Dieci considerazioni sulla valutazione
(E qualche nota sul regolamento)
Franco De Anna ScuolaOggi 2.4.2013
1. Una impresa sociale (un sottosistema sociale) di dimensioni
ampie, coinvolgente (almeno) l’universo delle nuove generazioni, di
complessa architettura e organizzazione, che è alimentato da grandi
quantità di lavoro, che necessita di grandi risorse economiche,
professionali, organizzative, deve dare conto dei risultati che
ottiene. La valutazione (dell’impresa..) rappresenta una condizione
sia per promuoverne il miglioramento interno sia per dare fondamento
all’investimento di risorse necessario alla sua funzionalità
(soprattutto quando queste siano pubbliche).
2. Nel caso della scuola, si tratta anche di una “istituzione” (un
sottoinsieme istituzionale). Dunque elabora non solo “funzionalità”,
ma “significazione” (individuale e collettiva). L’elaborazione di
significato è distinta ma ovviamente connessa con le modalità di
realizzazione delle “funzioni”. La “materialità” dei processi
(lavoro, spazi, tempi, ambienti, organizzazione) costituisce la
struttura sulla quale si fonda la dialettica della significazione.
Tale dialettica si riverbera e complessifica il “costrutto” della
valutazione, ma non ne annulla l’esigenza. Rende più arduo il
compito ma non esime dall’affrontarlo.
3. L’assetto dei significati elaborati e ereditati (istituiti)
rappresenta un repertorio variamente “codificato” (dunque si offre
alla “misurazione”). Ma la “significazione” è processo “istituente”,
e quindi sottratto al paradigma del “risultato” e dunque della
misurazione.
Ma il processo istituente si sviluppa in un “apparato istituito”:
tale dialettica rappresenta il cuore della relazione educativa nel
“fare scuola” entro una organizzazione. (Qualche cosa di più o
meglio di diverso dal nucleo “pedagogico” del rapporto
maestro-allievo).
La consapevolezza che non tutto dunque sia misurabile, sarà tanto
più piena e matura quanto più si provveda a misurare tutto ciò che è
misurabile. Misurando tutto ciò che è misurabile (e solo ciò che è
sensatamente misurabile) si libera la componente “istituente” della
formazione, si impedisce il riduzionismo funzionalista indifferente
al piano della “significazione” (il riduzionismo funzionalista
produce fallimenti anche sul piano stesso della funzionalità).
4. Il valutare è attività permanente del soggetto nel suo rapporto
con la realtà (con sé stesso). L’elaborazione del giudizio,
l’assegnazione di valore (la valutazione) presiede a tutta la vita
quotidiana. Raramente tale attività “personale” è legata a
“misurazione esplicita” (valutare è uguale a misurazione più
elaborazione del giudizio) o meglio a misurazione attraverso
strumenti “formalizzati”.
Ma se la valutazione attiene ad un sistema organizzato le fasi di
misurazione ed elaborazione del giudizio e gli strumenti utilizzati
devono essere esplicitati e controllabili. Sia perché devono
offrirsi ad ogni possibile comparazione, sia perché devono essere
sottoposti a manutenzione e continuo miglioramento (la valutazione
dei sistemi organizzati è una branca fondamentale della ricerca
sociale).
5. In un sistema organizzato (una impresa, una amministrazione…) la
valutazione riguarda fondamentalmente tre oggetti: i “risultati”,
“l’organizzazione”, le “persone nell’organizzazione”. Ciascuno di
tali oggetti richiede strumenti, metodologie di osservazione,
protocolli, regole, processi di formazione del giudizio specifici.
Vi sono ovviamente confini di sovrapposizione tra la strumentazione
valutativa dei diversi oggetti (e una area comune costituita dalla
“cultura valutativa”); ma non si possono confondere i caratteri
specifici di ciascuna funzione.
Il corto-circuito tra metodologie, strumenti, protocolli specifici
per ciascun oggetto di valutazione corrisponde ad un errore
metodologico (riduzionismo) e ad una approssimazione operativa
foriera di fallimento della stessa istanza valutativa.
6. Il rapporto valutato-valutatore costituisce una relazione
asimmetrica. Come tutte le relazioni asimmetriche è foriera di
conflitto, esplicito o latente. Come tutte le relazioni di conflitto
richiede una “clinica” (un atteggiamento e degli strumenti di cura).
Il carattere di “oggettività” che si invoca come “garanzia” è, sotto
tale profilo, un pretesto che dà parola al conflitto piuttosto che
uno strumento per governarlo. Non esiste “oggettività” nella ricerca
sociale.
La asimmetria valutato valutatore richiede innanzi tutto la
esplicitazione del posizionamento in tale asimmetria. Il rapporto
tra valutato e valutatore va dalla prossimità assoluta
(autovalutazione) con il rischio della collusione, alla estraneità
assoluta con il rischio della collisione.
A tali estremi corrisponde il doppio rischio di fallimento di ogni
istanza valutativa: l’opposizione esplicita e pregiudiziale, da un
lato; l’adattamento conformistico e opportunistico, dall’altro.
Gestire in modo esplicito e condiviso tale asimmetria è il primo
compito “politico” di un sistema di valutazione applicato ad un
insieme organizzato. Non annulla il conflitto ma crea le condizioni
per la gestione assennata della sua dialettica.
7. La “accettabilità sociale” della valutazione, posti i caratteri
di asimmetria relazionale e di conflitto esplicito o latente che
contiene, è fortemente legata alla estensione ”orizzontale” dei
protocolli valutativi a tutti gli oggetti specifici della
valutazione (risultati, organizzazione, persone: tutti sono
valutati).
Ma congiuntamente alla estensione “verticale”: si valutano sia i
risultati, le efficienze, le produttività, le professionalità, ma
anche le strategie e i decisori che le pongono in essere, fino alla
valutazione delle “politiche pubbliche”, alle scelte delle quali un
sistema come quello della scuola è vincolato.
L’accettabilità sociale delle contraddizioni che la valutazione
suscita è condizionata dalla possibilità di esplorare l’intera
matrice della valutazione stessa, sia orizzontalmente che
verticalmente.
8. Un sistema di valutazione che voglia e sappia affrontare il
compito “politico” di gestire in modo assennato l’asimmetria
valutativa e la sua “cura”, deve configurarsi ed essere riconosciuto
come “terzo” rispetto a tutte le celle della matrice valutativa. Sia
orizzontalmente rispetto ai diversi oggetti della valutazione, sia
verticalmente lungo l’itinerario che va dagli esecutori di una
strategia ai decisori della stessa.
Tale terzietà costituisce una componente fondamentale della pratica
operativa del soggetto valutatore, e contemporaneamente una
caratteristica istituzionale formalmente definita.
La prima, operativa, è fondata sulla riconosciuta autorevolezza
scientifica e professionale e certificabile del valutatore; la
seconda deve essere “istituita” sulla distinzione formale e
statutaria tra decisori (politici e amministrativi) e valutatori.
9. Nella ricerca sociale (cui appartiene a pieno titolo quella
valutativa, se riferita ad un sistema organizzato) non è applicabile
il criterio della “variabile indipendente”.
Ogni sistema sociale organizzato è sempre un complesso
multivariabile con correlazioni complesse e simultanee tra le
diverse variabili. A differenza di quanto accade in un laboratorio
di scienze della natura (ma anche qui con grandi cautele sia
pratiche che di principio) non è applicabile il paradigma del
ceteris paribus.
Occorre, a maggior ragione, distinguere con attenzione le possibili
misure di correlazione tra variabili, dalla superficiale
enunciazione di legami di causalità tra fenomeni. (Correlazione non
è rapporto causale..)
Inoltre, in sistemi organizzati la cui funzione è connessa con
diritti alla cittadinanza (come la scuola), e dunque a vocazione
“universalistica”, non sono utilizzabili, o lo sono con estrema
cautela, e sempre con implicazioni di possibile azzardo etico,
metodologie di tipo controfattuale. (Vedi tentazioni presenti in
alcuni “progetti di sperimentazione” che isolano “campioni di
somministrazione” di condizioni di particolare favore, economico e/o
operativo)
10. Occorre sempre distinguere tra il “controllo” e la
“valutazione”, anche se le due attività spesso confinano o si
scambiano strumenti operativi.
Il controllo si colloca sempre nella dimensione della “gestione”. La
valutazione ha invece a che fare prevalentemente con la dimensione
della “strategia”.
La distinzione non è “separazione” assoluta, esplora invece la
necessità di un “posizionamento”; ma in relazione ad esso mutano gli
interpreti e i significati.
Fondamentale per determinare tale posizionamento è la variabile
“tempo”. Il controllo ha una dimensione squisitamente sincronica. La
valutazione è più pienamente diacronica.
Ciò vale per tutti i possibili oggetti di valutazione: si pensi alla
valutazione degli apprendimenti ed alla sua necessaria proiezione
sull’arco dello sviluppo del soggetto in formazione. Ma anche per
quanto riguarda le organizzazioni (che sono formazioni collettive
che operano nella dimensione temporale, e che hanno evoluzioni e
cambiamenti similmente ai soggetti) e per quanto attiene alle
persone nell’organizzazione, implicate in dinamiche collettive e con
potenziale evolutivo.
Nelle dieci affermazioni precedenti ho cercato di sintetizzare
argomentazioni complesse (alcune sviluppate altrove ed in altre
circostanze). Non mi affascina rispondere punto a punto ai contenuti
del decreto sul sistema nazionale di valutazione, ma credo che
alcuni elementi di giudizio emergano dalla declinazione coerente di
esse.
Mi trovo molto d’accordo con l’atteggiamento (se non con tutte le
argomentazioni) di Antonio Valentino; e non perché anch’io abbia
inclinazione al “mezzo pieno”, ma perché penso che il decreto stesso
sia sufficientemente “a maglie larghe” (avrebbe potuto esserlo di
più e più appropriatamente: in realtà mescola maglie larghe con
alcune puntualizzazioni francamente inutili) da consentire
potenziali di traduzione operativa interessanti.
Ad alcune condizioni però.
1. Quelle (supposte) maglie larghe e il loro potenziale operativo
vanno riempite di contenuti culturali, scientifici, tecnici
appropriati. Certo l’INVALSI e il suo “consistere” tecnico. Ma io
credo sia necessaria una vera e propria “operazione culturale” che
coinvolga il “popolo della scuola”, sia in termini di condivisione
culturale, sia in termini di vera e propria elaborazione,
sperimentazione (penso per esempio alle diverse esperienze di
autovalutazione rielaborate da anni nelle scuole).
Ma quale “organizzazione della cultura” (Gramsci) può presiedere a
tale mobilitazione di risorse culturali, professionali,
scientifiche? A me pare questo il punto di maggiore preoccupazione:
quando osservo le aggregazioni della “organizzazione della cultura”
nella scuola (dall’associazionismo, al sindacato, agli stessi punti
di aggregazione web) devo resistere alla tentazione di guardare
all’altra metà del bicchiere.
2. La questione dell’assetto istituzionale dell’INVALSI va risolta
una volta per tutte. E similmente quella dell’INDIRE.
Da oltre un decennio siamo in sostanza in una permanente fase di
transizione istituzionale, di “gestioni provvisorie”, di soluzioni
parziali.
Non si tratta solamente di garanzie di terzietà del valutatore. Si
tratta di riconfigurare l’intero assetto della Ricerca Educativa e
di affermarne l’autonomia dal decisore amministrativo e politico.
Il piccolo pasticcio contenuto nel Decreto sul Sistema di
Valutazione sulle funzioni esercitate dal Ministero e quelle
dell’INVALSI non si risolve infatti attraverso una correzione di
avverbi o di affermazioni sovrapposte.
Con un particolare aggiuntivo: il sistema di istruzione è
configurato a “governo misto”, e dunque con una pluralità di
decisori che coinvolge Stato, Regioni, autonomia scolastica.
La Ricerca Educativa (quella valutativa compresa) va configurata
come “tecnostruttura” al servizio dell’intera governance. (Si
potrebbe copiare assennatamente dal sistema sanitario nazionale?
Vedi funzioni dell’AGENAS, della agenzia del farmaco, dell’Istituto
superiore di Sanità…ci sono ispirazioni abbondanti, non tanto per
scimmiottare, ma almeno per trarre ispirazione per criteri di
fondazione sistemica della Ricerca Educativa). Tra l’altro la stessa
pluralità dei referenti della tecnostruttura rappresenterebbe una
ulteriore garanzia operativa della terzietà reclamata, superando la
“strumentalità” del rapporto tra Istituti della Ricerca Educativa e
Ministero (non solo committente..)
3. Nella fase di “sperimentazione” del Sistema Nazionale di
Valutazione (VALES ed altro) si stanno sovrapponendo a mio parere
pericolosamente diversi protocolli che si riferiscono a diversi
“oggetti” di valutazione. In particolare un segmento di valutazione
delle persone (i dirigenti) con gli altri segmenti (valutazione
delle organizzazioni, valutazione dei livelli di apprendimento).
Nulla a cui non si possa ovviare, sia in corso d’opera di
sperimentazione, sia attraverso la “valutazione della strategia
pubblica” interpretata nelle sperimentazione.
Ma ciò richiede attenzione tecnico-politica ravvicinata e
disponibilità scientifica alla falsificazione dei risultati stessi
della sperimentazione. Il “decisore politico” farebbe bene a stare
lontano da tale dimensione, nei suo stesso interesse; così come il
protagonista “tecnico” deve disporsi a diagnosticare anche in
termini “politici” (policy, non politcs)
Ai “tecnici” dico solo: attenzione a prendere contraffazioni del
passato, ribattezzarle con nomi nuovi e chiamare tutto ciò
“innovazione”. Sono più di dieci anni che si sperimentano protocolli
di valutazione dei dirigenti scolastici mai andati a regime; e più
ancora sono gli anni passati dalle sperimentazioni autonome di
autovalutazione delle scuole.
4. Non mi preoccupano tanto gli eventuali “difetti” tecnico
scientifici dell’INVALSI. Metodologie, strumenti, protocolli possono
e devono essere sempre migliorati. Di ricerca si tratta.
E, d’altra parte, sono convinto che l’atteggiamento (presentato
anche in interventi in questo sito) di invocare che gli strumenti
siano i “migliori possibili” prima di applicarli sia semplicemente
strumentale al rinvio di un impegno scomodo e faticoso come la
valutazione.
Quello che mi preoccupa è il possibile isolamento dell’INVALSI.
Potrebbe infatti elaborare gli strumenti tecnici migliori possibili,
ma essi sarebbero semplicemente mandati fuori bersaglio (opposizione
pregiudiziale e/o conformizzazione opportunistica, l’esito sarebbe
il medesimo) se l’Istituto configurasse il suo rapporto con le
scuole (e con gli operatori della scuola) interpretando un soggetto,
centrale e lontano, che “distribuisce” adempimenti all’intero
sistema.
Si tratta di una questione di “politica”, ma non voglio porla in
questi termini a interlocutori che si configurano come “tecnici”.
Mettiamola così: l’Istituto deve investire in marketing e in
fidelizzazione verso i propri “clienti”.
Se al contrario si configura come un “monopolista” che detiene
potere e controllo sui costi e sui prezzi, lucrando sulla sua
posizione di monopolio, non mette in discussione semplicemente il
consenso sulla sua attività (potrebbe non essere una preoccupazione,
anche se sarebbe segno di miopia), ma compromette le condizioni per
il successo della sua stessa mission.
Per ora l’INVALSI gioca il suo ruolo nella dialettica tra due
interlocutori: il Ministero da un lato, le scuole dall’altro.
Deve (almeno) “bilanciare” tale dialettica, in attesa che anche
istituzionalmente si costruisca il completo riferimento con il
complesso del Sistema di Istruzione e la sua governance. (Vedi
sopra).
Se, nella gestione di tale dialettica, non “conquista” le scuole,
gli rimane un unico interlocutore che, oggi, si configura come il
“padrone”.
E non è certo una condizione ottimale per un ricercatore che tiene
alla sua autonomia scientifica.