, come si suol dire, perché i buoni esempi sono di certo da imitare. Ma a parte le considerazioni di ironia macabra, che da Woody Allen in poi molte personalità di origine e cultura ebraica hanno regalato al mondo per riuscire perfino a sorridere del loro doloroso percorso questo episodio, (e in parte le offese sessiste coscienti di Battiato così come l’autodenigrazione di Onida verso il suo stesso ruolo) sono un bel pacchetto di materiale sul quale ragionare. Il tema è la rottura del patto educativo tra agenzie di formazione alla civiltà e responsabilità. Non si tratta di mentire o essere ipocrita. Si tratta di chiamare le cose con il loro nome, che per Rosa Luxemburg era il primo gradino per attuare una rivoluzione, e di essere conseguenziale, al massimo delle proprie possibilità, quando si decide di ricoprire ruoli di rappresentanza, educazione e quindi di responsabilità. In un suo recente commento Ilvo Diamanti su Repubblica ragiona della mutazione antropologica da oltre vent’anni in atto nel linguaggio politico italiano e scrive: ”Chi sta in alto, i rappresentanti, insegue chi sta in basso, i rappresentati. E scende più in basso possibile. Tutti leader e tutti follower. Gli ‘eletti’ fingono di essere come il ‘popolo’. Per imitare il ‘volgo’ cercano di essere ‘volgari’. E ci riescono perfettamente. Senza fatica. Perché spesso sono peggio di loro. Nei comportamenti e nelle parole. Hanno trasformato il Parlamento e la scena politica in un luogo dove non esistono limiti né regole. Ai discorsi, al linguaggio. E, allora, perché resistere? Perché rivolgersi, ancora, agli altri in modo educato? Perché chiedere rispetto: tra genitori e figli, professori e studenti, autorità e cittadini, immigrati e residenti, vicini e lontani, amici, conoscenti e sconosciuti. Perché? E perché limitarsi alle parole e non passare alle vie di fatto? D’altra parte, la distanza è breve. Le parole sono fatti”. Così un (nominato) saggio accetta la candidatura ma poi ammette (non sapendo di essere registrato) di non servire a nulla; un uomo di cultura sprofonda nel sessismo; una professoressa eleva a esempio d’ordine la pratica dell’olocausto. E’ inevitabile e giusto moltiplicare il dileggio, la stigmatizzazione e la sanzione per questi comportamenti. Resta però un senso acuto di allarme: la sottovalutazione dell’importanza delle forme del fare, alcune delle quali giustamente criticate negli ultimi decenni del secolo scorso quando erano vuote manifestazioni di manicheismo e opportunismo ipocrita, oggi ci frana addosso. Perché le forme che si scelgono per dare senso e contenuto al fare, nella politica come nella scuola come nella famiglia influenzano indistricabilmente il contenuto che mettiamo al mondo. La scelta di forme, metafore, esempi triviali, offensivi, approssimativi e non ragionati porta con sé un analfabetismo di ritorno pericoloso e pervasivo che tracima ovunque e diventa cultura dominante: è nei bar come in Parlamento, nelle scuole come nei movimenti, nelle piazze come nelle famiglie. Quando, qualche anno fa, si cercò in una scuola media genovese di intervenire di fronte ai ripetuti insulti verso una ragazzina apostrofata ‘troia degli ebrei’ la scuola alzò le mani in segno di resa: “Non possiamo fare lotte contro i mulini a vento”- fu la risposta nella civile città medaglia d’oro della Resistenza, mentre ancora era viva Liana Millu, autrice di Fumo di Birkenau. Conforta moltissimo la pronta reazione, sembra compatta, della classe a sostegno della ragazzina romana: resta l’inquietudine per la crepa aperta ogni volta che gli adulti vengono meno al compito delicato e fondante di dare esempio di responsabilità, empatia e cultura alle giovani generazioni. |